Emilia Ferretti Viola (alias Emma)
La leggenda di Valfreda
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I.

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I.

Il castello di Ardenberg era situato allo sbocco di una stretta gola di altissimi monti nel Tirolo. Visto da lontano sembrava che la parte posteriore del fabbricato poggiasse verso levante sulle nude rocce, mentre verso ponente la valle gli si apriva dinanzi, rinserrando un piccolo lago, azzurro e tranquillo, che ne rifletteva le terrazze e le torri. Un bosco di abeti sorgeva nel fondo della valle, sparso qua e di bianchi massi di pietra calcare, caduti dalle vette e dai fianchi del monte.

Le cime altissime di quelle prealpi, rôse dal tempo, acute, frastagliate in mille forme bizzarre, erano bianche quasi fossero coperte di neve, e nei giorni più belli e sereni si staccavano con nitida chiarezza dal fondo azzurro del cielo. Il lago, limpido e scintillante sotto ai raggi del sole, sembrava scherzare allora festosamente colle ombre nere delle alte mura del castello che le sue acque lambivano giorno e notte con un mormorio, ora lieto, ora lugubre e monotono, secondo la direzione del vento.

Ma talvolta, allorchè sorgeva qualche grosso temporale, il lago mutava aspetto a un tratto; le onde torbide e minacciose si accavallavano e andavano ad urtare furiosamente contro le mura del castello, quasi avessero a chiedergli conto di qualche offesa nel passato e che le animasse un desiderio insaziato di vendetta. Il vento, passando sopra il lago, fischiava in fondo alla valle nel bosco oscuro e folto degli abeti, e sibilando ne schiantava i rami secchi.

Durante quelle bufere i contadini superstiziosi credevano udire le voci degli affogati uscire dal fondo del lago, e nelle lunghe notti d'inverno, affacciandosi talvolta alle finestre per vedere se la tempesta cessava, molti raccontavano di averle richiuse sbigottiti, avendo visto una bianca figura di donna uscire dalle onde e aggrapparsi agli anelli di ferro che sporgevano dalla torre principale del castello. Altri narravano invece che negli anni nei quali era destinato dovesse accadere una disgrazia nella famiglia dei castellani di Ardenberg, in una notte delle più tempestose vedevansi luccicare fra le ombre folte del bosco le armature arrugginite di soldati e cavalieri d'altri tempi che, al chiarore delle fiaccole, scavavano una fossa e vi deponevano un corpo ravvolto in un lenzuolo macchiato di sangue. Nella stessa notte la donna bianca che sorgeva durante le burrasche dalle onde, usciva dal lago, e allorchè erano spariti gli uomini d'armi, vagava fra gli alberi, cercando la fossa scavata di fresco. E i contadini affermavano che si potevano udire allora i suoi lamenti; e raccontavano pian piano gli uni agli altri una pietosa leggenda, vecchia di molti secoli, che ricordava gli amori di una bella e giovane contessa di Ardenberg con un paggio gentile. E narravano come il fiero feudatario scoprisse la tresca, e come nella notte di San Giovanni, mentre il vento fischiava e dal cielo oscuro cadeva una dirottissima pioggia, il giovane paggio, ferito barbaramente, ma non peranco morto, venisse sotterrato dai soldati del castellano nel bosco degli abeti. Anche la contessa sparve in quella notte, e il suo cadavere fu visto galleggiare alla mattina sulle acque del lago, ma poi sparì e non fu più possibile rinvenirlo; mai più si potè sapere se fosse stata la gelosia del marito, o la disperazione per l'amante che avevano tolto di vita la bella contessa Valfreda.

Quella lugubre istoria si era impressa durevolmente nell'imaginazione popolare e fu argomento di varie e stranissime leggende, cui i contadini di quelle valli prestavano cieca fede.

Non v'era sventura che colpisse qualche povera famiglia nelle adiacenze del castello, non poteva accadere un fatto qualsiasi, triste o lieto, senza che asserissero essere questo già stato annunziato indubbiamente da una misteriosa apparizione della contessa Valfreda o dal canto dolcissimo del paggio nel fondo del bosco.

Tra l'altre storie, la più maravigliosa era quella della piccola Rosalìa.

Un giorno di primavera, una bella bambina che si chiamava Rosalìa, dopo essersi baloccata lungamente sulla riva, era salita giuocando in una barchetta che trovavasi legata ad una fune presso la spiaggia; ma scioltasi la fune, la barchetta, abbandonata a stessa, si scostò dalla riva e fu presto spinta da un vento leggiero, che la portò lontano da terra. Una fitta nebbia calò in quel giorno sul lago, e non fu più possibile di ritrovare la piccola Rosalìa la sua barchetta.

La madre desolata la pianse tutta la notte e andò cercando in ogni luogo, lungo tutte le spiagge, il suo perduto angioletto. Verso l'alba, allorchè il primo raggio di sole indorava le bianche vette dei monti, la madre sconsolata se ne tornava alla sua casa; ma giunta al luogo dal quale si era partita il giorno innanzi la barchetta della sua bambina, la povera donna dette in un grido acuto di gioia. La sua creatura, distesa sull'arena, vi dormiva placidamente, colla testolina bionda, appoggiata alle alghe e coi rosei piedini lambiti dalle onde e dal primo raggio di sole.

La Rosalìa, appena desta, gettò le braccia al collo della mamma, e le raccontò colla sua vocina infantile una strana avventura.

Essa narrò come il giorno avanti, essendo salita nella barca per divertirsi, si fosse sciolta improvvisamente la fune, e come allora la barchetta avesse incominciato a camminar da sola con tanta rapidità, che la piccola Rosalìa n'aveva avuta una gran paura. Trovandosi così abbandonata in mezzo alle acque, essa guardava da ogni parte con gli occhi pieni di lagrime; ed ora fissava la torre del castello, ora le onde scintillanti, ora la riva lontana, sperando di vedere chi la potesse soccorrere; ma non giungendo a vedere alcuno, con la spensieratezza dei bambini appoggiò il capo stanco sopra un lato della barca, e si divertì a spenzolare i suoi ricci dorati nel lago osservando come l'acqua a momenti li arruffava e a momenti li tirava lisci lisci quasi fossero dipinti. Ma via via che guardava il fondo del lago, le parve di scorgere che di sotto vi fosse del chiarore, e che l'acqua fosse limpida limpida come un cristallo, tanto da poter contare tutti i sassolini, tutte le alghe e le boraccine che in essa vedeva; e a misura che il lago diventava più profondo, il fondo facevasi sempre più chiaro e sempre più bello. Invece delle alghe vi crescevano fiori vaghissimi che sembravano fatti con cristalli sottili e variopinti, e finalmente in un alveo di mammole e viole, di rose bianche e candidi gelsomini, vide giacere dormente una dama bellissima, tutta vestita di bianco, con un serto d'oro sottile che le cingeva la fronte; aveva due lunghe trecce bionde, e l'acqua limpidissima passando sul suo capo le piegava dolcemente i capelli ondeggianti sulla fronte. Il suo respiro regolare imprimeva un movimento leggero alle onde cristalline che muovevano le foglie ed i petali dei fiori su' quali riposava. E mentre la Rosalìa la rimirava estatica, la bella signora si destò e fissò due grandi occhi cilestri in quelli della bambina, sorridendo con tanta amorevolezza che la Rosalìa non ebbe paura. La signora si mosse, e sorgendo con grazia frammezzo ai fiori, leggera come una piuma salì nella barchetta della piccina e l'accarezzò mille volte. Allora soltanto la Rosalìa s'accorse che il cielo si era fatto buio e che non vedeva altra luce fuorchè quella che splendeva dal fondo del lago. Era notte; ma Rosalìa non sapeva quanto tempo fosse tramontato il sole. Essa si addormentò fra le braccia della signora, e non potè narrare quello fosse accaduto poi, perchè non si era più destata fino al momento nel quale era stata ritrovata da sua madre.

Al tempo della nostra storia la Rosalìa era una vecchia curva e rugosa, e i ricci biondi, accarezzati dalle morbide mani della dama del lago, erano diventati bianchi e scarmigliati.

La Rosalìa aveva perduto il marito, e non aveva che una sola figlia, moglie ad un pastore; era poverissima, e la si vedeva nell'inverno camminare le giornate intere nei boschi, raccogliendo nella neve i rami secchi degli abeti; essa vi si tratteneva talvolta sino ad ora tarda, senza badare alle rimostranze superstiziose delle altre contadine; sembrava anzi ricercare la solitudine. Da tutto questo si arguì che la Rosalìa conversasse a volte ancora col fantasma della contessa Valfreda, e che fra l'ombra del bosco forse non temesse neppure di incontrare lo spettro pallido e giovanile del paggio assassinato. Era però un pezzo, ai tempi in cui comincia questa storia, che di codeste fiabe non si discorreva più quanto una volta. Il maestro della scuola del vicino villaggio, alla quale molti contadini mandavano i loro figliuoli, aveali rimproverati severamente, allorchè venne a sapere di queste novelle che gli abitanti di Ardenberg narravano ai loro bambini; e il parroco, che era giunto da poco tempo in quel villaggio, aveva anch'esso coadiuvato, sebbene con minor zelo, all'opera del maestro di scuola. Una domenica fece una lunga predica su questo argomento, dicendo quanto peccaminose fossero tali credenze superstiziose, invenzioni di streghe e di poeti e d'altra gente che non crede in Dio e nella sua santa Chiesa: disse inoltre che il diavolo appariva volontieri sotto la forma di fantasma, e che si serviva di siffatte fiabe per acquistare influenza sull'anime che agognava di trarre a perdizione. Da quella domenica i contadini parlarono meno della contessa Valfreda e delle apparizioni notturne nel bosco; ma vi prestarono quasi maggior fede perchè l'autorevole individualità del diavolo vi si era aggiunta a conferma delle loro favole; n'ebbero perciò maggior timore, e la contessa Valfreda scapitò assai nella simpatia popolare dopo quella predica.

Ogni volta che qualche superstizioso ostinato, malgrado le minacce del parroco, appiccava discorso su tale argomento proibito, rammentava sempre che l'ultima apparizione di Valfreda datava dalla notte di San Giovanni nel 1852; e che in quella notte s'erano perfin vedute le fiaccole dei soldati nel bosco, e s'erano uditi i lamenti e i singhiozzi della contessa Valfreda, quasi volesse presagire orribili sciagure.

– Eppure – dicevano allora con una crollatina di spalle quei contadini, – non avvenne nessuna disgrazia nella famiglia del nostro signore. Il castello a quel tempo era animato da feste, da balli; le caccie e le cavalcate portavano un'allegria insolita fra i nostri monti, e nell'anno seguente il conte, poco fortunato nel suo primo bambino, ne ebbe un secondo, che a detta di tutti era il più bel figliuolo che mai si fosse visto in queste valli. La contessa Valfreda – e qui i contadini facevano il segno di croce – poteva risparmiarsi l'incomodo d'apparire. –

Se quei montanari che così discorrevano fossero stati più addentro nelle vicende della famiglia degli Ardenberg, forse vi avrebbero trovato argomento, per una strana coincidenza, a confermarsi nella loro superstizione ed a ribattere le illuminate asserzioni del maestro di scuola.


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