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CAPITOLO XXI. L'Ipercalisse. – Discorsi Della servitù d'Italia. – Seconda edizione dell'Ortis. – Scandalo amoroso. |
L'Ipercalisse. – Discorsi Della
servitù d'Italia. –
Seconda edizione dell'Ortis. – Scandalo amoroso.
Dissi che il Foscolo trovò poi modo di alleviare la noia dell'esilio col pubblicare alcune sue opere. La prima fu l'Ipercalisse, già composta in Toscana fino dal 1813, che stampò a Zurigo con la falsa data di Pisa. Intitola Didymi Clerici prophetæ minimi hipercalypsos, Liber singularis, un'operetta scritta in latino, in tono profetico ed allusivo, della quale, dice, ne lasciai da cento copie stampate per gli indovini, e dodici che hanno una chiave le raccomandai alle mani di amici. La Chiave fa palese essere l'Ipercalisse una satira contro i dotti d'Italia che, mercanteggiando il sapere e la verità, corruppero le patrie lettere e alimentarono l'ambizione del Bonaparte. Quanto all'introduzione, a detta del Tommasèo, Foscolo essendo debole di latino, fu ritoccata dal Borgno. Ch'egli fosse debole di latino non posso asserirlo, però si mostra un abile traduttore di Tacito. È per altro vero che fidò al Borgno il manoscritto onde lo ripulisse col suo bello stilo e lo ricopiasse col suo bello carattere.
Non giudice io competente sul merito dell'opera, cedo la parola all'illustre Carrer e lascio a lui la responsabilità del severo giudizio che ne pronunzia. «Deplorando l'acciecamento estremo a cui si mostra condotto dalla bile chi abusa siffattamente le forze del proprio ingegno, noterò solo che, dopo aver deplorato l'abuso, gioverà considerare i dolorosi stadi cui dovette percorrere uno scrittore dotato di tanta squisitezza di sentimento prima di giugnere al rinnegamento di sè stesso e della dignità propria, e a bruttare la propria penna nella pozzanghera di simili vituperii.»
L'animo esulcerato dalla calunnia e dall'odio di que' suoi nemici gli dettò questo scritto; ma era più conveniente al nobile carattere di lui un generoso oblio che l'inveire contro persone, il maggior numero delle quali viveva allora oppresso dalla sventura.
Lungo il corso di sua peregrinazione, cominciando su le rive del Verbano e continuando in Val Misolcina terminò di abbozzare presso le sorgenti del Reno, durante la primavera del 1815, quei quattro Discorsi Della servitù dell'Italia, già meditati più anni avanti, i quali in Hottingen ampliò e corresse quando Silvio Pellico potè fargli avere le carte sue più importanti. Il primo fu pubblicato in Lugano soltanto nel 1844: degli altri tre, siamo tenuti al signor Enrico Mayer se videro la luce a' giorni nostri, imperocchè avendoli egli trovati fra le reliquie foscoliane, furono per cura sua riordinati, e con molto studio ricostitute in un sol corpo le diverse membra de' medesimi sparse confusamente.
Nel secondo de' detti Discorsi (che corrisponde al primo non contando il Discorso proemiale) prendendo egli in esame le funeste influenze delle sètte in Italia, comincia: «A rifare l'Italia bisogna disfare le sètte. Potrebbe se non disfarle, reprimerle il ferro straniero; ma allo straniero gioverà prima istigarle, onde più sempre signoreggiare per mezzo d'esse l'Italia. Poi dà la spiegazione della parola setta e dice: Questo vocabolo setta significa, a quanto io lo intendo e lo approprio, stato perpetuo di scissura procurata e mantenuta da un numero d'uomini, i quali, segregandosi da una civile comunità, professano, o pubblicamente o fra loro opinioni religiose, o morali, o politiche per adonestare segreti interessi, e sostenerli con azioni contrarie al bene della Comunità.» E termina: «Le sètte amano l'ozio scioperatissimo, e gridano pace, tendono a divorarsi fra loro, e provocano sempre il ferro dello straniero. E se alcune di loro bramano, o mostrano di bramare, la pubblica libertà, vorrebbero sempre dominar sole sugli altri. Nè il ferro straniero potrà disfarle; nè le reprimerà, se non quando le avrà tutte avvilite: frattanto le instigherà a desolare per mezzo di esse l'Italia.»
Degna di riferirsi è specialmente la fine dell'ultimo discorso; ma non si dolga il lettore se troppo spesso riporto frammenti di scritti già cogniti, poichè le elocubrazioni de' grandi ingegni non si leggono mai di soverchio. Quasi non bastassero le pene del volontario esilio, che si disponeva di sopportare con forza d'animo, lo teneva in timore la polizia austriaca, che messolo in mala vista presso il Governo del Cantone Ticino, si doleva gli avesse concesso il passo. Tranquillo di coscienza per l'operato suo, volgeva però il pensiero alle derelitte persone più care, laonde a sfogo di dolore chiude il componimento con un dolce e commovente ricordo alla vecchia madre. «E, poichè, dice, parmi di avere così provveduto all'onor mio e degli amici miei, e della universalità degli amatori della pubblica indipendenza, ne' quali unicamente consiste la Patria, non mi dorrò nè delle persecuzioni, nè della povertà, né de' pericoli della vita raminga. Nè altra virtù è più civile di questa, di sostenere i propri travagli senza mai lamentarsene, e tanto più quanto meno antiveduti, perchè l'amare la patria, e l'essere perseguitato furono sempre, anche nelle felici repubbliche, due cose inseparabili; e il dolersi de' travagli sofferti per sì alta passione è indizio che l'uomo cominci a pentirsi d'averla generosamente sentita.
» Non però sta in me il non affliggermi del dolore, a cui sono certo d'aver lasciate le persone che per amicizia, per famigliarità di studi comuni, per quel commercio di affetti che ha del celeste, per sangue e per sacre domestiche necessità, mi richiamano vanamente, e gemono in amaro desiderio di me, e dì e notte paventano i miei pericoli, e temono di non potere non che udire ch'io vivo, ma di neppur sapere ove ritrovare il mio asilo. E quanto più il loro amore mi riconforta, più il loro dolore m'angustia. – E su tutte queste, una Donna aggiunge alla mia continua angoscia il rimorso di avere più amato la Libertà e la Patria che lei: Lei, che vedova e sola abbandonò gli agi e la pace e l'amenità della sua terra natìa, e mi sostenne orfano e fanciullo, spogliandosi delle sue sostanze per educare l'ingegno mio, sì che la povertà non l'ha potuto nè intorpidire mai, nè avvilire; e con le amabili doti del suo cuore disacerbò l'acre indole mia, e raddolcì le mie bollenti passioni, e certo si aspettava ch'io le dovessi una volta rendere il frutto del latte ch'ella mi porse, e delle cure e dell'amore con le quali educava il suo figlio; ed ora sedendo sui sepolcri de' suoi congiunti, prevede che non potrà forse sapere a che parte della terra mandar le sue lagrime a benedir le mie ceneri. Se non che l'avrei più mortalmente piagata, s'io, immemore de' domestici esempi ch'ella mi ha ripetuto sovente, e delle vite degli antichi uomini ch'ella prima m'insegnò a leggere, contaminando o per venalità, o per timore, o per trista ambizione tutta la mia vita educata da Lei, io avessi posposto alla mia salute l'onore. Questo, spero, le sarà forte e divino refrigerio alle lagrime: nè le rasciugherà; ma le farà sgorgare dagli occhi della generosa vecchia assai meno amare.»
In Zurigo scoperse l'umilissimo sepolcro di Lelio Socino senese, che fu capo dell'eresia Sociniana. Dopo avere percorsa gran parte d'Europa, avea il Socino colà fissata la sua dimora, facendovi discepoli, ed ove morì nel maggio 1562.
Scrisse e stampò in tre soli esemplari un libercolo col titolo, Vestigii della storia del sonetto italiano dall'anno 1700 al 1800, che spedì, come ricordo d'affetto alla Donna gentile il primo gennaio 1816. Le dichiara di averlo composto segnatamente per lei e che non avendo libri che l'accompagnino nell'esilio, si era dovuto aiutare della memoria, la quale potrebbe averlo in qualche modo tradito nel riportare trascritte quelle poesie non sue.
Ripubblicò un Ortis e questa, per l'assistenza dell'autore, e perchè vi corresse alcuni modi che suonavano male, com'egli dice, al suo orecchio toscaneggiante, riuscì la più perfetta ed intera edizione fra le tante mutilate e malconce dagli stampatori. Benchè stampato a Zurigo porta la data di Londra 1814, ed ha per corredo un copioso scritto, composto fin da quell'anno, intitolato Notizia Bibliografica. Durante appunto la ristampa di questo romanzo s'impaniò in un intrigo amoroso con una nuova Teresa di ben altro carattere di quella vittima delle convenienze sociali. Ne nacque uno scandalo grande e cose che gli misero l'animo in tumulto, seguito da pentimento e rimorsi. Ne diè un primo cenno alla Donna gentile in termini vaghi, appassionati e vaneggianti che rammentano lo stile delle più calde lettere dell'Ortis; e quell'ottima donna per dar conforto all'amico risponde: «La tua letteraccia del 20 (marzo) l'ho davanti agli occhi: ho anche il tuo ritratto, e guardo or l'uno or l'altro con dolorosissimi sguardi, pensando a te che mi diventi più necessario e più caro, perchè ogni giorno più sventurato:
» Io amai te per le sventure tue,
Tu amasti me per la pietà che n'ebbi.»
» Oh mio dolcissimo amico! a che ti ha portato l'anima tua fervida! qualunque sia il delitto di cui ti accusi, e sul quale rispetto il tacermelo, non saprei come lodarti delle tue smanie, e dello strazio crudele che fai alle tue facoltà intellettuali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» Ho scritto e scongiurato Silvio a lasciare Milano e correre nelle tue braccia, invidiandolo nella sua libera volontà. Spero che non lascerà sì propizia occasione, e che ti sarà di sommo sollievo ne' tuoi guai.... ma per quel Dio che senti, e per l'amore che porti alla Madre tua, e per l'amicizia che hai per que' pochi che la meritano, inalza la mente; pensa che sei un uomo e non un Dio, e che l'umanità deve farsi sentire.
» Prosegui nel tuo proposito di andare in Inghilterra: levati da cotesta solitudine che ti fa misantropo e severo più del dovere, e ritorna alla tua indole, non dolce, ma schietta e leale. – Io sarò sempre l'amica tua ec.»
Poi quando la ragione gli tornò in calma gliene scrisse in più volte la storia intera che andò, a quanto pare, perduta per via. Però da susseguenti lettere alla medesima, e da documenti risguardanti il soggetto, si può stabilire su quel fatto un giudizio non troppo lontano, io credo, dalla realtà, e mi accingo a narrarlo in compendio per darne, se mi riesce, un'idea abbastanza esatta.
Era il Foscolo stato raccomandato a un banchiere di Zurigo il cui figlio, essendosi preso di stima e di amicizia per lui, lo andava spesso a trovare, ma benchè egli apprezzasse certe buone qualità del giovane, si sentiva piuttosto seccato dalle sue visite. Ciò nonostante essendo in seguito, come suol avvenire, accresciuta fra loro la confidenza, il figlio del banchiere volle presentar l'amico a sua moglie che allora villeggiava a poca distanza. Vi andai, dic'egli, e senza sospetto; sì perchè io aveva il cuore pregno d'altre passioni e sì perchè le signore Zurighesi sono bruttissime, e tutte, senza eccezione, gozzute e sdentate.
Sarà bene primieramente sapere che quella donna, figlia d'una illustre fanatica di Lavater, era leggiera, romantica, di mente esaltata, e con istranezze tutte sue proprie: bruttina anzichè no, ma vestiva elegantemente con un garbo tutto suo senza stare alla moda; ed avea, dice il suo ammiratore, un chè di attraente che mi abbagliava il cuore lasciandomi freddi i sensi.
Gli occhi poi, soggiung'egli, erano veramente eloquenti, si cambiavano in un attimo e stillavano veleno fatale; e in lei c'era anche una singolarità che non aveva riscontro in nessun'altra, e cioè; ch'ei non poteva rammentarsi la sua fisonomia dopo averla vista per ben sei o sette volte. E non è tutto; gli parve di scorgere in lei (sono sempre apprezzamenti del Foscolo) una sincerità sovrumana perchè, senza interrogarla, s'era confessata di vent'otto anni quand'ei gliene faceva soltanto venti; ed essendo caduto il discorso sulla trista dentatura delle donne del paese gli aveva mostrate le proprie gengive scorbutiche. Misera umanità, qui impara che quando un uomo grande è preso da una debolezza, la mente gli si offusca come al più comune mortale e sì l'uno che l'altro, quando sieno predominati da una passione, talvolta postergano, malgrado loro, i più sacri doveri.
La prima dimanda che ella gli fece, presente il marito, fu per chiedergli conto degli amori dell'Albany con l'Alfieri, e in guisa di donna che si dilettava di sì fatti argomenti, al che Foscolo rispose freddo che dalla vita ch'egli avea scritto di sè (ch'ella allora leggeva) si poteva sapere ogni cosa.
Fatto il primo passo si fece il secondo: le visite si ripeterono, divennero più frequenti; e amore, già grande, pareva trionfasse potente. Ma non fu lunga la loro felicità imperocchè, amando ella un altro, quando si vide da questo scoperta, ne fe' la confessione al Foscolo proponendogli di fuggire con lui; ripugnandole, diceva, essere così vile, da amare due ad un tempo. Da questa strana proposta e dall'avergli antecedentemente chiesto lettere per l'Italia col proponimento di abbandonare il proprio paese che asseriva di aborrire, s'accorse, ma troppo tardi, che con un simile carattere, l'amore diveniva pericoloso. Frattanto ella si mostrava disperata, dava in ismanie, piangeva dirottamente anche in presenza del marito, e contrastata in sè stessa fra i due amori si confessava dolente e rea di avere resi infelici due uomini; ma poi, incalzata forse dal primo arrivato, la irresolutezza scomparve e un altro giorno disse a Foscolo che non voleva tradire il suo primo amante.
O chi era il fortunato che contrastava ad Ugo Foscolo il possesso di un cuore, che non pareva darsi così facilmente ad altrui? Il singolare per l'appunto sta in questo, poichè quell'amante altri non era che un Toscano, povero diavolo disperato, maestro di grammatica, che andava a insegnare alla Signora la lingua italiana per un'ora del giorno, e ne passava quattro o cinque a fare all'amore con lei.
I sentimenti di perfettibilità religiosa e di eroismo sublime, che ella mostrava di professare, non avrebbero mai fatto supporre che i suoi intimi affetti fossero caduti in sì basso luogo, e prodigati a un uomo ch'ella pagava: perciò quando Ugo ne fu fatto avvertito dalla voce pubblica, che cominciava a divulgarsi, non è a dire come rimase. Ma per offesa maggiore si tenne quando videsi un giorno chiusa la porta di quella casa, a pretesto di voci che si erano sparse a carico suo per intreccio di un altro fatto,25 le quali essendo false, cominciavano già a dileguarsi. Allora l'ira, lo sdegno, la gelosia, l'offeso amor proprio lo invasero tutto; pur si contenne, e scrisse alla Signora una lettera di ultimo addio pregando di non mostrarla al marito, la cui tranquillità gli stava a cuore; e l'assicurava di non comprometterla, ripetendo in ultimo: Addio dunque per sempre. Pensate a vostro marito; e rispettate il suo riposo, e la sua anima sensibile, giusta e compassionevole.»
La Signora per tutta risposta gli rimandò il giorno appresso un libro che teneva da lui in prestito, cancellando in esso il nome di amico che precedeva a quello di Foscolo. A questo nuovo affronto e all'umiliazione di vedersi posposto al suo rivale, che menava vanto del proprio trionfo, si riaccesero i furori della gelosia e intimò al maestrucolo di subire la stessa sorte di lui col non riveder più quella donna, se no, sapeva qual via gl'indicasse l'onore. Queste minacce erano in termini troppo recisi e perentorii da non ispaventare il rivale, e però questi fece promessa di proprio pugno in iscritto, che sarebbe, entro pochi giorni, partito da Zurigo: poi chiesto un colloquio al Foscolo, mosso egli a pietà di quel disgraziato, per non fargli danno gli permise di rimanere; ma la mattina dopo il signor maestro, dimentico del suo impegno, tornò a visitare l'amica. Allora sì che il Foscolo diede affatto ne' lumi e commise, come ei la chiama, la seconda vera colpa della sua vita,26 svelando il tutto al marito; colpa, dic'egli, che ebbe ad espiare con tante lagrime e tanti rimorsi, e a cui pensò di riparare in parte con diverse lettere al giovine banchiere, nelle quali dichiaravasi in fallo e pentito; e chiedevagli molte volte perdono.