Pellegrino Artusi
Vita di Ugo Foscolo
Lettura del testo

I SEPOLCRI DI UGO FOSCOLO.

NOTE.

«»

NOTE.

I.

F. - Ho desunto questo modo di poesia da' Greci i quali dalle antiche tradizioni traevano sentenze morali e politiche, presentandole non al sillogismo de' lettori, ma alla fantasia ed al cuore. Lasciando agl'intendenti di giudicare sulla ragione poetica e morale di questo tentativo, scriverò le seguenti note onde rischiarare le allusioni alle cose contemporanee, ed indicare da quali fonti ho ricavato le tradizioni antiche.

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V. 1-3.

All'ombra de' cipressi e dentro l'urne

Confortate di pianto è forse il sonno

Della morte men duro?

La morte, secondo Foscolo, è un sonno profondo senza sogni; ma si potrebbe aggiungere, che esso si prolunga indefinitamente. Durante il sonno profondo tutte le cellule pensanti del sistema nervoso si trovano in un completo riposo, e perciò non abbiamo allora nessuna coscienza di noi stessi.

Il Petrarca cantò:

«Il sonno è veramente qual uom dice
Parente della morte; e il cor sottragge
A quel dolce pensier che 'n vita il tene

V. 3-15

............... Ove più il Sole

Per me alla terra non fecondi questa

Bella d'erbe famiglia e d'animali,

E quando vaghe di lusinghe innanzi

A me non danzeran l'ore future,

da te, dolce amico, udrò più il verso

E la mesta armonia che lo governa,

più nel cor mi parlerà lo spirto

Delle vergini Muse e dell'amore,

Unico spirto a mia vita raminga,

Qual fia ristoro a' perduti un sasso

Che distingua le mie dalle infinite

Ossa che in terra e in mar semina morte?

L'articolo alla innanzi a terra, usato invece delle preposizioni nella, sulla è modo più elegante ed efficace.

Esordisce il poeta facendo mostra di favorire una tesi contraria a quella che vuol sostenere. Cosa giovano, egli dice, all'estinto le onoranze e le lacrime quando la morte gli ha tolte tutte le attrattive del dolce mondo, specialmente se si consideri che il tempo distruggerà qualunque vestigio di sua memoria? Quindi con una brillante perifrasi, che ha vestito di vaghe e seducenti immagini, fa questa dimanda a stesso: Quando non sarò più qual vantaggio mi porterà un'iscrizione marmorea la quale ricordi ai posteri che essa racchiude i miei avanzi mortali?

Ma le onoranze, inutili ai morti, giovano ai vivi perchè destano affetti virtuosi.

È veramente poetica quella personificazione delle ore che danzano nella fantasia di noi mortali, il che specialmente avviene negli anni della gioventù, ma poscia le illusioni svaniscono a poco a poco, e la vecchiaia si fa trista all'uomo non solo per gli acciacchi che l'accompagnano, ma perchè nel luogo di quelle, come dice altrove lo stesso Foscolo, subentrano, contristandolo, reminiscenze di errori cui non è più in sua facoltà correggere.

F. V. 8-9

................... Il verso

E la mesta armonia che lo governa.

Epistole e poesie campestri di Ippolito Pindemonte.

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Il verbo governare è qui usato nel senso di inspirare, ma con più efficacia perchè esprime meglio l'impronta del sentire morale di Pindemonte foggiato a malinconia la quale si trasfondeva ne' versi suoi.

V. 10-12

.................. lo spirto

Delle vergini Muse e dell'amore,

Unico spirto a mia vita raminga,

La verginità delle Muse denota ch'elle debbono conservarsi scevre e monde d'ogni bruttura.

Lo studio e un amore ben collocato sono di gran conforto alla vita, ed egli che aveva ereditato dalla natura fantasia ardente, gusto del bello e cuore sensibile, queste due passioni le sentiva profondamente. Ma meglio certo sentiva l'amore il poeta che cantava

«Leggier desio diviso in molti obietti
Ti prostra l'alma e non ti fa felice:
Sente bennato cuore
Fiorir gioia e virtù d'un solo amore

(Giusti.)

V. 13-15

................. un sasso

Che distingua le mie dalle infinite

Ossa che in terra e in mar semina morte?

Non vi è ragione a malignare che il poeta abbia voluto in questo luogo parlar di stesso chiedendo per la sua salma una distinzione particolare; ma gli è certo per altro che lo atterriva l'idea che i suoi resti mortali si disperdessero nel grande oceano del nulla. Il suo modesto desiderio era già stato appagato e la generazione presente, avendo riparato allo sconcio che quelli giacessero in terra straniera, col dar loro condegna dimora ha reso il dovuto omaggio al genio e alla virtù.

V. 16-18

Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,

Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve

Tutte cose l'obblio nella sua notte;

È noto come i Gentili personificassero anche gl'intimi sentimenti e le passioni umane creando così le innumerevoli Divinità del politeismo. Che la speme sia quindi chiamata ultima dea è filosoficamente immaginato, imperocchè la speranza è innato sentimento del cuore che accompagna l'uomo fino alla tomba, oltre alla quale nulla più resta degli umani desiderii, neppur quello di rimanere a lungo nella memoria de' posteri, perchè il tempo distrugge tutto.

V. 19-22.

E una forza operosa le affatica

Di moto in moto ; e l'uomo e le sue tombe

E l'estreme sembianze e le reliquie

Della terra e del ciel traveste il tempo.

La distruzione della materia è apparente: tutto si trasforma nel creato. Cessata la vita i corpi si decompongono, si dissolvono: parte resta alla terra, parte in forma di gas si diffonde nell'aria, dando così alimento ed esistenza a nuovi esseri organici, onde quella incessante trasformazione della materia stessa che sempre si rinnovella senza sperdersene un atomo dalla sua origine fino alla consumazione dei secoli.

«Che sarà Elisa allor? Parte d'Elisa
Un'erba, un fiore sarà forse, un fiore,
Che dell'Aurora a spegnersi vicina
L'ultime bagneran roscide stille

(Pindemonte.)

«Cesare imperador, fatto cemento
Ora un breve pertugio appena serra
La creta che tremar fece la terra,
Difende un muro dal fischiar del vento

(Shakspeare.)

L'estreme sembianze. L'effigie dell'estinto scolpita sulla tomba.

Per le reliquie del cielo si può intendere la scomparsa di alcune stelle e l'apparirne di nuove, il loro cangiar di colore, il formarsi delle comete e le loro trasformazioni per dare origine forse a nuovi mondi; ed altri fenomeni simili.

II.

V. 23-26.

Ma perchè pria del tempo a il mortale

Invidierà l'illusïon che spento

Pur lo sofferma al limitar di Dite?

Non vive ei forse anche sotterra, quando ec.

Il verbo invidiare è usato in questo luogo nel senso di togliere, privare.

Dite fu chiamato Plutone, dio dell'inferno, ma era confuso talvolta con Pluto dio delle ricchezze. I Romani usarono spesso la parola Dite per significare luogo di pena eterna, nel qual senso è stata adoperata dai poeti italiani, non che da Dante.

«E 'l buon Maestro disse: Omai, figliuolo,
S'appressa la città, c'ha nome Dite,
Co' gravi cittadin, col grande stuolo

Al Foscolo è piaciuto darle qui un significato più largo, quello cioè del mondo di . Ma per bene intendere questo luogo dei Sepolcri bisogna retrocedere di un passo e rifarsi dai versi 16 e 17 coi quali si collega; quindi spiegare: È bensì vero, Pindemonte, che l'azione distruggitrice del tempo, pur troppo cancella tutto e toglie perfino il conforto della speranza; ma perchè l'uomo vorrà precorrere il tempo privando stesso dell'illusione (perchè tutto è illusione quaggiù) di sopravvivere alla morte mediante un monumento, una pietra, un segno almeno che il rammenti ai congiunti, agli amici nella cui memoria rimanendo più a lungo con questi mezzi, gli parrà così di soffermarsi al limitar di Dite? Cioè di esser quasi ancor vivo.

E soggiunge: non vive l'uomo anche sotterra se può con soavi cure destare questa illusione nella mente de' suoi cari? Le soavi cure sono le affettuose reminiscenze che sorgono nell'animo dei vivi davanti a una tomba quando l'estinto si è creato anticipatamente, con le buone opere, un culto di rispetto e di considerazione nella memoria de' superstiti e de' posteri, in forza di che continua a mantenersi un rapporto di affetti fra il morto e i viventi.

V. 29-40

............. Celeste è questa

Corrispondenza d'amorosi sensi,

Celeste dote è negli umani....

Questa corrispondenza di affetti d'oltre tomba sublima l'uomo in modo che il fa distinguere da tutti gli altri animali, laonde puossi considerare una dote a lui solo largita dal Cielo. In virtù di lei sembraci non ancora divisi per sempre dall'amico estinto, esso da noi, specialmente poi se la terra ove nacque, porgendogli l'ultimo asilo, il raccolga nel seno suo, ne conservi con cura le reliquie, e, come amorosa madre, indichi al passeggiero il nome del caro figlio, e gli renda più dolce l'eterno riposo col verde delle piante e co' fiori.

V. 39.

E di fiori odorata arbore amica

Odorato per odoroso viene usato in poesia come più elegante.

III.

V. 41-42.

Sol chi non lascia eredità d'affetti

Poca gioia ha dell'urna....

Spicca bello il contrasto fra la scena commovente per reciprocanza d'affetti, or ora dal poeta descritta, e questa di desolazione e di minaccia ai reprobi.

Chi ha demeritato l'affetto degli uomini o de' congiunti sarà reietto, quindi non avrà dopo morte il conforto che si aspetta l'uomo dabbene, il quale sa di lasciare grata memoria di nelle persone beneficate. In altri termini: i malvagi avendo in la coscienza che la memoria loro non sarà grata, giovevole ai viventi, non la curano.

Anche coloro che per fortuiti casi della vita non ebbero chi li amasse, rimangono senza compianto dopo morte; ma questo non entra nella tesi del poeta.

V. 42-50.

............... e se pur mira

Dopo l'esequie, errar vede il suo spirto

Fra 'l compianto de' templi Acherontei,

O ricovrarsi sotto le grandi ale

Del perdono d'Iddio: ma la sua polve

Lascia alle ortiche di deserta gleba

Ove donna innamorata preghi,

passeggier solingo oda il sospiro

Che dal tumulo a noi manda Natura.

Se agli occhi di colui che non fu amato da alcuno fosse concesso di veder dopo morte, ossia, se esiste una vita futura, codesto sciagurato vedrebbe il suo spirito fra i tormenti o tra le braccia della misericordia divina; ma il suo corpo resterebbe negletto e dimenticato da tutti, perfino da coloro che, per disposizione d'animo, sono più inclinati alla preghiera o al sentimento della pietà, come appunto sono la donna innamorata e il passeggier solingo, cioè l'uomo solitario e contemplativo, il quale è meno distratto dagli oggetti che lo circondano.

F. V. 44.

Fra 'l compianto de' templi Acherontei.

«Nam jam sæpe homines patriam carosque parenteis.
Prodiderunt vitare Acherusia Templa petentes
.51»

E chiamavano Templa anche i cieli.52

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Il sospiro che dal tumulo a noi manda Natura, per la gran ragione dell'hodie mihi, cras tibi, è soavemente bello e poetico.

IV.

V. 51-53.

Pur nuova legge impone oggi i sepolcri

Fuor de' guardi pietosi, e il nome a' morti

Contende.

La legge del governo italico che proibiva di seppellire i morti nelle chiese ed imponeva di erigere cimiteri pubblici in luogo discosto dall'abitato. Della quale ordinanza, benchè sia manifesto lo scopo igienico, temeva il poeta non foss'ella per togliere alla mente pietosa de' superstiti le dolci rimembranze de' loro defunti. Perciò loda più avanti l'uso britannico di collocare le sepolture ne' pubblici passeggi limitrofi alle città.

Anche ne' vasti e meritamente decantati giardini de' ricchi signori inglesi, fra gli ameni boschetti e in mezzo a tutte le delizie campestri, veggonsi sorgere i monumenti de' loro cari ivi sepolti.

La legge che il nome a' morti contende era informata allo spirito di eguaglianza sociale, che allora regnava, portato oltre ai limiti della convenienza e del dovere; laonde non solo si vietavano sepolture distinte, ma erano prescritte lapidi tutte della stessa grandezza, e sottoporre dovevansi gli epitaffi alla revisione de' magistrati del luogo.

V. 53-56.

....... E senza tomba giace il tuo

Sacerdote, o Talia, che a te cantando

Nel suo povero tetto educò un lauro

Con lungo amore, e t'appendea corone;

In questo punto del carme, che l'autore era entrato nell'argomento della nuova legge sulle sepolture, sorge spontanea ed opportuna alla mente sua, la memoria del venerato amico ab. Giuseppe Parini, e preso da generoso sdegno, inveisce contro i concittadini di lui che non posero neppure un segno sopra la fossa del grand'uomo. Si sa infatti che il Parini fu sepolto senz'alcuna distinzione in un cimitero suburbano ove gettavansi anche i giustiziati.

Molte riflessioni corrono spontanee alla mente per questa noncuranza. Se il Parini, che per le austere virtù poteva chiamarsi il Socrate lombardo (onde per queste e pel suo esimio talento erasi reso molto popolare); e se i Milanesi andavano superbi del loro poeta in modo da additarlo, dicesi, al forestiere come il più bell'ornamento della loro patria, bisogna credere che non piccola colpa vi avesse il turbinìo politico di que' tempi (morì il Parini nel 1799) non che l'esagerazione a cui si era voluta portare la massima dell'eguaglianza sociale. Poi anche la sorte comune ai mortali; gran piagnisteo il del mortoro, indi a poco la calma e in fine, il morto giace e il vivo si pace. E, prescindendo da queste ragioni, puossi mai, da un popolo uscito appena da schiavitù secolare, pretendere elevatezza d'animo e nobili sentimenti di riconoscenza patria, frutto solo di libertà e di virtù cittadine?

Pervertito il senso morale non si giudicava rettamente, e dai più consideravasi forse come cosa naturalissima allora ciò che il Giusti lasciò scritto in proposito:

«Un dotto transeat
Ma un'Eccellenza
Tapparlo a povero
Certo è indecenza!
. . . . . . . . . . . . . .
Spalanca, o Morte
Vetrate e porte
Aria a un cadavere
Che andava a Corte

La mia Talia, dice il Foscolo, è la Talia di Virgilio, Egloga VI, v. 2, che presiedeva anche all'agricoltura e agli studi campestri; ma più specialmente Talia è quella delle nove Muse che presiede alla commedia, genere di poesia ove può essere collocato il poema del Parini, nel quale, esso scherzando, promuove il riso e dipinge i costumi.

L'autore del Mattino è qui graziosamente chiamato sacerdote di Talia perchè non solo ne professava il culto, ma vi si era come votato.

Si noti la frase poeticamente gentile: di educare nel suo povero tetto un lauro con lungo amore. Il Parini, conducendo vita povera, serbò incorrotta la dignità dell'animo; e con lunghi e pazienti studi dedicatosi a quel genere di poesia, gli riescì fregiar la Musa di nuove corone.

Si sa in fatti che l'ingegno di lui ebbe bisogno per svilupparsi di lunga e perseverante applicazione; che i suoi primi versi furono pubblicati nell'età sua di 32 anni e che giunto ai 43 fece stampare il Mattino, alla lettura del quale il Frugoni esclamò stupefatto: «Perdio! mi davo ad intendere d'esser maestro nel verso sciolto, e m'accorgo di non esser tampoco scolaro

V. 57-61.

E tu gli ornavi del tuo riso i canti

Che il lombardo pungean Sardanapalo

Cui solo è dolce il muggito de' buoi

Che dagli antri abdùani e dal Ticino

Lo fan d'ozi bëato e di vivande.

E tu, Musa, rimeritavi il devoto tuo cultore inspirandogli quello stile ironico e faceto che eccita il riso.

F. V. 57-58.

................... i canti

Che il lombardo pungean Sardanapalo.

Il Giorno di Giuseppe Parini.

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L'opera che più delle altre ha reso immortale il Parini è il poemetto Il Giorno, in versi sciolti, diviso in quattro canti: il Mattino, il Mezzogiorno, il Vespro e la Sera. I due primi vider la luce mentre era in vita l'autore, gli ultimi due dopo la morte di lui.

Il lombardo Sardanapalo. I ricchi ed oziosi signori milanesi d'allora, dediti alla voluttà e ai piaceri come quell'antico re assiro. Questa dura parola, avendo dato nel naso a Mr Guillon, provocava in lui la seguente osservazione:53 «Noi non crediamo esservi in Lombardia un Sardanapalo. Che se alcuno meritasse tal nome per essere beato d'ozi e di vivande, vi sarebbero dei Sardanapali in tutte le parti della terra, a Zante non meno che a Milano.» E il Foscolo in risposta: Pungetegli da per tutto.

«Popolo, non v'era; cittadini, di nome; i nobili, nulli, boriosi, fastosi, pieni d'ozio e di vizi; ma dalla sfera stessa de' nobili sorgevano i Verri, il Beccaria, il Filangeri e altri nomi che saranno sempre in onore fino a tanto che si onoreranno gli studi, gli ordini e gl'incrementi della civiltà.54»

Co' suoi canti, il Parini, prende di mira questi vizi non che le frivolezze, le melensaggini, la scimieria francese di que' nobili d'allora, e li flagella mediante un genere di satira, che da lui prese il nome di pariniana, la quale, col dire precisamente l'opposto di quel ch'egli vuol far capire, non è meno pungente e terribile.

Gli antri abdùani. I caseifici sul fiume Adda.

Dai pascoli ubertosi di quelle contrade deriva una delle principali sorgenti di ricchezza dei cittadini lombardi, i quali devono obbligo grande a Leonardo da Vinci che v'introdusse il sistema d'irrigazione.

V. 62-65.

O bella Musa, ove sei tu? Non sento

Spirar l'ambrosia, indizio del tuo Nume,

Fra queste piante ov'io siedo e sospiro

Il mio tetto materno.

F. V. 64.

Fra queste piante ov'io siedo

Il boschetto de' tigli nel sobborgo orientale di Milano.

––––––––––

Morto l'abate Parini, che soleva ricrearsi all'ombra di quel boschetto, l'amico non è più rallegrato dal dolce canto della sua Musa, ond'ei per questo e per la rilassatezza de' costumi degl'Italiani, sospira il suo tetto materno, cioè desidera trovarsi piuttosto che in Italia, in Grecia ove nacque. Oppure, non potendo egli acconciarsi ai molli costumi de' Milanesi, i quali non si erano data nessuna cura del loro esimio poeta, sarebbe voluto fuggire da quella città per ricoverarsi a Venezia ove abitava sua madre, il qual desiderio si fa palese anche nella lettera de' 3 febbraio 1809 diretta al conte Giovio, ove è detto: . . mi ridurrò a temprare il verno seduto verso quest'ora con quella vecchia di mia Madre, ed a nutrirmi delle sue virtù, come un giorno io fui nutrito dal suo latte, di cui purtroppo non ho ancora potuto recarle quel frutto ch'ella aspetta, chè il frutto migliore per avventura sarà l'avermi vicino; non saggio forse, ma certamente servo, vile. E vicino a lei, potrò nel mio povero tetto sacrificare al Genio dell'Arte, dal quale imparai a vivere indipendente dalla fortuna

L'ambrosia era il nutrimento degli Dei come il nèttare ne era la bevanda. Consideravasi altresì l'ambrosia come una fragranza al cui odore riconoscevansi le Dee, nel qual significato è qui usata, spiegandolo la frase, indizio del tuo Nume.

V. 65-69.

.............. E tu venivi

E sorridevi a lui sotto quel tiglio

Ch'or con dimesse frondi va fremendo

Perchè non copre o Dea, l'urna del vecchio

Cui già di calma era cortese e d'ombre.

Vedi maestria poetica! Un albero più pietoso degli esseri animati che si fa mesto e freme per non poter prestare un dolce ufficio a colui al quale gli uomini sarebbero stati obbligati da un sacrosanto dovere.

Non è improbabile che il tiglio qui mentovato, fosse del boschetto un tiglio speciale, sotto la cui ombra il Panni preferisse di riposarsi.

In una lettera di Jacopo Ortis trovasi il seguente passo: «Ier sera io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli: egli si sosteneva da una parte sul mio braccio, dall'altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpi suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S'assise sopra uno di que' sedili, ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch'io m'abbia mai conosciuto

F. V. 70.

.... fra plebei tumuli .......

Cimiteri suburbani a Milano.

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V. 70-72.

Forse tu fra plebei tumuli guardi

Vagolando, ove dorma il sacro capo

Del tuo Parini?

 

Il pronome tu si riferisce alla già ricordata Musa.

Vagolare è sinonimo di vagare, andare errando, ma in questo luogo vagolare sembra che propriamente significhi, vagare con passo incerto e dubbioso; quindi molto espressivo. Però, pare che di questa voce nascesse nel Foscolo qualche pentimento, come risulta dal seguente estratto di una lettera diretta a G. B. Niccolini, da Brescia li 27 settembre 1807: « ..... tu, scrivendomi, dirigi il soprascritto a Milano, dond'io spedirò le copie de' Sepolcri per l'amico nostro, e per la contessa d'Albania. Spero che le saranno grati, perchè niuno ha parlato più passionatamente e con più verità del suo Vittorio. E credo di essere benemerito anche di voi, Fiorentini; perchè ho esaltata a mio potere la vostra città. Le tre voci vagolare, ramingare e spazzare, le trovo usate da grandi poeti in nobili poesie: la prima nondimeno comincia ad offendermi, ma ribenedico le altre due, e più la terza dettatami dal Parini:

» .................La notte
Rimescola i color varii, infiniti,
E via li spazza coll'immenso lembo
Di cosa in cosa ...........»

V. 72-75.

....... A lui non ombre pose

Tra le sue mura la città, lasciva

D'evirati cantori allettatrice,

Non pietra, non parola; ec.

Passa ora a dipingere un quadro lugubre, con sì tetri colori e di tale evidenza da farti raccapricciare se ben lo consideri. Trasportato dalla natura sua malinconica, l'estro del poeta è qui in casa sua, perciò si espande in un'amplificazione, d'altronde permessa dall'arte, per ottenere l'effetto; ma se uno spettacolodesolante nelle adiacenze della culta Milano sembra trascorrere i limiti del verosimile, si consideri che l'istituzione era allora ne' suoi primordi, quindi incompleta, e che uno spirito di derisione per tutto ciò che sapeva di sacro, era invalso a que' tempi.I

Di tale incuria al Parini, indignato il Torti al pari del Foscolo; e fors'anche per metter questo al riparo delle censure del pubblico milanese, corre, nella sua Epistola a Delio, a dare al quadro, già per rattristante, una pennellata di tinta ancor più fosca, se è possibile, dove egli esclama:

« ......... Ma oh! qual da lunge

Al cuor mi suona un rotto fragor cupo?...

Più, e più s'avvanza. –– Son le tarde ruote,

Pel sassoso cammin traenti il mucchio

Della carne plebea, che ier diè morte

Preda a ingoiarsi alla vorace terra.

Giunge il plaustro funesto; e, dove aperta

Voragine l'aspetta, il timon piega.

Entro a globi di fumo infausta luce

Di pingui tede gli rosseggia ai lati.

Già già scoprirsi il gran ferètro io veggio.

Chi son quei duo membruti, i quai balzaro

Sulle misere spoglie, e, fra le risa,

E le bestemmie, un per le braccia, e l'altro

Per le piante le afferra, e i nudi corpi

Concordi avventan nella vasta buca?

Così forse, o mia patria, era sepolto

Il tuo Poeta! Ahi! dalla atroce idea

Rifugge l'alma spaventata

Era Giovanni Torti, dice il Foscolo, il più felice fra gli allievi del Parini e il prediletto di tanto maestro.

Non mancò chi in seguito fece ammenda dell'abbandono in cui fu lasciata quella veneranda spoglia, imperocchè il prof. ab. Cattaneo pose un epitaffio nel cimitero ove fu gettata; l'astronomo Oriani eresse al Parini ne' portici del Palazzo reale delle scienze ed arti, un busto marmoreo, opera dello scultore Franchi; ed una iscrizione ed un monumento gl'innalzò l'avv. Rocco Marliani nella sua Villa Amalia ad Erba.

V. 74.

D'evirati cantori allettatrice,

Allettatrice. Che alletta, invita, chiama a .

Il Parini, nell'ode intitolata la Musica, inveisce contro l'evirazione praticata ancora a' suoi tempi, e il Foscolo nella Lettera Apologetica dice: «L'atrocissimo abborrimento, e le calunnie codarde e poi le persecuzioni apertissime di molti patrizi milanesi, e ne dicevano anche il perchè, a che mi vennero? Da ciò solo: correvano medaglie battute al Marchesi, cantante eunuco loro concittadino, ed io rinfacciava ad essi che lasciassero le ossa del loro concittadino Parini giacenti per avventura presso a' ladroni mandati in uno de' cimiteri plebei dal carnefice

Anche in questo passo de' Sepolcri, il Torti fa eco al Foscolo ove canta:

«Per te, patria mia dolce, omai del novo

Senno t'aggiri al vertice propinqua;

Che gli ammirati dal concorde voto

D'infallibili orecchie, e muti al core

Gorgheggianti Demetrii, Arbaci, e Ciri

Godi far di versata ampia dovizia

Dispettosi, e superbi; e quanto in marmi,

Ed in perenni segni oro cangiassi

Per gl'illustri sepolti, entro ai voraci

Gorghi dell'Adria ti parrìa sommerso.

Dov'io ferisca, io 'l so. Portati in pace,

Che ben ti stan, gli amari detti: è questa

L'ira d'Ugo, ch'io bevo, e m'inacerba.

Ingrata! Un solo di te nato avesti,

Ai primi seggi della gloria scorto,

Alunno delle Muse; ardito e casto

Intelletto, e divin labbro; che a fronte

Locar ben puoi di quanti egregi fenno

Aurea nomar qual fu più bella etade:

E poca terra, ed obliata il copre!

............ Ei, con quel suo,

Di nullo esempio imitator, mai

Imitabile altrui, sublime riso,

Piacer ti volle, e la viltà snudarti

Di lor, che soli nominar sai grandi;

Ma fur concenti ai sordi scogli, e all'onde.»

V. 78-80.

Senti raspar fra le macerie e i bronchi

La derelitta cagna ramingando

Su le fosse e famelica ululando;

Derelitta cagna. Cagna abbandonata, che non ha padrone.

dove il Foscolo parla dell'arte imitatrice della natura, viene indirettamente a dare la ragion poetica di questo passo. «Il poeta (dic'egli) vuole, oltre l'esattezza del raziocinio, percuotere l'immaginazione e ti mette il cane nella oscurità, anzi te lo trasforma in Cagne che destano idea più oscena; e fa che le si sentano ululare in mezzo alle ombre; dacchè il viaggiatore trovandosi in luogo spaventoso, al primo urlo de' cani, già vede nella immaginazione apparire le zanne della fiera arrabbiata e lacerarlo senza difesa

V. 81-82.

E uscir del teschio, ove fuggia la Luna,

L'ùpupa, .......................

Non era la luna che fuggìa dal teschio, ma l'ùpupa rifugiatavi per orrore ai raggi di quella.

Nella tetra descrizione di quel funebre e abbandonato luogo, opportunamente vi è introdotta l'ùpupa, tenuta a schifo per le sue abitudini immonde; ma essa non appartiene alla classe degli uccelli notturni, ed in ciò il poeta fu tratto in errore forse dagl'imperfetti trattati d'ornitologia de' suoi tempi poichè, scrivendo a Ferdinando Arrivabene a Mantova, a quanto pare sull'argomento, diceva: «Una sola delle censure da te mandatemi punge e taglia, delle altre rido. Il tuo naturalista vegga l'ornitologia alla classe Lucifugæ

La famiglia delle ùpupe è propria del vecchio continente, e in particolare dell'Affrica e dell'Europa. Sono uccelli migratori, vengono da noi di marzo e partono di settembre; cercano il nutrimento, più che altrove, nello sterco umano ove trovano gl'insetti o larve di cui si nutrono. Cogli escrementi bovini o di altri animali formansi il nido nelle cavità degli alberi o ne' fori delle muraglie e delle roccie; e questo nobile materiale e il fetore del sudiciume in cui i pulcini s'immergono fino al collo, attirano gl'insetti e specialmente le mosche per deporvi le uova da cui nascono i vermi che servono loro di cibo. Pallas trovò una coppia di questi uccelli entro il torace di un uomo ucciso che vi aveva nidificato e generato sette pulcini.

L'ùpupa comune, detta volgarmente bùbbola, è della grandezza di un tordo, di colore vinaceo, consimile a quel della tortora; ha becco molto lungo e arcuato, stretto, compresso ai lati ed aguzzo, penne punteggiate di nero, che s'informano a cresta movibile alla sommità del capo; ali e coda bianche e nere. Ha un canto strano come di singhiozzo, e vola senza rumore.

Orribilmente bella, opportuna e di che forza la seguente immagine!

V. 81-86.

E l'immonda accusar col luttuoso

Singulto i rai di che son pie le stelle

Alle obblïate sepolture.

Sopra una scenadesolante, i raggi delle stelle era il solo, ma scarso benefizio, che poteva accordar la natura, e a lei l'immonda ne fa rimprovero.

V. 86-90.

.................... Indarno

Sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade

Dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti

Non sorge fiore ove non sia d'umane

Lodi onorato e d'amoroso pianto.

Sarebbe questo per avventura uno de' passi da dover dire col Pindemonte;

«Perchè talor con la Febéa favella
Sì ti nascondi ch'io ti cerco indarno

La Dea in discorso è sempre Talia.

Proprio in ogni caso, ma segnatamente in questo, l'epiteto di squallida alla notte.

Spiegherei: non essendovi fiori si rende inutile la rugiada per ravvivarli; e poi, ben altra rugiada ci vuole, ci vuole il pianto!

Quando il cuore è chiuso alla pietà per gli estinti non si pensa di adornarne le sepolture. Le lodi all'estinto e le lacrime che si spargono sulla sua tomba sono alimento a farvi sorgere i fiori, perchè questi non vi sarebbero coltivati se il cuore restasse freddo ai sentimenti dell'affetto.

V.

V. 91-96.

Dal che nozze e tribunali ed are

Dier alle umane belve esser pietose

Di stesse e d'altrui, toglieano i vivi

All'etere maligno ed alle fere

I miserandi avanzi che Natura

Con veci eterne a sensi altri destina.

La materia di questi versi fu desunta dal Vico dove parla del patto sociale. L'uso di far propri i pensieri e i concetti altrui si riscontra in molti luoghi delle opere del nostro autore, ma il suo genio sapeva rivestirli di formanuova e splendida da non poterlosi accusare di plagio.

Dal momento che gli uomini si costituirono in consorzio sociale con leggi, ordinamenti civili e religiosi, pensarono di darsi sepoltura, mentre prima abbandonavano all'aria, che perciò diveniva pestilenziale, ed alle fiere i loro cadaveri, cioè i miserandi avanzi che la Natura, con eterne trasmutazioni, riproduce in altri esseri organizzati.

A sensi altri. Ad altri sensi, ad altri fini.

Umane belve. Alla censura di questa parola il Foscolo rispondeva: «Prima del patto sociale, gli uomini viveano nello stato ferino; espressione disappassionata di G. B. Vico e di tutti gli scrittori di jus naturale. E s'ella, monsieur Guillon, volesse recare le sue cognizioni a que' selvaggi che non hanno are, connubi, leggi s'accorgerebbe s'ei sono belveII

F. V. 97.

Testimonianza a' fasti eran le tombe,

Se gli Achei avessero innalzato un sepolcro ad Ulisse, oh quanta gloria ne sarebbe ridondata al suo figliuolo!55

F. V. 98.

... are a' figli; ......

«Ergo instauramus Polydoro funus et ingens
Aggeritur tumulo tellus, stant manibus Aræ
Cœruleis mœstæ vittis atraque cupresso
.56»

Uso disceso sino a' tempi tardi di Roma, come appare da molte iscrizioni funebri.

F. V. 98-99.

......... uscian quindi i responsi

De' domestici Lari,

Manes animæ dicuntur melioris meriti quæ in corpore nostro Genii dicuntur; corpori renuntiantes, Lemures; cum domos incursionibus infestarent, Larvæ; contra si faventes essent, Lares familiares.57

––––––––––

V. 97-100.

Testimonianza a' fasti eran le tombe,

Ed are a' figli; e uscian quindi i responsi

De' domestici Lari, e fu temuto

Su la polve degli avi il giuramento:

L'ara, da cui derivò il nome di altare, (dal latino alta ara)significa opera d'arte che si eleva dal suolo. I sepolcri furono i primi a far l'ufficio di are. Poi l'altare fu proprio degli Dei celesti, l'ara degl'infernali: sopra il primo abbruciavansi le vittime in sacrifizio solenne, consacravasi la seconda ai morti e intorno a lei si libava soltanto e si supplicava.

I Lari erano gli Dei domestici. Ogni famiglia sceglieva il suo Dio tutelare, il Santo protettore, come oggi direbbesi; ma talvolta riceveva il nome di Lare anche un uomo defunto.

Era sacro il giuramento sull'ara dedicata agli antenati della famiglia, ed è specialmente noto quello di Annibale ancor fanciullo a cui il padre prese la mano, e postala sulla vittima del sacrificio, gli fe' giurare odio eterno a' Romani.

I responsi erano le risposte, quasi sempre ambigue e capricciose, che i sacerdoti e le sacerdotesse davano, o facevano dare, a coloro che venivano a consultare i Numi.

Dunque le tombe anticamente testimoniavano avvenimenti straordinari operati dagli eroi che racchiudevano; e così le are nei recinti domestici, le quali erano di conforto e di eccitamento ai figli. Da queste uscivano i responsi dei domestici Lari, cioè degli antenati defunti o degli Dei sotto la protezione de' quali si era posta la famiglia.

V. 101-103.

Religïon che con diversi riti

Le virtù patrie e la pietà congiunta

Tradussero per lungo ordine d'anni.

Le costumanze religiose sopraddette furono conservate lunghissimo tempo per opera delle virtù patrie e della pietà dei congiunti.

V. 104-114.

Non sempre i sassi sepolcrali a' templi

Fean pavimento; ec.

Passa ora a descrivere diverse costumanze funebri, ponendo a confronto le lodevoli degli antichi colle moderne dei cattolici, che il poeta trova degne di biasimo. Fra queste (alcune delle quali si praticano tuttora in qualche provincia d'Italia), nota: il seppellire in chiesa: l'ufficiare in essa per molte ore col cadavere presente, usanza abolita in Toscana, credo, da Pietro Leopoldo; le carte mortuarie con dipinture ed emblemi lugubri delle quali si ornava la bara; poi si affiggevano sulle facciate o negli atri degli edifici dedicati al culto. Cose tutte codeste che destano ribrezzo, sono di nocumento alla salute pubblica e non suffragano l'estinto. Perciò porta in campo la scena, mirabilmente descritta, delle madri che destansi spaventate fra il sonno e par loro di udire un lungo lamento di persona morta, che implori pace, mediante preghiera pagabile dagli eredi suoi alla chiesa.

Sembra che il Foscolo non fosse troppo persuaso che le messe pagate al prete aprissero le porte del Paradiso.

Però a messa egli ci andava. «Spero tuttavia che l'anno nuovo non mi troverà a Milano (scriveva da questa città alla contessa d'Albany li 11 giugno 1814), dove anche le campane delle chiese sono diventate libidinosamente indiscrete; e il mio vicino San Bartolommeo, in pena forse che io non gli sono molto devoto (sebbene io tutte le feste ascolti la messa al suo altare) si giova de' suoi preti, divenuti suonatori perpetui, per iscorticarmi le orecchie: scrivo, e suonano; e suonano in maniera, da dar noia anche a due giovani che fanno all'amore; molto più a me, poveretto, vagheggiato dalla solitaria malinconia

Solite contraddizioni della natura umana! direbbe taluno. La cosa non è precisamente così, perchè l'influenza della prima educazione, la quale lascia nel cuore profonde radici; una cieca venerazione alla fede de' nostri padri; quell'arcano sentimento di compiere un dovere per abitudine contratto (all'uomo onesto ripugna l'idea di sottrarsi a un dovere qualunque) sono spesso le cagioni che fannoci parere incoerenti co' nostri principii religiosi. Poi Foscolo non era ateo, sebbene non gli sia stata risparmiata questa taccia anche, intaccandolo specialmente di aver dato ai Sepolcri un carattere puramente profano, e di aver in essi preso di mira soltanto la politica e le civili virtù.

Com'è spontaneamente naturale che il primo pensiero della madre, appena risentitasi, sia il suo caro bambino e, per primo moto, corra a lui colle braccia!

Fra le lapide, di cui il pavimento delle chiese era cosparso, veggonsene diverse, nelle più antiche di Firenze, e di altre città, che portavano scolpito a basso rilievo il defunto, vestito ed ornato delle insegne del suo grado.

V. 114-117.

............. Ma cipressi e cedri

Di puri effluvii i zefiri impregnando

Perenne verde protendean sull'urne

Per memoria perenne, ........

Questo ma fa qui le veci di per lo contrario, all'opposto, volendosi dire che i riti antichi, all'opposto dei moderni che metton ribrezzo, producevano un senso di dolce mestizia, di tenere e soavi emozioni, le quali già provansi alla sola lettura della descrizione incantevole che ne vien fatta.

Cipressi e cedri co' rami piegati sopra le urne, qui prese pei sepolcri in genere, impregnavano l'aria circostante di grate emanazioni.

Le piante sempre verdi erano l'emblema della perenne memoria.

F. V. 117-118.

................. prezïosi

Vasi accogliean le lagrime votive.

I vasi lacrimatori, le lampade sepolcrali, e i riti funebri degli antichi.

––––––––––

Nei vasi lacrimatori si raccoglievano le lacrime dei congiunti e degli amici; poi venivano deposti nella tomba col defunto come per fargliene un voto, e però le chiama lacrime votive.

V. 119-120.

Rapìan gli amici una favilla al Sole

A illuminar la sotterranea notte

Anche la luce artificiale è una emanazione del Sole, il quale, durante i mesi della sua maggior potenza, depone per noi nelle piante, facendole vegetare, quel calorico che ci fa difetto l'inverno e che servir deve ai nostri domestici bisogni. Concetto che non sarebbesi potuto esprimere con frase più poeticamente nuova di quella trovata dal nostro poeta.

Il lume doveva, entro la tomba, far compagnia all'estinto come ad indicare una speranza che del tutto non fosse per lui scomparsa ancora la luce del giorno. E l'accendere che noi facciamo un lumicino nella camera dei nostri morti altro non dev'essere che una tradizione di codesto antichissimo uso.

Questo delle sepolture prese forse il nome di lume eterno o perpetuo da ciò, che essendo stato in alcuni casi alimentato da una corrente di bitume in cui ardeva un lucignolo di amianto, la sua fiamma si rendeva perenne.

V. 121-123.

Perchè gli occhi dell'uom cercan morendo

Il Sole; e tutti l'ultimo sospiro

Mandano i petti alla fuggente luce.

La luce è vita dell'universo, quindi è naturale che l'uomo senta mancarsi con la luce la vita. Goethe, negli ultimi istanti di sua gloriosa esistenza, facendo rimuovere le tendine della finestra, che intercettavano la luce, esclamò più luce! e trasse l'ultimo respiro; e il nostro Leopardi pronunziò per ultime parole: fammi vedere la luce.

Anche questa costumanza funebre degli antichi ci parla dolcemente al cuore. Ci figuriamo la scena di un morente che abbandona con dolore la luce del Sole e ci par di vedere gli afflitti amici che lo circondano, quasi volessero reintegrarlo della perdita di essa, deporne una favilla nella sua tomba.

V. 124.

Le fontane versando acque lustrali

L'acqua lustrale era acqua comune in cui spegnevasi un tizzone ardente tolto dal fuoco de' sacrifizi. Corrispondeva alla nostra acqua santa e le si attribuivano le stesse virtù all'incirca. E poichè presso gli antichi Greci e Romani si facevano ogni cinque anni feste dette lustrali, che consistevano in aspersioni, processioni e sacrifizi espiatorii, venne da queste l'uso di misurare il tempo per lustri.

F. V. 125-126.

Amaranti educavano e vïole

Su la funebre zolla;

« ............ Nunc non e manibus illis,
Nunc non e tumulo fortunataque favilla
Nascentur violæ?58»

F. V. 126-127.

............. e chi sedea

A libar latte

Era rito de' supplicanti e de' dolenti di sedere presso l'are e i sepolcri:

«Illius ad tumulum fugiam supplexque sedebo
Et mea cum muto fata querar cinere
.59»

––––––––––

I Gentili facevano libazioni sui sepolcri e massime nelle cerimonie de' funerali. A ciò veniva usato, secondo il rito, l'acqua, il vino, l'olio, il latte ed il miele. Se ne riempiva una coppa e dopo aver gustato il liquido od appressato soltanto alle labbra si spandeva tutto. Avanti di fare alcuna libazione obbligati erano quelli che le offerivano a lavarsi le mani ed a recitare alcune formole di preghiere.

L'uso de' banchetti funebri non è ancora scomparso del tutto in alcuni luoghi d'Italia. Ne abbiamo traccie nel contado di Valdichiana e in qualche parte della campagna romagnuola. Ivi si usa apparecchiare anche pel defunto; e dopo averlo piagnucolato e rammentato spesse volte con tenerezza, uno de' commensali mangia la porzione di minestra scodellata per lui.

F. V. 128-129.

....... Una fragranza intorno

Sentia qual d'aura de' beati Elisi.

Memoria Josiæ in compositione unguentorum facta opus pigmentarii.60

E in un'urna sepolcrale:

ΕΝ ΜΥΡΟΙΣ

ΣΟ ΤΕΚΝΟΝ

Η ΨΥΧΗ.

(Negli unguenti, o figliuolo, l'anima tua.)61

––––––––––

I beati Elisi. Il paradiso dei pagani.

V. 130-132.

Pietosa insania che fa cari gli orti

De' suburbani avelli alle britanne

Vergini

Insania vale pazzia, stoltizia; ma in questo luogo a tal frase potrebbesi dare il significato di pietosa illusione, ed in fatti altro non era che una dolce illusione quella che provavano gli attori della scena testè descritta. Ed è quella stessa illusione, egli dice, che fa cari alle britanne vergini gli orti degli avelli suburbani.

Non saranno cari quegli ameni passeggi soltanto alle fanciulle, ma per toccare la corda più tenera del cuore e la più sensibile, rammenta l'amore più puro e più doveroso.

F. V. 131-132.

............. le britanne

Vergini

«Vi sono de' grossi borghi e delle piccole città in Inghilterra, dove precisamente i campi santi offrono il solo passeggio pubblico alla popolazione; vi sono sparsi molti ornamenti e molta delizia campestre.62»

––––––––––

Quest'uso inglese ha di buono lo abituarci, non foss'altro, a considerare senza ribrezzo le miserande reliquie dei nostri simili e l'ultima loro dimora. Spesso pur troppo avviene che, non hanno ancora dato i nostri più cari gli ultimi tratti, spinti noi da non so quale orrore malnato, frutto di falsa educazione e d'inveterate ubbìe popolari, abbandoniamo i loro cadaveri a mani mercenarie, le quali chi sa qual aspro governo ne faranno talvolta.

V. 132-134.

...... dove le conduce amore

Della perduta madre, ove clementi

Pregaro i Genï del ritorno al prode

I Genï. Gli Dei tutelari del paese, ossia i Santi protettori, a cui le vergini britanne facevano voti ad essere clementi, cioè favorevoli al ritorno del prode.

Al prode. Sì, prode; ma uomo fedifrago e crudele, di tristissima ricordanza agl'Italiani.

«Lodisi da chi vuole il vincitore di Abukir e di Trafalgar, ma noi, a cui più piace il giusto e l'umano, che l'ingiusto ed il glorioso, non possiamo non mandarlo alla posterità, se non come uomo, che ruppe fede agli uomini per ammazzarli.63»

F. V. 134-136.

................ al prode

Che tronca fe' la trionfata nave

Del maggior pino, e si scavò la bara.

L'ammiraglio Nelson prese in Egitto a' Francesi l'Oriente, vascello di primo ordine, gli tagliò l'albero maestro, e del troncone si preparò la bara, e la portava sempre con .

––––––––––

Questa nota del Foscolo si riferisce alla battaglia navale di Abukir, combattuta il agosto 1798.

V. 137-141.

Ma ove dorme il furor d'inclite geste

E sien ministri al vivere civile

L'opulenza e il tremore, inutil pompa

E inaugurate immagini dell'Orco

Sorgon cippi e marmorei monumenti.

Inaugurate. Malaugurate. Il Viani e l'Ugolini disapprovano che questa parola sia stata qui usata in un significato non concesso volentieri dai cultori della lingua.

Orco. Secondo alcuni Dio del giuramento e punitore degli spergiuri; essendo considerato anche qual Dio dell'inferno, sinonimo di Plutone, prendevasi talvolta per lo inferno stesso. Qui vale re dei morti, od anche soggiorno dei morti.

Cippi. Il cippo è una colonna tronca con iscrizione.

A questo punto la Musa del poeta, inspirandosi alle misere condizioni d'Italia a' suoi tempi, si agita dolente e prorompe: Ma tutte codeste belle cose descrittevi sono inutili presso le nazioni dominate dall'infingarda opulenza e dai terrori del dispotismo. Ove dormono le virtù patrie sono pompa superflua, vane e magnificate soddisfazioni dell'umano orgoglio i monumenti agli estinti, e non servono che a rammentare la malaugurata e lugubre idea della morte.

Lodevolissima è l'usanza di contraddistinguere con segni onorifici le sepolture dei trapassati, che ben meritarono dell'umanità e della patria, ad emulazione ne' vivi di opere egregie; oppure per render giustizia postuma al merito e alle virtù di chi, durante la vita, fu indegnamente dimenticato. Ma siccome è destino delle cose umane che spesso degenerino, e dal buon uso si passi all'abuso, lo sciupìo infinito d'iscrizioni e monumenti, per tramandare ai posteri virtù che non esistettero mai, o nomi indegni di un mausoleo acquistato a prezzo, eccitarono l'estro poetico del nostro Giusti a scrivere una fra le bellissime delle sue satire, Il Mementomo:

«Non crepa un asino

Che sia padrone

D'andare al diavolo

Senza iscrizione.

Dietro l'avello

Di Machiavello

Dorme lo scheletro

Di Stenterello.64»

V. 142-145.

Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,

Decoro e mente al bello Italo regno,

Nelle adulate reggie ha sepoltura

Già vivo, e i stemmi unica laude....

Nelle tre classi più elevate della civil società, che si distinguono per dottrina, censo e nobiltà, fa d'uopo distinguere due categorie d'uomini; una degna di ogni rispetto, l'altra volgare. Quest'ultima è quella che il poeta chiama con ironia, decoro e mente al bello Italo regno, perciocchè, a' suoi tempi, prostituiva la dignità al servilismo abbietto dei potenti, e, paga soltanto di vana boria, traeva gli oscuri giorni nelle adulate reggie ove rimaneva sepolta in vita.

Il patrizio che non ha altri meriti che i suoi titoli, il ricco il quale non può vantare che le avite ricchezze, i dottorelli servili e di poco conto avevano allora sepoltura da vivi in quelle stesse reggie che adulavano e profanavano, e il vanto degli stemmi era, pei titolati, quel tanto che solo si meritavano.III

V. 145-450.

...................... A noi

Morte apparecchi riposato albergo

Ove una volta la fortuna cessi

Dalle vendette, e l'amistà raccolga

Non di tesori eredità, ma caldi

Sensi e di liberal carme l'esempio.

Dopo aver deplorato l'ignavia di una gente che per la sua posizione sociale avrebbe il dovere di essere esempio di virtù agli altri, rivolge il pensiero a stesso che, sciente di quanto operò col senno e col braccio in pro della patria, proferisce con malinconici detti un voto modesto. Io per me, esclama, oramai non desidero che di morire in pace onde l'avversa fortuna cessi una volta le sue persecuzioni, e gli amici miei raccolgano la mia eredità non di ricchezze, ma di quei caldi sentimenti patrii che m'infiammano, per trasmetterli in altri come fo io con questo liberal componimento.

VI.

V. 151-154.

A egregie cose il forte animo accendono

L'urne de' forti, o Pindemonte; e bella

E santa fanno al peregrin la terra

Che le ricetta.

Il forte animo. Si richiede animo forte per accendersi a virtù. Un'anima fiacca, o nata alla sola vita vegetativa, è un pezzo di legno che si carbonizza nel fuoco sacro delle nobili imprese, ma non si accende.

Comincia ora a palesarsi più chiaramente lo scopo morale del Carme. Se il poeta inculca la religione dei sepolcri non è a solo scopo che duri oltre tomba l'affetto agli estinti e sia obbligo in noi di onorare la memoria de' più degni fra loro con qualche segno duraturo che li rammenti, tesi già dimostrata; ma da questo momento vuol far vedere che le onorificenze in tal modo rese ai defunti hanno la facoltà di trasmettere in chi le ammira gli stessi sentimenti che animavano l'estinto, infiammano l'animo delle stesse virtù e generano il desiderio dell'imitazione.

Quelle urne fanno eziandio bella e santa al peregrin la terra che le ricetta (cioè le raccoglie con venerazione in luogo distinto e onorifico), perchè contemplandole osserva che in quella nazione non si lasciano senza premio le opere virtuose e riporta con il desiderio che la patria sua faccia altrettanto.

F. V. 154-155.

................. il monumento

Vidi ove posa il corpo di quel grande ec.

Mausolei di Nicolò Machiavelli; di Michelangiolo architetto del Vaticano; di Galileo precursore del Newton; e di altri grandi nella chiesa di Santa Croce in Firenze.

––––––––––

È opinione che il Machiavelli, col trattato il Principe, fingesse di ammaestrare i principi per illuminare i popoli, e vuolsi che, parlando egli di questo libro, dicesse: «Ho ammaestrato a quel modo i principi, acciocchè coloro che oppressavano l'Italia tirannicamente diventassero sempre peggiori e tanto, che o gli uomini cacciati finalmente dalla disperazione se ne risentissero, o, se non altro, la mano di Dio per punire meritamente quegli empi venisse a liberar noi.

Che quelle dottrine fossero interpretate in questo senso lo proverebbe la stima de' suoi concittadini che gli rimase integra anche dopo la pubblicazione dell'opera.

V. 156-158.

.... temprando lo scettro a' regnatori

Gli allôr ne sfronda, ed alle genti svela

Di che lagrime grondi e di che sangue;

Il verbo temprare ha qui il significato di render duro, come avviene del ferro temperandolo; quindi spiegherei: avendo procurato che il potere dei sovrani si rendesse più duro, cioè tirannico, glie ne scena il valore, il prestigio; e lo fa vedere ai popoli nella sua orribile deformità, sitibondo di sangue e di pianto.

È voce tradizionale in Firenze che quando Michelangiolo andò architetto del Vaticano, volgesse uno sguardo alla cupola del Brunellesco, esclamando:

«Io vado a Roma a far la tua sorella
Più grande sì, ma non di te più bella

V. 160-164.

................... chi vide

Sotto l'etereo padiglion rotarsi

Più mondi, e il Sole irradïarli immoto,

Onde all'Anglo che tanta ala vi stese

Sgombrò primo le vie del firmamento;

Concisa, energica e sublime descrizione, questa mi sembra, del sistema di Galileo, il quale sgombrando la via al suo successore, fa sì che questi può spiccare pel firmamento un volo della cui estensione risponde con evidenza la frase che tanta ala vi stese.

Qual altro sacro recinto più efficace a risvegliare sublimi memorie e generosi sensi del tempio di Santa Croce? Ivi ti senti compreso da un sentimento misto di venerazione e di orgoglio nazionale alla vista dei mausolei rammentati dal poeta, non che di quelli di Dante e dell'Alfieri non ancora innalzati quando il Foscolo scriveva il carme de' Sepolcri.

A buon diritto viene quel tempio chiamato il Pantheon delle glorie italiane, imperciocchè accolse le ceneri di tanti illustri, e per ultimo quelle dell'insigne storico Carlo Botta non meno venerabili delle altre, ed ove fo voti sieno traslocate le ossa e il monumento dell'originalissimo ed inimitabile poeta de' giorni nostri, Giuseppe Giusti, benchè egli abbia già onorevole sepoltura nell'antica Basilica di San Miniato al Monte, presentemente pubblico cimitero di Firenze.

Alla vista di quelle gloriose memorie erompe spontanea e naturale dal petto del poeta l'apostrofe a Firenze dei

V. 165 e seg.

Te beata, gridai, per le felici

Aure pregne di vita, ec.

A cui è seguito una descrizione non meno vera che romantica delle ridenti colline che fanno bella corona alla città dei fiori. IV

V. 168-172.

Lieta dell'äer tuo veste la Luna

Di luce limpidissima i tuoi colli

Per vendemmia festanti, e le convalli

Popolate di case e d'oliveti

Mille di fiori al ciel mandano incensi:

Fortunato paese cui la natura si mostra prodiga de' suoi favori! Vanguardia dei climi meridionali ove gli astri, per l'atmosfera meno ingombra di vapori, brillano di luce più pura; aure miti e salubri, campagne lussureggianti per arte d'industri agricoltori; produce in copia vino e olio riputatissimi. Ove, il dolce idioma toscano conservatosi puro nel basso popolo, spesso avviene che il letterato apprenda dai contadini, dai beceri e dalle ciane a correggere la propria lingua.

A questa bella pittura campestre fa eco il Torti e la esalta ne' seguenti versi dell'opera sua citata:

« ............. Almi lavacri,

Odorate convalli, e in sul pendìo

De' colli elette vigne; infra gli olivi

Case da longe biancheggianti, ameni

Silenzi della luna, or chi vi pinse

Altra volta così, che in tanta brama

Ne accendesse di voi?»

E il Foscolo, nel Carme alle Grazie, ripete:

«Or cento colli, onde Appennin corona

D'ulivi e d'antri e di marmoree ville

L'elegante città, dove con Flora

Le Grazie han serti e amabile idïoma

E l'Ariosto disse:

«Se dentro un mur sotto al medesmo nome

Fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,

Non ti sarien da pareggiar due Rome

F. V. 173-174.

E tu prima, Firenze, udivi il carme

Che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco,

È parere di molti storici che la Divina Commedia fosse stata incominciata prima dell'esilio di Dante.

––––––––––

L'uomo di grande ingegno e sapere è naturalmente di più delicato e potente sentire; a cui se arrogi, nel caso di Dante, i patimenti dell'esilio, la coscienza di quanto valeva, la ingratitudine e l'ingiustizia della patria, non fa meraviglia ch'egli provasse piacere di sfogare la sua bile in que' versi immortali e ch'essa facesse dolce l'ira sua nel suo segreto.

F. V. 175-176.

.......... i cari parenti e l'idïoma

Desti a quel dolce di Calliope labbro

Il Petrarca nacque nell'esilio di genitori fiorentini.

––––––––––

In vece di Erato, musa che presiedeva alle poesie erotiche, il poeta ha qui introdotto Calliope perchè il suo nome significa la bella voce, il soave canto, ed era la più dotta di tutte le Muse. Presiedeva all'eloquenza e all'epica o eroica poesia.

La elevatezza dei pensieri, la delicatezza delle immagini, la dolce armonia del verso danno alle rime del Petrarca un'impronta d'inspirazione celestiale che richiama alla memoria le soavissime figure del beato Angelico. Ma il suo è un genere di letteratura spirante mollezza, e però atto a snervare anzichè rinvigorire la mente dei giovani.

V. 177-179.

Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma

D'un velo candidissimo adornando,

Rendea nel grembo a Venere Celeste:

Il Petrarca è forse il solo ed unico poeta che abbia saputo trattar l'amore con uno stileappassionato e verecondo ad un tempo, e però il cantor dei Sepolcri dice: che Amore, dipinto dai poeti greci e romani nella sua nudità, dei soli piaceri sensuali, fu dal cantor di Laura adornato di un velo candidissimo (simbolo del pudore e della modestia) e in questo modo elevatolo a passione sublime di nobili affetti, lo rese in grembo a Venere Celeste da cui si era partito.

A me è cara la rosa della modestia, dice il Foscolo in un Frammento di prose, per la sola ragione che è la rosa più cara ad Amore. Il Petrarca lo trovò nudo ne' poeti latini, e lo coprì d'un candidissimo velo; ma pur godo di vedere in que' versi manifesto e senza velo, che sono sospiri ardentissimi di un cuore umanoV

F. V. 179.

......... Venere Celeste

Gli antichi distinguevano due Veneri; una terrestre e sensuale, l'altra celeste e spirituale:65 ed avevano riti e sacerdoti diversi.

V. 180-185.

Ma più beata chè in un tempio accolte

Serbi l'Itale glorie, uniche forse

Da che le mal vietate Alpi e l'alterna

Onnipotenza delle umane sorti

Armi e sostanze t'invadeano ed are

E patria e, tranne la memoria, tutto.

Con maggior forza il poeta riprende ora l'apostrofe a Firenze, per dire ch'ella è doppiamente beata, per accogliere in uno de' suoi augusti tempii le glorie nostre, unica cosa forse, crede egli, sia rimasta incolume all'Italia dappoichè non sa più difendersi dalle invasioni straniere e la ruota della fortuna l'ha precipitatabasso.

Ha voluto senza dubbio qui alludere più specialmente all'invasione francese della fine dello scorso secolo la quale, colle magnifiche promesse di libertà e di un viver felice, distrusse con fraude due antiche nostre repubbliche, creandone di nuove modellate alla francese, coi germi di un'esistenza efimera. Ci rese in ogni cosa servili alla Francia, impose taglie di guerra insopportabili, dava saccheggi il più delle volte non giustificati, espilò i Monti di pietà e ci aveva rapiti e trasportati a Parigi i più pregevoli capolavori che ornavano le chiese, le pinacoteche, i musei.

La Francia aveva perciò un grosso debito da pagare all'Italia, ma poichè finalmente in questi ultimi tempi ci porse, per impulso di un'anima, che per noi fu grande e generosa, una mano da risorgere per davvero, sienle condonate le antiche offese e siamole pur anche grati. Resta però difficile a comprendere come, nel tempo stesso che s'inneggiava al principio di ricostituir le nazioni, si volesse poi strappare in compenso del sangue versato, un lembo di territorio italiano.

Ora sta in noi a compier l'opera incominciata sotto felici auspicii; ma perchè l'Italia raggiunga l'antica grandezza o possa porsi al livello delle nazioni più prospere, la via a percorrere è ancora lunga e scabrosa. Onestà, lavoro e dottrina, ecco le tre virtù cardinali a far risorgere una nazione; ma sopra tutto onestà, senza la quale i commercii e le industrie non prosperano, e l'albero della libertà non porta frutti maturi. La sapienza e le virtù degli antichi Romani fecero Roma grande e potente.

Quando fu pubblicata questa poesia, chè fresca era allora la memoria delle delusioni patite, quanta impressione facesse non è a dire; e quanto accendesse gli animi di sdegno e li fortificasse nella comune sventura, disponendoli alla riscossa a tempi migliori.

È potente l'efficacia della buona poesia perchè tocca e fa vibrare le fibre più delicate e generose del cuore umano; e però il Botta, parlando del gran padre Alighieri, dice: «Più forse ha operato Dante per la moderna civiltà con tre o quattrocento versi, che non cento volumi di teologia o di filosofia

V. 186-188.

Che ove speme di gloria agli animosi

Intelletti rifulga ed all'Italia,

Quindi trarrem gli auspicii.

Quando avvenga che una speranza di acquistar gloria per e per la patria si mostri chiara un giorno alla mente de' coraggiosi Italiani, trarremo da questo sacro luogo (Santa Croce) buon augurio all'impresa.

F. V. 190-191.

Irato a' patrii Numi, errava muto

Ove Arno è più deserto,

Così, io scrittore, vidi Vittorio Alfieri negli ultimi anni della sua vita. Giace in Santa Croce.

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Irato ai patrii, cioè coi patrii, alla latina, perciocchè l'Alfieri tolto erasi volontario esilio dal Piemonte e da Asti sua patria; ma meglio spiegherei: corrucciato co' Numi protettori d'Italia che negavano ad essa il loro benigno influsso, tenendola schiava e divisa.

Negli ultimi anni di sua gloriosa carriera, il sommo tragico erasi dato a una vita ritiratissima. Rifuggiva da qualunque nuova conoscenza e solo nelle solitarie passeggiate a cavallo, trovava qualche calma alla irrequietezza naturale dell'animo.

«Due fere Donne, anzi due furie atroci

Tôr non mi posso (ahi misero!) dal fianco;

Ira e malinconia

Così comincia un suo sonetto.

V. 192-195.

.............. e poi che nullo

Vivente aspetto gli molcea la cura,

Qui posava l'austero; e avea sul volto

Il pallor della morte e la speranza.

Il ritratto che il Foscolo fa del fiero Astigiano è dal Torti nel seguente modo apprezzato:

« ........ Quale Ugo il vide

Ove Arno è più deserto, e tale io il miro;

Chè non parole, a vero dir, non tratti

Son di pennello, ma viventi forme

Quelle ond'ei lo appresenta

E il professor Caleffi: «Dai pochi cenni sul Galileo, sul Dante, sul Machiavelli e dalla rapida pittura del fiero e taciturno Alfieri si scorge il magistero del poeta nel pennelleggiare con pochi tratti un quadro

Non credo fuor di proposito riportare in questo luogo il sonetto col quale l'Alfieri descrive stesso illustrando la propria effigie dipinta a olio66 dall'illustre Fabre amico suo, e, in particolare, della sua Donna, contessa d'Albany.

«Sublime specchio di veraci detti,
Mostrami in corpo e in anima qual sono.
Capelli or radi in fronte, e rossi pretti;
Lunga statura, e capo a terra prono:

Sottil persona su due stinchi schietti;
Bianca pelle, occhio azzurro, aspetto buono,
Giusto naso, bel labbro e denti eletti;
Pallido in viso più che un re sul trono.

Or duro, acerbo; ora pieghevol, mite;
Irato sempre e non maligno mai;
La mente e il cor meco in perpetua lite:

Per lo più mesto, e talor lieto assai;
Or stimandomi Achille, ed or Tersite:
Uom sei tu grande o vil? Muori e il saprai.

V. 196-197.

.............. e l'ossa

Fremono amor di patria.

Posciachè l'amor di patria, che spesso si traduceva negli scritti con l'odio ai tiranni, fu nel grande Astigiano il sentimento predominante della vita, nasce spontaneo e bello ad un tempo il pensiero che altresì le sue ossa fremano amor di patria entro la tomba.

Il suo mausoleo, opera dell'immortale Canova, si vuole una delle meno felici di lui.

V. 197-201.

.............. Ah sì! da quella

Religïosa pace un Nume parla:

E nutría contro a' Persi in Maratona

Ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi,

La virtù greca e l'ira.

In questo punto del carme l'Autore fa una digressione, la quale a prima giunta sembra che sappia di brusco; ma poscia il lettore si accorge che l'argomento anzi rincalza e non disdice il confronto. Forse si obbietterà che qua si tratta d'uomini grandi nelle scienze e nelle lettere e di virtù militari; ma in ambedue i casi rifulge il desiderio di gloria e il sacro amore di patria; lo scopo di quelle memorie, esempi, che eccitino e infiammino gli animi all'imitazione.

Da quella religiosa pace, ec. Il religioso silenzio di quel tempio è più eloquente di qualunque autorevole voce che vi chiami a redimere la patria dalla servitù e dallo straniero: gli è come vi parlasse un Nume; anzi è quello stesso Nume che, in Maratona, nudrì ne' greci petti la virtù e l'ira contro i Persiani ove un pugno di eroi, capitanati da Milziade, sconfisse la grande armata di Dario ed ove, a perenne testimonianza di sì memorabile avvenimento, Atene inalzò tombe a' suoi prodi.

F. V. 200.

Ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi,

Nel campo di Maratona è la sepoltura degli Ateniesi morti nella battaglia; e tutte le notti vi s'intende un nitrir di cavalli, e veggonsi fantasmi di combattenti.67 –– Nel campo di Maratona veggonsi sparsi assai tronchi di colonne e reliquie di marmi e cumuli di pietre, e un tumulo fra gli altri simile a quelli della Troade.68

L'isola d'Eubea siede rimpetto alla spiaggia ove sbarcò Dario.

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V. 201-203.

................. Il navigante

Che veleggiò quel mar sotto l'Eubea,

Vedea per l'ampia oscurità ec.

L'antica Eubea, oggi Negroponte, è la più grande delle isole dell'Arcipelago e si congiunge al continente greco mediante un ponte di pietra a cinque archi sull'Euripo, canale celebre. Un ponte levatoio sull'arco di mezzo passo alle navi.

Rappresenta un simulacro di quella famosa battaglia nell'orrore di una notte oscura, e lo descrive con tale evidenza da far sentire al lettore, come vi si trovasse presente, i brividi dello spavento. Ammirasi oltre a ciò nel ritmo dei versi un bell'esempio di armonia imitativa che contribuisce a render quel quadro perfetto.

V. 203-207.

Fumar le pire igneo vapor, corrusche

D' armi ferree vedea larve guerriere

Cercar la pugna;

La pira era una catasta di legna su cui bruciavansi i cadaveri. Pel ribrezzo che destasi in noi al solo pensare che il corpo nostro diventa putredine e pasto dei vermi, e pei casi, pur troppo non infrequenti, dei sepolti vivi, sarebbe ad augurarsi che riesca ad essere accetta all'universale e rimettasi in uso la cremazione dei cadaveri. I processi moderni rendendo l'operazione più speditiva e più accurata dell'antica, l' adottarla (però non disgiunta da venerazione e sacro rispetto) varrebbe un nuovo passo in avanti nella via del progresso e della civiltà.

Corrusco. Voce latina che vale risplendente, fiammeggiante; quindi larve, corrusche d'armi ferree perchè, dice il Foscolo, il ferro brunito, e niun altro metallo, rimanda raggi tetri e terribili.

F. V. 212.

........... delle Parche il canto.

«Veridicos Parcæ, cœperunt edere cantus.69»

Le Parche cantando vaticinavano le sorti degli uomini nascenti e de' morenti.

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Non mancavano che le Parche per rendere col loro canto quella descrizione maestosamente terribile.

Le Parche presiedevano alla vita ed alla morte degli uomini. Erano tre: Cloto, Lachesi ed Atropo; si figuravano vecchie ed ognuna, nello svolgimento della vita umana, aveva il suo compito. Cloto ammanniva la conocchia, Lachesi filava, e Atropo tagliava lo stame quando la vita de' mortali era giunta al suo termine. In tale attitudine le ha dipinte Michelangiolo in un quadro che può ammirarsi nella galleria Palatina di Firenze.

VII.

 

V. 213-218.

Felice te che il regno ampio de' venti,

Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi!

E se il piloto ti drizzò l'antenna

Oltre l'isole Egèe, d'antichi fatti

Certo udisti suonar dell'Ellesponto

I liti, ec.

Allude ai viaggi che il Pindemonte fece nella sua gioventù percorrendo il regno ampio de' venti, cioè il mare; ma forse si accenna più precisamente al gran tratto di esso, che si estende dalla Sicilia alle coste della Tracia, oggi Romelia, luoghi abitati da Eolo, Dio dei venti. Omero e Virgilio collocano la dimora di Eolo in una delle sette isole Lipari (anzi in Lipari stessa), poste al nord della Sicilia, dette anche Eolie per questa ragione; ed Eolia fu pur chiamata da alcuni la Tracia perchè quivi, in un antro, Eolo teneva chiusi e legati i venti, abitando egli stesso in una grotta vicina. Il Pindemonte nell'età di 24 anni percorse l'Italia, tragittò il Faro, visitò la Sicilia, e, varcando il Mediterraneo, si condusse a Malta, ove, come cavaliere gerosolimitano montò sulle galere dell'Ordine per fare la sua carovana.

L'isole Egèe. Le isole del mare Egeo, oggi Arcipelago, o, come i Turchi lo chiamano, mare Bianco.

F. V. 217-218.

............ dell'Ellesponto

I liti,

«Gli Achei innalzino a' loro Eroi il sepolcro presso l'ampio Ellesponto, onde i posteri navigatori dicano: Questo è il monumento di un prode anticamente morto.70 E noi dell'esercito sacro de' Danai ponemmo, o Achille, le tue reliquie con quelle del tuo Patroclo, edificandoti un grande ed inclito monumento ove il lito è più eccelso nell'ampio Ellesponto, acciocchè dal lontano mare si manifesti agli uomini che vivono e che vivranno in futuro.71»

––––––––––

Ellesponto. Stretto dei Dardanelli, ampio canale che disgiunge l'Europa dall'Asia. Secondo Strabone a sette chilometri e mezzo circa dalla costa dell'Ellesponto, in Asia, sorgeva la famosa città di Troja, tra i fiumi Scamandro e Simoenta; ma gli archeologi moderni la collocano alle falde del monte Ida, discosta dal mare non più di due chilometri, e precisamente in quel tratto di terreno, coperto di rovine, chiamato Kissarlik, tra i villaggi Kum-Kioi, Kalli-Fatti e Ciblak ove, non è molto, il dotto Schliemann scavando trovò a grande profondità oggetti antichi e due blocchi d'oro di volume diverso. Tale scoperta diè argomento a varie supposizioni, non esclusa quella che i detti oggetti facessero parte del tesoro di Priamo.

F. V. 219-220.

Alle prodi Retée l'armi d'Achille

Sovra l'ossa d'Ajace:

«Lo scudo d'Achille innaffiato del sangue d'Ettore fu con iniqua sentenza aggiudicato al Laerziade; ma il mare lo rapì al naufrago facendolo nuotare non ad Itaca, ma alla tomba d'Ajace; e manifestando il perfido giudizio de' Danai, restituì a Salamina la dovuta gloria.72»

«Ho udito che questa fama delle armi portate dal mare sul sepolcro del Telamonio prevaleva presso gli Eolii che posteriormente abitarono Ilio.73» –– Il promontorio Retéo, che sporge sul Bosforo Tracio, è celebre presso tutti gli antichi per la tomba d'Ajace.

––––––––––

Il Bosforo è il Canale di Costantinopoli, che unisce il mar Nero al mar di Marmara. Ajace ebbe l'onorevole sepoltura solita ad accordarsi a' più prodi morti in battaglia, a cui ergevansi ricchi monumenti, ne' luoghi più elevati della spiaggia del mare, onde fossero più in vista ed ammirati da lungi.

V. 220-225.

................... a' generosi

Giusta di glorie dispensiera è morte;

senno astuto favor di regi

All'Itaco le spoglie ardue serbava,

Chè alla poppa raminga le ritolse

L'onda incitata dagl'inferni Dei.

La morte è giusta dispensatrice di gloria ai generosi, cioè a coloro, fra' quali Ajace, che prodigano la vita pel bene pubblico o per una causa nobile e giusta. La morte facendo tacere l'invidia e le altre basse passioni, il mondo allora misura con occhio imparziale i meriti dell'estinto.

l'astuzia propria, che era famosa, il favore de' principi greci valsero a conservare ad Ulisse le spoglie di Achille, imperciocchè si unirono agli Dei celesti quelli d'Averno per suscitargli un naufragio onde non gli fosse concesso di trasportarle ad Itaca.

Va in proverbio il giudizio de' Danai, ossia de' duci Argivi, per denotare una solenne ingiustizia imperocchè, avendo detto l'oracolo che le armi di Achille dovevansi al più prode dell'esercito, ed Ajace Telamonico era acclamato tale da tutti, a lui non ad Ulisse ricadevano per dovere. Se Achille fu l'uccisore d'Ettore, Ajace gli aveva per una giornata intera tenuto fronte in singolar tenzone sotto le mura di Troja laonde, in segno di ammirazione e di stima reciproca, i due eroi si ricambiarono la spada, dono che poi riuscì ad entrambi funesto. Il cadavere di Ettore, legato al carro di Achille col balteo di Ajace, fu trascinato per ben tre volte intorno alle mura di Troja, ed Ajace, inconsolabile per l'oltraggio patito, si uccise colla spada di Ettore.

Ardue. Per la tempra, essendo state fabbricate da Vulcano ad istanza di Teti, e perchè indosso a quell'eroe si facevano valere.

VIII.

V. 226-229.

E me che i tempi ed il desio d'onore

Fan per diversa gente ir fuggitivo,

Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse

Del mortale pensiero animatrici.

Questa invocazione alle Muse accenna ai tempi in cui il Carme fu scritto. Tempi di licenza e di cieca servilità che, avendo deluse le speranze de' buoni e compromessa perfino la loro libertà personale, spingono il poeta a fuggire di gente in gente, anche pel desiderio di acquistar fama onorata. In grazia di ciò spera che le Muse, animatrici del pensiero umano, daranno animo al suo, onde possa evocar meglio col prestigio della poesia, gli eroi dell'antichità ad eccitamento della virtù.

V. 230-234.

Siedon custodi de' sepolcri, e quando

Il tempo con sue fredde ali vi spazza

Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti

Di lor canti i deserti, e l'armonia

Vince di mille secoli il silenzio.

Sembrami questo un periodo di stile poetico per eccellenza e pieno di bellissime frasi.

Le Muse, personificate nella poesia, tengono in custodia i sepolcri, ossia sono le depositarie delle antiche memorie; e quando il tempo ha disperso dei sepolcri fin le rovine, cioè i marmi e le ossa, i poeti co' loro canti armonici celebrano i fatti gloriosi dell'antichità e allietano i luoghi ove regnava, colla solitudine, un silenzio di migliaia di secoli.

Il tempo, essendo inesorabile, è senza pietà, quindi ben gli si addicono le fredde ali.

Dal fonte di Pimpla, che scaturisce dal monte Pimpleo vicino all'Olimpo, fra la Tessaglia e la Macedonia, le Muse presero il nome di Pimplèe o Pimpleidi.

F. V. 236.

Eterno ........ un loco

I recenti viaggiatori alla Troade scopersero le reliquie del sepolcro d'Ilo antico Dardanide.74

F. V. 237-238.

..... La ninfa a cui fu sposo

Giove, ed a Giove diè Dardano figlio

Tra le molte origini de' Dardanidi, trovo in due scrittori greci75 che da Giove e da Elettra figlia d'Atlante nacque Dardano. Genealogia accolta da Virgilio e da Ovidio.76

V. 235-240.

Ed oggi nella Tròade inseminata

Eterno splende a' peregrini un loco

Eterno per la Ninfa a cui fu sposo

Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio

Onde fur Troja e Assàraco e i cinquanta

Talami e il regno della Giulia gente.

«Perchè tra l'ombre della vecchia etade
Stendi lunge da noi volilunghi?
Chi d'Ettòr non cantò

Così Pindemonte ammoniva il Foscolo alludendo a questo luogo de' Sepolcri; ma a tale obiezione G. F. Borgno indirettamente risponde: «Un letterato dalla gran barba, ma freddo per natura, e per età: che salto, diceva, da' monumenti di Santa Croce a que' de' Dardanidi! Salto da buon poeta, e da buon loico, dico io. Per provare, che i sepolcri eretti agli Eroi sono eterni negli scritti de' poeti, e non sono soggetti alle ingiurie del tempo, che tutto distrugge, bisognava addurre un monumento antico, di cui si fosse parlato da' poeti, e si fosse mantenuta la memoria fino a' tempi nostri, la quale invitasse gli amatori delle Muse a visitare il luogo dove fu: e questo si è il monumento d'Ilo rammentato da Omero, e di recente scoperto; quanto è più antico il monumento tanto è più efficace la prova. Oltra ciò i fatti, che emergono dalle età remote hanno maggior ampiezza, e dignità, come gli obbietti fra la nebbia veduti ingrandiscono

Nella Troade, ora campagna incolta e deserta, splende e splenderà eternamente un luogo, reso per sempre celebre dalla Ninfa (Elettra) che da Giove ebbe Dardano il quale fondò Troja, fu progenitore di Assàraco, stipite dei cinquanta figliuoli di Priamo e di Giulio Ascanio da cui ebbe origine il regno della Giulia gente, cioè della razza latina.

È a tutti nota la leggenda secondo cui Enea, dopo l'eccidio di Troja, sarebbe sbarcato in Italia sposando Lavinia, figliuola del re Latino, dalla quale avrebbe avuto Giulio Ascanio antenato di Romolo e di Giulio Cesare.

La città che fondò Dardano fu dapprima chiamata Dardanide; ma poscia Troo, padre di Assàraco, le impose, dal nome suo, quello di Troja.

V. 241-244.

Però che quando Elettra udì la Parca

Che lei dalle vitali aure del giorno

Chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove

Mandò il voto supremo:

L'Eliso, o i Campi Elisii, era il luogo di beatitudine presso i Gentili.

Voto supremo. Ultimo e massimo insieme.

Quando Elettra si sentì venir meno la vita fe' voti a Giove per la grazia maggiore che un mortale possa desiderare, la fama. E come è detto in modo poetico ed elegante!

V. 244-249.

........ E se, diceva,

A te fur care le mie chiome e il viso

E le dolci vigilie, e non mi assente

Premio miglior la volontà de' fati,

La morta amica almen guarda dal cielo

Onde d'Elettra tua resti la fama.

Con questa calda, affettuosa e patetica preghiera Elettra rammenta a Giove le attrattive della sua bellezza e i diletti avuti seco lei, che pudicamente chiama dolci vigilie; e soggiunge: se il destino non mi può sottrarre dalla legge comune ai mortali, abbi almeno in considerazione la tua estinta amica onde non sia dimenticata dai posteri.

V. 250-253.

Così orando moriva. E ne gemea

L'Olimpio; e l'immortal capo accennando

Piovea dai crini ambrosia su la Ninfa

E fe' sacro quel corpo e la sua tomba.

Olimpio od olimpico. Uno è questo de' molti appellativi di Giove, il quale maestosamente facendo cenno col capo di esaudir la preghiera, lasciò cader da' suoi crini su la Ninfa il profumo della divinità per renderne sacri il corpo e la tomba.

Fra i diversi sensi che gli antichi davano alla parola ambrosia, cioè immortale, eravi pur quello di un unguento che fa incorruttibili i corpi.

V. 254-255.

Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto

Cenere d'Ilo;

Nella stessa tomba di Elettra giacque Erittonio, o Erictonio, padre di Troo e figliuolo di Dardano. Fu eziandio il sepolcro di Ilo, fratello di Erictonio, perciò Troja fu dal suo nome chiamata anche Ilion.

F. V. 255-256.

........... Le Iliache donne

Sciogliean le chiome,

Uso di quelle genti nelle esequie e nelle inferie.

« ........ Start manibus aræ,
Et circum Iliades crimen de more solutæ
.77»

––––––––––

Intorno a quella sacra tomba si andavano raccogliendo le donne trojane quando videro inevitabile la rovina della patria; ed ivi, sciolte le chiome in segno di cordoglio, scongiuravano gli Dei, ma indarno, perchè allontanassero dai loro mariti l'imminente disastro.

F. V. 258.

Cassandra

«Fatis aperit Cassandra futuris
Ora, Dei jussu non unquam credita Teucris
.78»

––––––––––

V. 258-262.

Ivi Cassandra, allor che il Nume in petto

Le fea parlar di Troja il mortale,

Venne; e all'ombre cantò carme amoroso,

E guidava i nepoti, e l'amoroso

Apprendeva lamento a' giovinetti.

La vergine Cassandra, figliuola di Priamo e di Ecuba, sorella ad Ettore, era celebre nel predire il futuro ispirata da Apollo, che le avea fatto il dono di profetizzare; ma non era creduta mai. Tale è il destino riserbato a tutte le figlie d'Eva, si direbbe quasi in punizione del primo funesto consiglio della loro progenitrice; eppure se gli uomini porgessero più benigno ascolto a quel fino buon senso, a quella percezione istantanea e sicura che talvolta le fa parlare, oh quante sventure di meno!

Qui è rappresentata Cassandra allorchè, conosciuto esser giunto l'estremo giorno di Troja, si reca alla tomba de' principi d'Ilio, e vaticinando le sventure della patria, canta un affettuoso carme alle ombre degli antenati. E in quello stesso luogo conduce i giovanetti nepoti perchè ascoltino i suoi tristi lamenti, dettati dall'amore che loro portava, onde prepararli alla rassegnazione.

V. 263-267.

E dicea sospirando: Oh se mai d'Argo,

Ove al Tidìde e di Laérte al figlio

Pascerete i cavalli, a voi permetta

Ritorno il cielo, invan la patria vostra

Cercherete!

Questo vaticinio della principessa trojana, che pone termine ai Sepolcri, è sublime per le immagini e per eloquenza patetica e affettuosa.

Argo, città della Grecia, è qui presa per l'intera nazione, ed i Greci che assediavano Troja sono rappresentati da Diomede figliuolo di Tideo e da Ulisse figliuolo di Laerte. Dunque Cassandra dice a' suoi nipoti: se mai il Cielo vi concedesse un giorno il ritorno dalla schiavitù, dove sarete trascinati dai vincitori, non troverete più la patria vostra.

V. 267-271.

.......... Le mura opra di Febo

Sotto le lor reliquie fumeranno.

Ma i Penati di Troja avranno stanza

In queste tombe; chè de' Numi è dono

Servar nelle miserie altero nome.

È fama che le mura di Troja sorgessero per opera di Apollo.

La città sarà distrutta dalle fiamme, cosicchè il fumo uscirà di sotto le macerie; ma gli Dei tutelari di Troja (rappresentati qui dagl'illustri antenati) resteranno, dice la sventurata Cassandra, perennemente in queste tombe, imperocchè privilegio è de' Numi di non essere avvolti nel turbinìo delle miserie umane.

Questa sentenza vien ritorta in altro senso in una lettera che il poeta dirige a lady Dacre a cui, manifestando l'idea di andare alle case a dar lezione di lingua e letteratura italiana per campare la vita, fa sentire la sua ripugnanza di annunziarsi pedagogo itinerante, e dice: «De' Numi è dono serbar nelle miserie altero nome,» volendo significare in questo caso, essere una grazia del Cielo se l'uomo, caduto in miseria, conserva l'altezza d'animo e la dignità personale.

V. 272-278.

E voi palme e cipressi che le nuore

Piantan di Priamo, e crescerete ahi presto

Di vedovili lagrime innaffiati,

Proteggete i miei padri: e chi la scure

Asterrà pio dalle devote frondi

Men si dorrà di consanguinei lutti

E santamente toccherà l'altare.

Questa pietosa e appassionata apostrofe rivolta alle sacre piante che circondano la tomba d'Ilo accresce vigore all'argomento e rende più commovente e più variato il quadro. L'infelice Cassandra, che nel disastro universale era a lei serbata la sventura di andare schiava di Agamennone, prega le palme e i cipressi piantati in quel luogo dalle nuore di Priamo e cresciuti per le lagrime di tante vedove, di proteggere gli antenati suoi, e minaccia castigo dal Cielo a chi fosse ardito di abbatterli. Rammenta che sarà in vece santificato, cioè godrà la protezione divina, chi si farà un pio dovere di rispettar quelle piante.

A' tempi del gentilesimo, le Driadi e le Amadriadi erano ninfe che proteggevano le piante. In ogni foresta abitava una Driade ed ogni albero racchiudeva un'Amadriade. Il padre di Parebio che non volle esaudire le preghiere di un'Amadriade di non abbattere una superba quercia da lei scelta a dimora, fu colpito la sera stessa insieme al figliuolo da inaspettata e immatura morte.

F. V. 280.

Mendico un cieco.

Omero ci tramandò la memoria del sepolcro d'Ilo.79 È celebre nel mondo la povertà e la cecità del sovrano poeta.

« ........ Quel sommo

D'occhi cieco, e divin raggio di mente,

Che per la Grecia mendicò cantando:

Solo d'Ascra venian le fide amiche

Esulando con esso, e la mal certa

Con le destre vocali orma reggendo;

Cui poi tolto alla terra, Argo ed Atene,

E Rodi e Smirna cittadin contende;

E patria ei non conosce altra che il cielo.80»

Poesia di un giovine ingegno nato allo lettere e caldo d'amor patrio: la trascrivo per tutta lode, e per mostrargli quanta memoria serbi di lui il suo lontano amico.

–––––––––

V. 279-283.

............. Un vedrete

Mendico un cieco errar sotto le vostre

Antichissime ombre, e brancolando

Penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne,

E interrogarle.

Qui, nell'estasi del vaticinio, la profetessa si rappresenta il cieco Omero che erra fra le ombre di quegli alberi funerei e penetra a tentoni ne' sotterranei avelli e indaga e cerca per ispirarsi della sublime epopea che descriverà coll'Iliade. Ecco perchè il Poeta disse che il canto delle Pimplèe attraversa il corso dei secoli; e così viene esaudita la preghiera di Elettra di cui Omero eternava la fama.

F. V. 285.

Ilio raso due volte

Da Ercole,81 e dalle Amazzoni.82

F. V. 288.

Ai fatati Pelìdi.

Achille, e Pirro ultimo distruttore di Troia.

––––––––––

V. 283-288.

......... Gemeranno gli antri

Secreti, e tutta narrerà la tomba

Ilio raso due volte e due risorto

Splendidamente su le mute vie

Per far più bello l'ultimo trofeo

Ai fatati Pelìdi.

Ho seguìto la lezione di Niccolò Bettoni, Brescia 1808, che stampa fatati, benchè possa stare anche fatali, come leggono alcune edizioni posteriori. Fatato vale, dato o permesso dai fati, Destinato; e fatale, come aggiunto di cosa, significa prescritta dal fato in modo che non può non essere, non accadere. Fatato porta anche il significato di invulnerabile: ma non è questo il caso perchè tale, e non tutto, era soltanto Achille. pure va preso fatali per funesti sebbene in vero i Pelìdi, così chiamati da Pelèo padre di Achille, furono anche assai funesti a Troja, imperocchè senza l'aiuto di Achille era stato predetto non potersi quella città espugnare, e Pirro per vendicare la morte del padre, uccide il vecchio Priamo, il figlio Polite e, sordo alle preghiere di Ecuba, svena Polissena sulla sua tomba. Questo terribile episodio della guerra trojana, che l'esimio scultore Fedi con molta arditezza condusse in marmo felicemente, fa splendida mostra di sotto le logge dell'Orgagna a Firenze.

Il concetto de' suddetti versi è, che gli spettri de' sepolti narreranno, gemendo, al gran poeta Omero i destini della patria loro ed ogni memoria di quel sacro luogo sarà argomento al medesimo per cantare la storia di Troja.

 

V. 288-291.

.......... Il sacro vate,

Placando quelle afflitte alme col canto,

I Prenci Argivi eternerà per quante

Abbraccia terre il gran padre Oceàno.

Il sacro vate. Omero, il quale con la meravigliosa narrazione di quella guerra e de' fatti eroici cui diede luogo, placherà gli abitatori delle tombe d'Ilio facendo chiaro il valore de' Trojani e in tutto il mondo eterna la fama de' principi greci.

Per quante abbraccia ec. Immagine di bellezza vasta quanto l'Oceano!VI

V. 292-295.

E tu onore di pianti, Ettore, avrai

Ove fia santo e lagrimato il sangue

Per la patria versato, e finchè il Sole

Risplenderà sulle sciagure umane.

Magnifica conclusione nella quale viene nuovamente in campo l'amor di patria da cui il Carme s'inspira, e si fine al medesimo con una frase melanconica com'è lo stile dell'intero componimento sul quale il Martignoni (Del Sublime, capo terzo) lasciò scritto:

«Se v'ha produzione fra le recenti, la quale un quadro ci offra eminentemente osservabile per altezza e maestà di carattere costantemente sostenuto, si è, a mio giudizio, l'immaginoso carme di Ugo Foscolo sui Sepolcri. Il tema per eccelso perchè d'indole grave e severa, è dal valoroso scrittore alla sublimità elevato per evidenza d'immagini, per ardore d'affetti, per energia di locuzione e di numero, per icastica singolare negli aggiunti, e per un'acconcia allusione agli antichi riti simbolici, la qual dignità aggiunge grandezza al cupo e terribile argomento





51 Lucrezio, lib. III, 85.



52 Terenzio, Eunuco, att. III, sc. 5. –– Ed Ennio presso Varrone De L. L. lib. VI.



53 Lettera critica sui Sepolcri.



54 Giusti, Vita del Parini.



IVero è però che in certe parti d'Italia, ove la civiltà lascia ancora a desiderare, veggonsi cimiteri che sembrano serpai anzichè il sacro asilo dei morti.

Da tempo sono io stesso testimone di varie profanazioni di questo genere. Quasi ogni anno necessità mi porta di passare davanti a un cimitero di campagna da cui ritorco lo sguardo per non vederne l'orrore. Il vecchio muro di cinta che costeggia la strada pubblica, bassissimo e senza intonaco, giace da varui anni nella maggior parte diroccato fino al suolo. Talvolta le ampie aperture, per ove la derelitta cagna può avere accesso, sono turate da spini secchi; tal'altra, si osserva che qualche mano pietosa ha tentato di chiuderle alla meglio col radunarvi le macerie sparse. Di un bastone a traverso e di spini secchi è formato il cancello. Per piante, le ortiche; e alcune rozze croci confitte sui tumuli danno solo indizio della dimora de' trapassati.

In altro sacro recinto, più nobile del precedente, il custode vi teneva le sue galline, permetteva alle donnicciuole che vi distendessero il bucato, e vi lasciava falciar l'erba per darne pasto alle bestie.

 



II – L'uomo non dirozzato dalla civiltà e dall'educazione è il più feroce degli animali e se belva era, di belva segno tuttora, non solo nelle lontane isole della Polinesia e nell'interno dell'Africa, ove restano traccie di cannibalismo; ma in casi non infrequenti, nel bel mezzo di Europa, e nella stessa Italia nostra, ove non passa giorno che non s'odano fatti che fanno rabbrividire poichè, giusta la sentenza di Dante:

«. . . dove l'argomento della mente
S'aggiugne al mal volere ed alla possa,
Nessun riparo vi può far la gente

Questo re degli animali che, nella sua superbia, si vanta fatto ad immagine di Dio, oltre ch'egli è, nella sua imperfezione, formato della compage fisica dei bruti ed ha comuni con essi gli stessi principii chimici, non offre eziandio nelle qualità morali qualche cosa di comune con loro? Nol confessiamo noi medesimi ingenuamente tutto , applicando i nomi di volpe, di tigre, di orso, di coniglio, di mandrillo ec. ai nostri simili quando il carattere loro ritrae dalla natura di quelle bestie? E per lo contrario, in alcuni animali troviamo un rudimento di certe attività dello spirito umano; in altri, la cui conformazione è più perfetta, altre attività più sviluppate e più nobili. Per accennarne alcune sommariamente, chi non ammira la previdenza della formica, l'industria del castoro, l'affezione e la fedeltà del cane, l'arditezza dell'aquila, la fiera dignità del leone, l'intelligenza e lo spirito imitativo della scimmia? Anche i bruti hanno un linguaggio, primordiale e informe quanto volete; ma pur s'intendono fra di loro; e se il linguaggio articolato (non tenuto conto del pappagallo e di qualche altro uccello) si vuole proprio e solo dell'uomo, rimane tuttora molto povero e rozzo fra le tribù selvaggie, e dai suoi primordi al giungere al grado a cui noi l'abbiamo portato, e che può ancora perfezionarsi, passò per una serie di lenti e penosi progressi e si andò svolgendo insieme al perfezionamento del cervello e degli organi vocali. Ma ritornando fra noi, quando nel civile commercio siamo talvolta costretti di aver rapporti con persona ignorante, materiale e rozza, non ci augureremmo piuttosto di aver che fare con una vera e propria bestia? Le coscienze più timorate, le anime più pure non si sentono spesso spinte a prevaricare da un interno impulso? E che altro è questo se non l'ereditato istinto brutale cui l'onore e mille riflessioni raffrenano? Quanti errori talvolta per non voler considerare le cose sotto l'aspetto loro più semplice e naturale, ripugnandovi la mente dell'uomo, la quale vagheggia il meraviglioso perchè in esso ha il vantaggio di pascersi di belle illusioni! «La fantasia del mortale, dice Foscolo, precorre le ali del tempo, e al fuggitivo attimo presente congiunge lo spazio di secoli e secoli ed aspira all'eternità; sdegna la terra; vola oltre le dighe dell'oceano, oltre le fiamme del sole; edifica regioni celesti, e vi colloca l'uomo, e gli dice: Tu passeggerai sovra le stelle; così lo illude, e gli fa obbliare che la vita fugge affannosa, e che le tenebre eterne della morte gli si addensano intorno.» [Prolusione alla cattedra di Pavia.] Ma se in noi desta ribrezzo l'ipotesi che l'uomo sia derivato dai bruti, (opinione sostenuta da molti e valenti naturalisti) partendoci però da questo principio ci sarà agevole la spiegazione di molti fenomeni della natura umana che sembrano inconcepibili. E poichè l'argomento, dalle sottili speculazioni dei filosofi in cui si agitava, è passato oggigiorno nel dominio del pubblico, val meglio discuterlo che cercar di occultarlo, imperocchè le grandi verità non debbono far paura e lo arrestarle non giova.

Che l'Autore dell'universo abbia, col suo soffio vivificatore, creato istantaneamente l'uomo da un pugno di creta, o ch'egli, qual forza insita nella natura, abbia dato alla materia la vita cominciando dagli esseri semplicissimi, e con la vita la facoltà di svolgersi ne' due regni, vegetale e animale; e gradatamente per lungo volger di tempo immensurabile, migliaia, forse milioni di secoli e per influenze molteplici, di modificarsi e prender forme diverse perfezionandosi sempre, sono due ipotesi egualmente meravigliose. Se non che la seconda appare alla mente del filosofo più logica e naturale perchè si basa sopra fatti le cui deduzioni sono sì stringenti da escludere perfino l'idea di una vera e propria ipotesi. Anzi da quest'ultima, se ben si consideri, può sorgere un principio fondamentale fecondatore di grande moralità pei popoli; quello cioè, che necessario sia d'infondere e propagare quanto più è possibile l'educazione e l'istruzione, unici mezzi per ammansire gl'istinti feroci, render miti i costumi e prevenire i delitti, visto oramai che l'inferno e il patibolo sono corazze di carta contro l'infuriare delle passioni e la selvaggia pravità dell'animo. Perciò operano saviamente quei governi che rivolgono cure speciali all'uopo, e cominciano dal non lasciare i figli del popolo l'intero giorno in preda a stessi, erranti per le pubbliche vie, onde salvarli dalla galera.

Noi in Italia abbiamo in questo anche il grave torto di avere fin qui lasciata troppo incolta la donna e di non educarla in modo che possa governare gl'impeti del cuore, ossia il sentimento, il quale in lei troppo spesso invade il dominio della ragione. Eppure essa, pel grande impero che ha sul cuor dell'uomo, e pel còmpito che le si spetta della prima educazione dei figli, può esercitare la più grande influenza sui destini di una nazione. Noi succhiamo da lei col latte i rudimenti delle cognizioni, e se la madre nostra sarà ignorante, superstiziosa e invasata dai pregiudizi, ne sentiremo le funeste influenze per tutta la vita; chè il padre, per brav'uomo ch'ei sia, buon grado o malgrado suo, finisce il più delle volte per cedere a lei sull'indirizzo da darsi ai figliuoli. In vece d'inspirarci nobili sentimenti, di formarci l'animo generoso ed ardito, le sue idee storte e piccine influiranno a farci o cattivi o inetti, inconcludenti e buoni da niente.

mi si obietti che la donna istrutta si renda, per la vanità del suo sesso, grave e stucchevole. Ciò può avvenire e avviene quando una istruzione frivola e leggiera sfiora appena la prima corteccia, imperocchè allora ella crede di essere qualche cosa e non è nulla. Ma se volgerete la mente sua, non dico già agli studi severi e profondi dell'uomo, però a cose utili, serie ed opportune al suo ufficio, dell'istruzione ricevuta farà con modestia il miglior uso possibile; anzi conosciuti meglio allora i suoi doveri, il buon ordine della casa non sarà trascurato, e quell'ingegno che, nell'ignoranza, coltiva in gran parte alla scaltrezza, alle astuzie e al soverchio lisciarsi, volgerà all'acquisto di nobili e soavi virtù che la rendano più stimabile al mondo. Così farà breccia anche sul celibato e vincerà le sue diffidenze.

Pietro Giordani dice a questo proposito: «Noi desideriamo che sieno finalmente educate in Italia le donne, per questo che dalle mani loro escano formati uomini i quali possano portare degnamente il nome d'Italiani. . . . Alle quali fanno pur troppo non falsi rimproveri le altre nazioni. Non parlo di quella dove mostra che si cerchi più assai il parere che l'essere,[ E perciò, più al parere che all'essere, è improntata l'educazione delle nostre civili fanciulle oggigiorno per la smania d'imitare quella nazione. Siamo pure francesi, tedeschi, inglesi, secondo il vento della moda che soffia, ed anche turchi se più vi piace; ma prima di tutto siamo italiani per non avvilire la dignità di noi stessi e della patria nostra.] la quale non giudicherebbe tanto superbamente le altre, se non perdonasse troppo a stessa. Ma le inglesi e le tedesche non hanno il torto, qualora paragonandosi alle nostre, ne giudicano miserabile e sordida, piena di errori, piena di vizi l'educazione. E nondimeno di quanto le vincerebbe tutte l'indole italiana bene educata! Ma è impossibile che si cerchi rimedio al male, finchè il male, o per ignoranza o per pigrizia o per ostinazione è amato

E l'Ariosto:

«Le donne antique hanno mirabil cose

Fatte nell'armi e nelle sacre Muse;

E di lor opre belle e gloriose

Gran lume in tutto il mondo si diffuse.

Arpalice e Camilla son famose,

Perchè in battaglia erano esperte ed use:

Saffo e Corinna, perchè furon dotte,

Splendono illustri e mai non veggon notte.

Le donne son venute in eccellenza

Di ciascun'arte, ove hanno posto cura;

E qualunque all'istorie abbia avvertenza,

Ne sente ancor la fama non oscura.

Se 'l mondo n'è gran tempo stato senza,

Non però sempre il mal influsso dura.

E forse ascosi han lor debiti onori

L'invidia, o il non saper degli scrittori

E il Foscolo in una lettera a Sigismondo Trechi, Londra, 30 giugno 1821: «Tu hai lasciato qui molte donne, alle quali tu bramavi che le nostre potessero somigliare; e se alcune le sono tali da farne vergognare d'essere italiani, non è colpa loro, ed è merito della natura se non le sono peggiori, ma pur troppo

«Natura non può star contro al costume

E il cielo perdoni ai loro sciaguratissimi padri, che non hanno voluto potuto forse educarle un po' meglio; e solo quando il cielo avrà, se avrà mai, pietà dell'Italia, allora le donne nostre saranno le migliori e le più utili educatrici della mente e dell'anima dei loro concittadini.» [Pubblicata da Cesare Cantù, Il Conciliatore e i Carbonari.]

Ora il cielo pietà dell'Italia l'ha avuta, ma la strada antica non è stata cambiata; anzi l'accordo nel sistema, salvo poche eccezioni, è così conforme ed unanime che richiama alla memoria la similitudine delle pecore di Dante. L'importanza del problema merita che dal vago e dall'astratto si passi al concreto, ma vista l'incompetenza mia sull'argomento, abbozzo per mio solo uso e consumo il seguente

PROGRAMMA intorno all'educazione da compartirsi
ad una giovine borghese, benestante italiana.

COLTURA INTELLETTUALE.

La mia giovine borghese la vorrei educata in casa, potendo, presso la propria madre. Ciò saria meglio assai che in qualunque istituto, specialmente se l'ambiente della famiglia spirasse soavità morale. Non così pei maschi ai quali destinerei di preferenza il collegio.

Comincerei da un buon fondo di grammatica applicata allo studio dei classici italiani, imparandone a memoria i tratti più belli. C'è una mèsse d'oro da mietere in codesto campo!

Geografia.

Storia patria in larghe proporzioni, che potrebbe estendersi fino alla lettura di Plutarco: Le vite degli uomini illustri, traduzione del Pompei, studio del quale la signora Diamante Foscolo si era nudrita per insegnarle a' suoi figli.

Aritmetica, nozioni di computisteria e di economia domestica da renderla abile all'azienda della casa e all'amministrazione del patrimonio della famiglia in caso di vedovanza o della incapacità del marito.

Gli elementi delle scienze naturali, onde si rendesse ragione almeno dei fenomeni principali. della natura.

Tollerato il disegno, pel caso che, se in lei fosse un germe di gusto pel bello artistico, potesse svilupparsi.

Lingue straniere nessuna, o al più al più la francese, studiata a tempo avanzato, come per trastullo, onde serbare il migliore per le cose più necessarie e per imparar bene la lingua nostra, della cui bellezza dovremmo andare orgogliosi, e che pur troppo corre, per le bocche e negli scritti (i miei compresi) piena di barbarismi. Così la musica, che vorrei coltivata soltanto in quelle fanciulle le quali manifestassero una disposizione speciale; altrimenti si sciupa tempo e danaro, collo strazio delle orecchie del prossimo.

Lo studio del governo della famiglia, dell'allevamento e dell'educazione de' figliuoli (argomenti di cui non mancano in Italia ottimi trattatelli) se fosse inteso da un cuore ben fatto dalla natura e nudrito dal buon esempio delle virtù domestiche, farebbe l'ideale di una buona madre compiuto.

EDUCAZIONE RELIGIOSA.

Questa parte va lasciata in arbitrio de' genitori e del loro buon senso; ma non credo sia da lodarsi l'uso di alcuni Conservatorii che mandano le allieve in chiesa tre o quattro volte al giorno. Ogni soperchio rompe il coperchio.

LAVORI DONNESCHI.

In quanto ai lavori donneschi darei maggiore importanza a quelli che sono di più utilità nelle famiglie, secondando per altro le disposizioni particolari. I più utili mi sembrano, oltre al saper soprintendere al filato e al cucito, il rammendo e il taglio della biancheria, le camicie da uomo comprese specialmente: ultimo di tutti il ricamo.

Infine vorrei (e questo compirebbe l'ideale della mia moglie) che essa s'intendesse di cucina e di credenza, per servirsene all'uopo e la ragione si è, che dopo aver io lavorato ed almanaccato tutto il giorno per prosperare la mia famiglia, tornato a casa stanco ed infastidito, col bisogno di ristorarmi e di ricrearmi, non avessi ad imprecare all'incapacità o alla sbadataggine della serva e a fare spesso la parte di protagonista in quelle scene comiche non infrequenti nelle famiglie le quali, anche senza dar lavoro ai denti, fanno mangiar veleno.

Chi più ne vuole ne prenda a seconda dell'ingegno, dell'inclinazione, della volontà, dei mezzi e della posizione sociale.

 



55 Odissea, lib. XIV. 369.



56 Virgilio, Eneid., lib. III, 62; ibid, 303; lib. VI, 177, Ara Sepulcri.



57 Apuleio, De Deo Socratis.



58 Persio, Sat. 1, 38.



59 Tibullo, lib. II, eleg. VI.



60 Ecclesiast., cap. XLIX, 1.



61 Iscrizioni antiche, illustrate dall'abate Gaetano Marini, pag. 184.



62 Ercole Silva, Arte dei giardini inglesi, pag. 327.



63 Carlo Botta, Storia d'Italia.



64 Il Del Buono inventore della maschera di Stenterello. Volle rappresentare, dice una nota al Giusti, (edizione Le Monnier) la lepidezza sciocca del popolo fiorentino degenere dal carattere avito.



III – La nobiltà, cresciuta potente col feudalismo, quando nel medio evo prevaleva, col governo dispotico, la forza brutale, fu giudicata necessario puntello al trono e buona politica a que' tempi di erigerla a istituzione sociale. Furonle perciò accordati privilegi, esenzioni e titoli e qual uso ne facesse è la storia che parla; ma oggi che il reggimento de' popoli si deve informare a giustizia, e si basa sull'eguaglianza sociale, ha essa perduto gran parte del suo prestigio e non ha più ragione di esistere. I privilegi sono scomparsi, e già ella stessa si è accorta che non sono i titoli che illustrano gli uomini, ma gli uomini i titoli e che questi soli, senza il corredo de' meriti personali, non possono più raccomandarla alla pubblica venerazione: quindi è diminuito d'assai il numero di quella

«Gente che incoccia maledettamente

D'esser di carne come tutti siamo,

E vorrebbe per babbo un altro Adamo

 (Giusti.)

E questo in grazia della progredita civiltà, la quale guidata dal lume della scienza, ogni giorno modifica le idee a più retto giudizio. «Aujourd'hui encore, (dice Hæckel, Storia della creazione degli esseri organizzati) dans beaucoup d'Etats barbares on civilisés, la hiérarchie héréditaire des classes va si loin qu'un noble, par exemple, se croit d'une toute autre nature qu'un bourgeois, et, quand il commet un acte déshonorant, il est, en punition de sa faute, rejeté dans la caste des bourgois, parias de cet ordre social. Ces nobles personnes ne seraient pas si fières du sang précieux qui coule dans leurs veines privilégiées, si elles savaient que, durant les deux premiers mois de leur vie embryologique, tous les embryons humains, nobles ou bourgeois, se distinguent à peine des embryons urodèles du chien et des autres mammifères

questo è tutto, poichè, durante il corso della gestazione, il feto umano prima che assuma la sua impronta speciale percorre ne' suoi svolgimenti tutte le gradazioni di forma per cui passarono gli animali a lui inferiori, e cominciando dalla comune segmentazione dell'uovo e dal conforme sviluppo dell'embrione, esso rassomiglia prima ad un pesce, poi ad un anfibio, e per ultimo ad un vertebrato.

Ma i privilegi e i pregiudizii sono come gli alberi secolari, i quali mettonoprofonde radici che l'accetta non vale a distruggere, sì bene l'azione lenta del tempo, che a poco per volta farà scomparire negl'individui e ne' corpi sociali le anomalie di questa specie, che ancora restano. Il potere è, di sua natura, usurpatore. Come privilegio odioso, furono aboliti i tribunali ecclesiastici; ma, benchè in circolo più ristretto, rimane ancora e si conserva negli alti corpi delle Stato un quid simile. In uno, la facoltà di costituirsi in alta corte di giustiza per giudicar stesso ne' membri suoi; nell'altro, una specie d'immunità temporanea della quale non si fa sempre buon uso.

Nel grande cataclisma politico della fine dello scorso secolo la nobiltà raccolse il frutto dell'odio che avea seminato. L'ira del popolo, da tanto tempo compressa, eruppe con furore contro di essa, «e l'Assemblea costituente di Francia abolì tutti i suoi titoli e privilegi, proclamando il gran principio che tutti gli uomini sono eguali fra loro, che il solo merito costituisce una distinzione fra le classi, e che in uno Stato, a voler essere il primo per considerazione, bisognava incominciare dall'essere il primo per merito

Ma poscia Buonaparte, che per giungere al potere fingevasi democratico, usurpata che ebbe la dignità imperiale, creò una nobiltà nuova, che servì a ripristinare l'antica, cominciando coll'Ordine della Legione d'onore, da lui inventato dal momento che fu primo Console, a doppio scopo di ricompensare il merito militare e civile e di lastricarsi la via all'assoluto comando.

Se esiste nobiltà vera, essa per certo è quella delle famiglie storiche illustrate da fatti civili o militari, coll'ingegno, colla virtù de' lor maggiori o per tutte queste cose insieme, ed è di questa nobiltà che il nostro divino Poeta parla ed esclama:

«O poca nostra nobiltà di sangue,
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ben se' tu manto che tosto raccorce,
Sì che, se non s'appon di die in die,
Lo tempo va d'intorno con le force

La qual sentenza equivale a dire, che un discendente di famiglia illustre ha demeritato la stima pubblica, e con essa perduto il diritto di fregiarsi di un titolo che non gli appartiene, se la virtù degli avi non ha mantenuta in vigore colle opere sue. Da questa massima si dovrebbe dedurre per conseguenza logica il principio, che quando un governo stimi non sufficente ricompensa alle nobili azioni il compiacimento che lasciano di stesse in chi le opera e voglia rimeritarle coll'onorificenza di un titolo, debba questo spegnersi coll'individuo che l'ha meritato.

Visto quali sieno coloro che, in ogni caso, potrebbero aspirare al vanto di nobiltà, cosa dovrebbesi dire degli altri che si agitano e confondono nel gran buglione della gente inquartata? Sul merito dei diplomi venduti o di quelli che si comperano dai sovrani, di chi potè procurarseli con azioni tutt'altro che virtuose e di chi si affatica a distinguersi solo per vana gloria? Di questi ultimi volle Molière mettere in mostra il lato ridicolo allorchè scrisse nella commedia: L'Ecole des femmes:

«Je sais un paysan qu'on appelait Gros-Pierre,
Qui n'ayant pour tout bien qu'un seul quartier de terre,
Y fit tout à l'entour faire un fossé bourbeux,
Et de monsieur de l'Ile en prit le nom pompeux

E a dire! che fin dai tempi di Orazio, di Persio e di Giovenale si batte e si ribatte su questo chiodo ed ancora non è penetrato nella cervice umana indurita da secoli in quella specie di pregiudizi che hanno la loro radice nello smodato amor proprio: anzi, caso strano, se non è impulso di reazione, da qualche anno, che tira vento democratico, sembra di scorgere in vece di una sosta un'esacerbazione da noi nella titolomania. Ciò serva di norma ai novatori che vorrebbero riformare il mondo in ventiquattr'ore.

Ben diverso da quello dei titolati è il caso del patriziato. In che questo consista cel fa conoscere un paragrafo di lettera che Ugo Foscolo dirigeva al conte Giambattista Giovio.

«Quantunque, dice, da più e più anni la mia famiglia non abbia di nobile e di patrizio che il nudo nome, io stimo i patrizi e disprezzo i nobili. Ed è per me vero patrizio di una città chi ha terre da far fruttare, sepolcri domestici da venerare, lari da difendere ed antenati da imitare, i quali, per lungo ordine di anni, abbiano o arricchita la loro patria coll'industria, o celebrata con la virtù e con l'ingegno, o protetta col sangue. Ma i titoli, i feudi e gli stemmi che ogni principe può dare e può torre, e che ogni soldato straniero, o mercadante fortunato, o letterato cortigiano può assumere ne' paesi conquistati o usurpati, e che può tramandare a' suoi nipoti, sono, a' miei sguardi, ricami sopra sucida tela

Il patriziato, inteso in codesto modo, è elemento necessario e da farne conto in ogni ben ordinato governo, sia esso di forma monarchica temperata o di repubblica, imperocchè il merito, la virtù e il censo s'impongono alle moltitudini e, la superiorità che ne deriva, quando non prevarichi, serve a dirigerle a fine buono.

Moderatore della potenza popolare (che spinta da passioni disordinate, tende a trascendere, e, senza mente da reggersi da stessa, diventa spesso istrumento inconscio dei furbi che cercano di volgerne i generosi slanci a profitto proprio) mantiene il patriziato in equilibrio le forze del governo e lo fa duraturo.

Fra gli antichi governi, la Repubblica di Venezia che abbandonò per tempo la forma tribunizia e le tumultuarie popolari elezioni, e si resse col patriziato, durò da 14 secoli; quella di Firenze in vece che non seppe stabilire ordini buoni e tentava sempre di organizzarsi democraticamente, viveva in continue commozioni e in guerra civile finchè alla fine fu spenta da chi, con arti corruttive vestite di abbagliante munificenza, tendeva agguati per tirare a proprio vantaggio le discordie de' cittadini.

Fra i moderni, il governo inglese, che puossi chiamare una repubblica aristocratica, procede regolarmente e senza scosse violenti da tanto tempo; talchè è portato spesso ad esempio come modello di reggimento libero.

 



IV – Da circostanze diverse può, secondo Giovanni Villani, avere preso Firenze il nome. Da un certo Fiorino, romano, che, con sue genti era in quel luogo stato morto da' Fiesolani; dal fiore della cittadinanza romana che fuvvi da principio mandata ad abitarlo, dopo che Fiesole fu distrutta da Giulio Cesare; e dalla quantità di fiori, segnatamente gigli della specie detta Iris alba fiorentina, volgarmente giaggiolo, che nasceva spontanea ne' campi all'intorno. Quest'ultima è forse la più incalzante. Foscolo vorrebbe che il suo primo antichissimo nome fosse Firzah, indi fu cominciata a chiamarsi Floria, che poi, per lungo uso volgare si converse in Fiorenza, e per ultimo in quello di Firenze; città rappresentata in araldica con un giglio rosso in campo bianco.

«L'arma di Firenze è una di quelle che si dicono parlanti, e rappresenta un giglio sparpagliato...

» Il giglio era in principio bianco nel campo rosso, e lo avevano comune la parte guelfa e la ghibellina; ma nel 1251, quando i ghibellini furono cacciati da Firenze, da cui si partirono raccolti sotto la bandiera della città, i guelfi, per distinguersi, invertirono i colori dello stemma, adottando il giglio rosso nel campo bianco. A che volle alludere il divino Poeta nel canto XVI del Paradiso quando scriveva:

 

» Con queste genti vid'io glorïoso,
E giusto 'l popol suo tanto, che il giglio
Non era ad asta mai posto a ritroso,
per divisïon fatto vermiglio

 [Cav. Luigi Passerini, Le armi dei municipi toscani.]

 



VFrancesco Petrarca nacque in Arezzo nel 1304. Passeggiando per quella città fa meraviglia lo straordinario numero di epigrafi in marmo che vi si veggono, e ritengo che nessun'altra possa vantare di aver dato al mondo, in proporzione, tanti uomini egregi.

Giovanni Villani, parlando di Arezzo, dice: «Furono anticamente fatti in quella città per sottilissimi maestri vasi rossi con diversi intagli di tutte forme di sottile intaglio, che veggendoli parevano impossibili a essere opera umana, e ancora se ne truovano. E di certo ancora si dice, che il sito e l'aria di Arezzo genera sottilissimi uomini

 



65 Platone, nel Convito; o Teocrito, Epigram. XIII.



66 I due ritratti, dell'Alfieri e dell'Albany, dipinti dal Fabre sono a Firenze nella Galleria degli Uffizi.



67 Pausania, Viaggio nell'Attica, cap. XXXII.



68 Voyage dans l'Empire Othoman, l'Egypte et la Perse, par G. A. Olivier; tom. VI, cap. XIII.



69 Catullo, Nozze di Tetide, v. 806.



70 Iliade, lib. VII, 86.



71 Odissea, lib. XXIV, 76 e seg.



72 Anacleta veterum, Poêtarum, editore Brunch, vol. III. Epiyram anonimo, CCCXC.



73 Pausania, Viaggio nell'Attica, cap. XXXV.



74 Le-Chevalier, Voyage dans la Troade, seconda edizione. –– Notizie di un viaggio a Costantinopoli dall'ambasciadore inglese Liston, di Mr Hawkins, e del Dr Dallaway.



75 Lo scoliaste antico di Licofrone al verso 19. –– Apollodoro, Bibliot. lib. III, cap. 12.



76 Eneide, lib. VIII, 134. – Fasti, lib. IV, 31.



77 Virgilio, Eneide, lib. III, 65.



78 Virgilio, Eneide, lib. II, 246.



79 Iliade, lib. XI, 166.



80 Versi di Alessandro Manzoni in morte di Carlo Imbonati.



81 Pindaro, Istmica, V, epod. 2.



82 Iliade, lib. III, 189.



VIMale non si apponevano gli antichi chiamando l'Oceano padre di tutte le cose, e di venerarlo qual Dio del mare, prima che questo culto fosse rivolto a Nettuno.

Nel mare in fatti ferve la vita assai più che sulla terra: nel suo seno ebbero forse principio i progenitori di tutti gli esseri creati, e Venere afrodite che nasce dalla spuma del mare è il simbolo filosofico della prima creazione e propagazione delle specie in quell'elemento.

 



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