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CAPITOLO XVI. Suo arrivo a Firenze. – La saggia Isabella. – Un suo giudizio in estetica. – La Ricciarda, terza tragedia. – Recita della medesima. |
CAPITOLO XVI.
Suo arrivo a Firenze. – La saggia Isabella. – Un suo giudizio in estetica. – La Ricciarda, terza tragedia. – Recita della medesima.
Distaccatosi dalle braccia materne fu il Foscolo trattenuto ancora a Milano da febbri reumatiche passò qualche tempo a Belgioioso, in campagna, e giunse a Firenze ai 17 agosto 1812 non senza qualche peripezia nel viaggio. Il troppo caldo e il vento della montagna gl'irritarono fortemente la tosse, e il cavallo di mezzo, non essendo stato imbracato alle stanghe, il postiglione per evitare una disgrazia, quasi certa nell'oscurità della notte, cacciò il legno a corsa giù per la scesa che, urtando ne' sassi, andava a balzelloni col pericolo di ribaltare ad ogni momento. Smontò all'albergo delle Quattro Nazioni: poi si scelse alloggio nella villa Albizzi a Bellosguardo, luogo elevato, ameno, di dove lo sguardo abbraccia quasi intera la sottostante città. Quivi quei colli ridenti, l'aria dolce e serena che facea più vivo il contrasto col clima freddo e nebbioso di Lombardia, i cordiali colloqui di antichi amici e di signore gentili, gli procacciarono quiete e volontà maggiore di sciogliere il freno alla fantasia poetica. Compose di pianta una nuova tragedia, la Ricciarda, argomento italiano tratto dal medio evo, e si rimise sul lavoro del Carme alle Grazie che ivi condusse molto innanzi.
Concepì probabilmente allora l'idea di dedicarlo ad Antonio Canova, tocco forse d'ammirazione alla vista della sua Venere, e sapendo ch'ei stava lavorando al gruppo delle tre Grazie commessogli dall'imperatrice Giuseppina, o, forse perchè l'illustre Isabella Teotochi-Albrizzi gliene promosse la voglia.
Per essere la saggia Isabella, com'ei la chiamava, donna di spirito e di molta dottrina, gli uomini insigni del secolo, sì nazionali che esteri, gareggiavano per procacciarsene l'amicizia, della quale il Foscolo poteva a maggior diritto vantarsi, come nativa di Corfù e sposa a un patrizio veneto. Aveva ella intrapresa la descrizione delle opere di scultura e di plastica dell'immortale scultore, e però richiedeva un apprezzamento del Foscolo su quel nuovo lavoro. Egli appaga il desiderio dell'amica con un confronto comparativo delle due Veneri in un paragrafo di lettera, portante la data 12 ottobre 1812, che qui trascrivo per gl'intendenti delle arti belle, onde possano giudicare sul valore di un suo giudizio in estetica. «Or mi tocca (e vorrei che non m'avanzasse più foglio), ma mi tocca pur troppo; e tremando (nè io sono facile a tremare) parlarvi della Venere del Canova.... Io dunque ho visitata e rivisitata, e amoreggiata e baciata, e (ma che nessuno il risappia) ho anche una volta accarezzata questa Venere nuova. Non importa che io, per dirvene il mio parere, torni a vederla, sì perchè incancherito come son io, non posso uscire sotto il diluvio di tanta acqua per cui l'Arno ier l'altro sera uscì a passeggiare per Firenze; sì perchè io ho tutto nella mente e nel cuore il bel simulacro di quella Diva. Ed è pur bello! ma non crediate che spiri deità come l'altra, nè quella celeste armonia: ma pare che il Canova paventasse la terribile gara dell'arte, col greco scultore; onde abbellì invece la sua nuova Diva di tutte quelle grazie che spirano un non so che di terreno, ma che muovono più facilmente il cuore, fatto anch'esso d'argilla. E mi ricordo ch'io, giovinetto in Firenze, non mi sentii vinto, com'io presumeva, dalla bellezza della Venere de' Medici, ma dopo alcuni anni, quando io la rividi a Parigi, l'adorai per più giorni, e non sapeva staccarmene: nondimeno era divota e meravigliosa adorazione, non altro. Ma quando vidi questa divinità del Canova, me le sono subito seduto vicino, con certa rispettosa dimestichezza, e trovandomi un'altra volta soletto presso di lei, ho sospirato con mille desiderii, e con mille rimembranze nell'anima: insomma, se la Venere de' Medici è bellissima dea, questa ch'io guardo e riguardo è bellissima donna; l'una mi faceva sperare il Paradiso fuori di questo mondo, e questa mi lusinga del Paradiso anche in questa valle di lagrime. Quanto al lavoro considerato senza idea di paragone, parmi che l'artifice abbia superato sè stesso, segnatamente nell'atteggiamento voluttuoso del collo; nell'amorosa verecondia del volto e degli occhi, e nella mossa amabile della testa: ma benchè la voluttà, la verecondia e l'amore sieno doti celesti, per cui la misera e trista natura nostra partecipa talor del divino, sono pur sempre doti che ricordano l'umanità.»
E altrove così definisce il bello nelle arti. «Non essere veramente belli, se non que' lavori d'immaginazione che a prima vista sembrano semplicissimi, e quasi usciti spontaneamente dalla mano della natura; ma che quanto più si riguardano, tanto più sembrano nuovi e diversi.»
Il carattere della Ricciarda gli fu inspirato, dice il Carrer, da un modello vivente che stavagli spesso d'innanzi agli occhi. Accennava alla Donna gentile col qual nome Ugo chiama la Quirina Mocenni-Magiotti, donna di alti sensi e di animo raro, la quale, dice il signor Orlandini, compendiava in sè l'avvenenza e la grazia del corpo, la coltura della mente e la bontà del cuore. Apprese a conoscerla in questa sua seconda dimora a Firenze e l'ebbe di poi sempre cara, serbandole affetto e riconoscenza fino alla morte. Ma in quanto al carattere della Ricciarda rilevasi da una lettera al Trechi di Cremona14 ch'ei volle dipingere in esso la fisonomia di due persone insieme a lui care; una la Fulvia sorella di questo amico, maritata a un conte Nava, che si sarebbe augurata per moglie; l'altra una signora di Milano, (la pallida ed infelice persona) che più avanti conosceremo. Così l'amore di Guido «è tal quale, dice, lo aveva osservato nell'anima generosamente sdegnosa, e quasi feroce, ma nobilissima e altera d'un mio povero amico che non è più su la terra.» Lo sventurato Benedetto Giovio.
Seppe guadagnarsi anche l'animo e la confidenza della contessa d'Albany, la cui casa era il convegno di persone distinte per merito, e, quante capitavano in Firenze di più illustri in Italia e fuori, eranvi accolte. Se lo teneva ad onore, e scrivendone a persona amica diceva: «La Contessa che ha pigliato a volermi bene, mi lasciò vedere tutti quanti i manoscritti del Tragico; ed ho imparato da essi sul carattere del suo ingegno e dell'animo suo più di quello che io avrei saputo dalla sua vita.»
Diè lettura alla Contessa della Ricciarda, come avea fatto coll'Ajace ad alcuni amici, e n'ebbe il seguente parere ch'egli scrisse all'Albrizzi, e cioè; che il primo atto prometteva tanto da non lasciar credere che si potesse andar più oltre, e che nel pieno era tale, che gli spettatori, se fosse stata più lunga, non avrebbero potuto reggere a tanta pietà.
È in fatti cosa troppo straziante il vedere un padre inumano (Guelfo) che non cessa mai d'inveire contro la propria figlia, la quale è un fior di virtù, e l'uccide piuttosto che concederla in moglie al figliuolo del suo competitore e fratello (Averardo). Indi preso d'orrore per tal misfatto rivolge il ferro contro sè stesso, e termina la catastrofe col suicidio. Anche quel nascondersi di Guido, durante tutta l'azione fra i sepolcri di famiglia della sua amante, presso cui erasi furtivamente introdotto, non fa buona impressione e non dona al carattere dell'eroe. Ma, benchè non senza difetti, questa tragedia ha meriti alti ed incontestabili, e degna è di aver posto fra le buone del teatro italiano, anche perchè fu essa ornata di gusto alfieriano, come più confacente al soggetto, mentre l'Ajace sente lo stile omerico.
Fu recitata in via d'esperimento la prima volta a Bologna dalla compagnia Reale (quella stessa, credo, che rappresentò l'Ajace) li 17 settembre 1813, quando l'autore vi transitò al ritorno di una corsa data da Firenze a Milano; ma prima che ne fosse concesso il permesso c'era voluto del buono. I revisori, a cui non era ancora uscita di corpo la paura pel fatto dell'Ajace, si sgomentarono alla sola vista del manoscritto; ed immaginando altre chi sa quali allusioni, che l'autore non avea neppur sognate, la cassarono con un colpo di penna; ond'egli intercesse presso i ministri del Vicerè che la permisero. L'esito ne fu incerto per un cumulo di circostanze contrarie, estranee al merito della produzione. «Colui che fra' comici dovea far la parte di Guido ammalò di pleuritide, e chi lo supplì ammalò di tonsille, ed il terzo che per disperazione s'assunse la parte è più infermo degli altri. È vero che costui et mangia, et beve, et dorme, et veste panni, et fa cose da sano altre parecchie, ma alla stretta de' conti è infermissimo, perchè ha il cervello fatto naturalmente di fibra cornea.»
Così scriveva il Foscolo a Giuseppe Grassi qualche giorno innanzi alla rappresentazione, la quale avvenuta, ne dà ragguaglio alla contessa d'Albany colla seguente lettera, che qui inserisco, persuaso di far cosa gradita al lettore per la ingenuità e leggiadria di cui è intessuto il racconto.
» La tragedia fu pessimamente recitata, ed io lo sapeva innanzi la recita; e saetta previsa vien più lenta, diceva Dante, ma lasciai correre una pessima recita per fare un esperimento qualunque su l'arte mia, e levare a' proibitori l'occasione di scomunicare politicamente i miei scritti. Guelfo avrebbe fatto eccellentemente, se non avesse voluto far troppo; Ricciarda pareva una ragazza sentimentale, anzichè una principessa innamorata altamente, piacque nondimeno al pubblico: a me spiacque moltissimo. Averardo fu sostenuto ragionevolmente, ma Guido fu recitato in modo ch'io stesso che l'avea meditato e scritto e riletto non intendeva ciò che quel disgraziato fantoccio, vestito in scena da eroe, volesse mai dire. E se si vuol dire il vero, quel mio Guido è carattere che mi piace ognor meno: parla e non opera: è cagione di tutti i guai, e non può, nè sa, nè medita mai di recarvi rimedii, e se non trova un attore il quale con la sua immaginazione animi i versi del poeta, Guido, ho paura, sarà carattere donchisciottescamente petrarchesco, ridicolo insomma: Dio mi faccia tristo profeta! In questo esperimento per altro non ho per anche potuto assolutamente decidere intorno a sì fatto personaggio, perchè nè il pubblico nè l'autore intesero una parola da lui pronunziata. La scena era ben decorata, esattamente dipinta, e il vestiario convenientissimo a' tempi e magnifico. Dopo il primo atto, il pubblico picchiava le mani, ed io nel mio cuore avrei picchiato tutte quelle testaccie di corno, le quali non sapevano che il miglior regalo che si possa fare a un autore è il silenzio. Ma la benevolenza pubblica m'irritava ancor più dopo il secondo atto. Si chiamava l'autore a battimani, si urlava il mio nome, si tempestava rompendo le sedie, perch'io venissi a ricevere le congratulazioni del popolo-giudice, il quale intanto guastava la tragedia. Uscivano gli attori a cominciare il terzo atto, ed erano respinti dal popolo-sovrano che voleva fuori l'autore. Ma l'autore, che fa lo scrittore non già il ciarlatano, e che non espone la sua persona, bensì la tragedia, fece il sordo per più di mezz'ora; e non si lasciò smuovere mai, nemmeno dal podestà che era accorso per farlo uscire. Doveva io presentarmi sul palco scenico? Avrei fatto ciò che fanno gl'istrioni pagati. Salutare l'uditorio dal mio palchetto? Avrei, e ciò si sarebbe certamente ridetto a Milano, avrei affettati i modi di sua Maestà e del suo augusto rappresentante, i quali soli nel regno d'Italia sogliono ringraziare il popolo sporgendo il capo fuori del loro palchetto. Dio me ne guardi! Ma la mia modestia fu dall'uditorio ascritta a superbia: non volle più ascoltare col primo silenzio i tre atti seguenti, e il mio prematuro alloro mi si è sfrondato ad un tratto. I comici smarrirono anche quel po' di buon senso e di coraggio che avevano; e il terzo e quart'atto furono recitati, ch'io non ho mai visto recitar peggio. Il mormorio della platea andava peraltro acquetandosi; e il quint'atto fu solennemente udito ed inteso, perchè Guelfo gridava anche troppo, ma rieccitava l'attenzione de' nostri spettatori, i quali vogliono essere percossi dagli urli. La scena in cui Guido esce ad affrontare il pugnale di Guelfo riescì poco terribile, forse per la poca abilità degli attori, e forse per troppa lunghezza; ma io non posso ancora decidere se vada rifatta, nè come. Ma quanto all'ultima scena, nè il popolo, nè i comici stessi sanno come la sia finita, perchè il Diavolo ci messe nuovamente la coda. Avvenne che mentre Averardo e Corrado prorompevano sulla scena con armati e con fiaccole (io ne rido ed ella riderà certamente leggendo) avvenne che una di quelle torcie diè fuoco alla barba di crino d'una comparsa (le comparse erano una trentina di Tedeschi-Turchi di certo reggimento anfibio di guarnigione in Bologna) e il fuoco da una barba si appiccò alle altre, e al ridere successe il terrore, perchè l'acqua-ragia delle fiaccole, cadendo su le assi della scena, le ardeva; e frattanto gli spettatori erano divisi con l'attenzione all'accidente funestamente ridicolo ma reale, ed alla catastrofe immaginaria dell'infelice Ricciarda. Tuttavia il pubblico, con mia grandissima maraviglia, si contenne decentemente, e la mia Ricciarda, benchè recitata, non fu recitata nè per me nè per gli altri. Chi la lodasse o la biasimasse dopo questa recita, sarebbe ingiusto e impostore. Io frattanto rimasi incantucciato nel mio palchetto e imperterrito, come quel turco fatalista, che mentre gli crollava addosso la casa, continuava a fumar la sua pipa e a sorseggiare il caffè. Eccolo tutto. Se non le pare che basti, io le dirò il rimanente martedì sera dintorno al tavolino rotondo. Dio Signore le conceda pazienza, e le preservi gli occhi alla lettura di queste mie cifre caldee, ec....»
Dopo questa prova della Ricciarda nasce all'autore un dubbio sul suo metodo di scrivere per la scena, e lo manifesta con le seguenti parole, che colgono forse nel vero: « .... mi convinsi quasi, che il mio stile non è punto per gli orecchi del popolo; e questo è difetto incorreggibile, perchè sta nella tempra dell'animo e della mente dello scrittore.»
Però gli rimase ferma la convinzione che come lavoro letterario, valeva, ed abbiamo argomento per crederlo l'averla pubblicata dopo sette anni a Londra (dedicandola a lord John Russell) dove ne dissero meraviglie, e, pur co' suoi grandi difetti, dic'egli, fu venduta a dozzine.
D'allora in poi non pensò più alle tragedie, e pose in dimenticanza un Edipo la cui ossatura avea disteso brevemente in prosa.