Pellegrino Artusi
Vita di Ugo Foscolo
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CAPITOLO XVIII. Battaglia di Lipsia. – Valore militare degl'Italiani. – Il Foscolo parte da Firenze. – Suo soggiorno a Milano. – Distacco amoroso. – La Contessa D'Albany. – Suoi ritratti.

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CAPITOLO XVIII.

Battaglia di Lipsia. – Valore militare degl'Italiani. – Il Foscolo parte da Firenze. – Suo soggiorno a Milano. – Distacco amoroso. – La Contessa D'Albany. – Suoi ritratti.

Mentre i giorni del Foscolo trascorrevano lieti e tranquilli nell'Atene d'Italia, ov'ei li dedicava, parte alle Vergini Muse ed all'amore, parte ai piacevoli conversari e al tenersi vivo con lettere agli amici lontani, parte all'ammirazione dei capolavori di cui essa va meritamente superba, i grandi avvenimenti che compievansi altrove vennero a disturbargliquieto vivere ed a torgli la speranza, che nudriva da tempo, di andarsi a ispirare nei monumenti dell'antica Roma che non avea mai visti.

Gli eventi si maturavano, e a grandi passi avvicinavasi la catastrofe che dovea annientare l'onnipotenza di Napoleone, e mettere di nuovo in forse le sorti degl'Italiani, che trascinava nella sua rovina. Dopo l'infausta e per sempre memorabile campagna di Russia, non valse la riscossa tentata con la battaglia di Lipsia (16-18 ottobre 1813) che, riuscitagli fatale, segnò la fine della sua gloria.

Il pregio in cui era tenuto da Napoleone il valor militare degl'Italiani è, a mio credere, giustificato dalle seguenti parole del Foscolo: «Gl'Italiani, (egli dice) hanno illusioni profonde e tenaci; pigliano coraggio dall'ira, ed impeto dall'avidità di vendetta; non affrontano il rischio; ma se il rischio li affronta, amano più il vendicarsi che il vincere, e si difendono fino alla morte: combattevano tanto accaniti nelle battaglie di Napoleone, se non quando vedevano scorrere il loro sangue

E soggiunge: «Quanto più contribuivano alle vittorie, e si vedevano sempre ausiliari, tanto più si adiravano; i vani panegirici nelle gazzette al loro valore bastavano a placarli della umiliazione reale della servitù

Settantamila ne annoverava la spedizione di Russia, i quali, come il Leopardi canta in suono lugubre,

«Morian per le rutene

Squallide piagge, ahi d'altra morte degni,

Gl'itali prodi; e 1or fea l'aere e il cielo

E gli uomini e le belve immensa guerra.

Cadeano a squadre a squadre

Semivestiti, maceri e cruenti,

Ed era letto agli egri corpi il gelo.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Di lor querela il boreal deserto

E conscie fur le sibilanti selve.

Così vennero al passo,

E i negletti cadaveri all'aperto

Su per quello di neve orrido mare

Dilacerar le belve

A quell'annunzio si sentì il Foscolo ribollire in seno gli spiriti guerrieri, e aperto l'animo a un'ultima benchè fugace speranza per le sorti d'Italia, si ricordò dell'abito indossato e dello stipendio che gli correva da militare. Pieno di questo nuovo fuoco marziale esclamando,

«Armi, armi grido; e libertade affretto
Più ognor deluso e pertinace amante,16»

lasciò Firenze nel novembre del 1813, e corse a Milano, dove il dovere17 e gli eventi il chiamavano, ed ove (per esser fedeli alla storia non va taciuto) una gentil persona, Elena Bignami, figlia di quell'Amalia Marliani tanto cara al Parini, languiva per lui di antico amore, contrastato dal sacro dovere di moglie e dalle gelosie del marito.

In aspettazione degli avvenimenti politici che andavano svolgendosi dovè protrarre a mal in cuore la sua permanenza nella vacillante capitale del Regno Italico per molti mesi. Annoiato dall'inazione, oppresso di spirito, spesso malaticcio ed infermo per febbri, emicrania, tosse e mal d'occhi, de' quali disturbi soffriva sovente, dolendosi di quel clima troppo freddo e nebbioso pel suo temperamento, agognava la perduta tranquilla vita di Firenze che pur troppo doveva dimenticare per sempre. Giunse frattanto il giorno della sommossa di Milano, che a suo luogo verrà narrata, dopo la quale, pel cozzo furente de' diversi partiti le passioni politiche avendo tocco il parosismo, il vivere in questa città erasi reso più difficile e pericoloso. Tentò allora di ritornare in Toscana e da Bologna, d'onde l'autorità politica austriaca lo respinse, scriveva li 9 maggio 1814 alla contessa d'Albany: «Per fuggirefatti pericoli io veniva in Firenze; e per adonestare la mia partenza mi feci addossare una commissione militare, tanto da poter anche tentare che si riducano a casa que' pochi nostri disgraziati che militavano di presidio nell'Isola dell'Elba, e che, non essendo stati pagati, sbarcheranno forse a Livorno o a Piombino, dandosi a rubare a masnade.» Di quel suo increscioso stato trovava sollievo a scrivere spesso e copiosamente alla detta Signora la quale, o fosse per la potenza dell'ingegno, o pel prestigio del nome, o per l'una e l'altra ragione insieme, esercitava su di lui un fascino straordinario. Sfogavasi a raccontarle i suoi patimenti fra' quali il sacrifizio impostosi di non rivedere mai più l'oggetto amato volendo ridonargli, se fosse possibile, la pace perduta per causa sua.

Pare che questo distacco riescisse veramente doloroso ad entrambi, e costasse ad essi uno sforzo di virtù non comune, perciocchè ella era donna d'alto sentire e dabbene, quindi tenuta in pregio. Oltre a ciò era dotata di quelle grazie che più adornano il gentil sesso talchè, in una festa di ballo, che i commercianti milanesi diedero nel teatro della Canobbiana all'Imperatore Napoleone nel gennaio 1808, ed ove concorse il fiore della capitale, fu da lui giudicata: la plus belle parmi tant de belles.18

Costante e caldo nelle amicizie credeva il Foscolo di aver trovato nell'Albany, accoppiato al raro ingegno, un cuore ove depositare con fiducia i suoi dolori morali; ma io temo forte ch'egli non s'ingannasse, stimando in lei animo sensibile e compassionevole. A quanto ne dice Massimo d'Azeglio ne' suoi Ricordi, non pare che ad onta della celebrità che le avea dato il gran tragico, ella fosse quel vaso di elezione ch'ei la credeva, e venne tempo che Ugo ne sentì il disinganno giacchè, invece di prendere viva parte alle sue afflizioni, gli scrisse una volta in modo da cagionargli disgusto; onde d'allora in poi divenne fra loro la corrispondenza epistolare più rada e meno cordiale.

Si tratteneva dunque, come si disse, in Milano per vedere qual piega prendessero le cose, trepidante più che per la sua sorte futura, per quella del fratello Giulio che, col grado di capitano e direttore della scuola di cavalleria a Lodi, godeva di un buono stipendio. Disperando oramai di un esito felice e stanco della vita agitata, pensava di ricongiungersi alla famiglia in Venezia, per vivere colà tranquillo, e a questo scopo le avea già fatto prendere casa più comoda ed ariosa; ma gli eventi, come si vedrà in seguito, disposero in altro modo.

Stava frattanto lavorando al suo ritratto in Firenze l'elegante pittore, così Foscolo chiamava Francesco Saverio Fabre di Montpellier, il quale era subentrato all'Alfieri negl'intimi affetti della Contessa. Glielo spedì poi a Zurigo ove, giunto in tempo che eravi un'esposizione, vi fu ammirato con meraviglia e stimato non che bellissimo, ma impareggiabile da que' pittori. Avendolo poscia ritirato a Londra ed appesolo in una sala del signor Murray, rimane forse ancora nella famiglia di quel libraio;19 ma presso alla signora Ernesta Mocenni Martelli nipote ed erede della Donna gentile ne esiste una bella copia in piccolo, eseguita dal Garagalli pittor fiorentino, a tergo della quale leggesi un sonetto autografo intitolato: A Francesco Saverio Fabre quando dipingeva il mio volto. Comincia: «Vigile il cor nel mio sdegnoso aspetto» e termina «Il mio volto per te vince la morte

Prima di questo aveva un mediocre scultore ritratta l'effigie sua in scagliola che da Firenze mandò per ricordo alla madre, una copia della quale essendo stata da lui spedita a Brescia in dono all'amico suo Camillo Ugoni, è a supporsi che altra simile sia quel busto in gesso che tuttora fa compagnia al quadretto del Garagalli. Un terzo ritratto, secondochè asseriscono gli editori toscani, alto pollici 10 e largo 8, rassomigliantissimo, in mezza figura, avvolta nella toga professorale, con una pergamena nella mano sinistra, disegnato alla matita nera, dal celebre Antonio Cagliani torinese, fu da Foscolo donato all'intimo suo cavalier Ugo Brunetti, il quale vivendo in timore non fosse per andar perduto col tempo, era disposto cederlo a chi assumesse l'incarico e la spesa di farlo incidere. Dopo la morte di lui passò successivamente in diverse mani fin che per ultimo rimase in proprietà del signor dottore Alberti, direttore dello Spedale Maggiore di Lodi. E qui mi chiamo in dovere, prima di passare ad altro argomento, di render grazie alla signora Martelli che gentilmente mi fe' vedere i due ritratti su mentovati non che quello di Giulio e l'altro della egregia sua zia dipinto in mezza figura dal Benvenuti. Da quella tela apparisce che nella Donna gentile bellezze non v'erano, ma che fosse assai piacente e che molto le donassero due begli occhi neri è asserito da chi ben la conobbe.





16 Sonetto a Saverio Fabre.



17 Scriveva in quei giorni all'amico Grassi: «Pur questa guerra mi tocca oltre la pelle, e se le cose non saranno liete e pacifiche, io lascierò per un poco – o per quanto tempo il cielo vorrà – quest'aere vivacissimo e quest'ozio tranquillo e operoso, e la dilettevole musica del volgo fiorentino amabilmente ciarliere, e verrò in Lombardia. Alla stretta de' conti bisogna pur pericolare con la sua patria e ricorrere all'ara della Dea sventura unitamente a' proprii concittadini



18 Elena o, come altri dicono, Maddalena Bignami, che Ugo chiama La pallida ed infelice persona, chi sa da quanti agognata pe' suoi meriti e per la rara bellezza, ebbe anch'essa la sua parte di sventure su questa terra: il fallimento del rinomatissimo banchiere Carlo Bignami suocero di lei susseguito dal suicidio, la morte di un fratello in guerra ch'ella amava teneramente e, se non erro, la perdita di un figlio grande venuto meno per consunzione.



19 Il mio ritratto (scriveva Foscolo alla contessa D'Albany in data di Londra, 6 settembre 1818) ha compagni quello di Lord Byron e di cinque o sei altri poeti alla moda, e gli smacca tutti, sì che quelli illustri paion ombre, ed io, unico, paio vivo. Vero e che del resto ci perdo al confronto del nome; ma il signor Fabre ci guadagna



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