Emilia Ferretti Viola (alias Emma)
La leggenda di Valfreda
Lettura del testo

II.

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II.

In quell'anno, un'altra contessa di Ardenberg, giovane e bella quanto lo era stata la Valfreda, aveva commesso la medesima colpa. Ma diversa fu la punizione. I tempi più civili imposero al marito della contessa Beatrice la necessità di scegliere altri mezzi per conseguire un medesimo fine, quello di vendicarsi. La vendetta in questo chiarissimo secolo fu più lunga e quindi sembrò più mite; fu meno giusta, perchè nelle azioni violente e istintive degli animi fieri, ma nobili, il sentimento della giustizia domina sempre, s'accresce talvolta sino al più esagerato furore, trascende, ma non perde mai di vista l'oggetto principale della vendetta; mentre fra le grette, fredde, misurate riflessioni d'un animo egoista, facilmente il sentimento della giustizia si perde o si altera.

Il conte Ottone di Ardenberg fu più ingiusto del marito di Valfreda. A chi avesse indovinato quanto era avvenuto, il modo di operare del conte sarebbe parso nobile, mite, alteramente indulgente; ma il conte era sicuro di , e sapeva che la sua ferrea volontà non avrebbe permesso si rallentasse di un'ora il corso regolare di quella che egli chiamava sua giustizia, e avrebbe sorriso delle lodi tributate alla propria benignità.

Il conte Ottone contava trent'anni e la contessa ne contava ventidue, ed avevano già un figliuolo di cinque anni, allorchè la pace domestica fu per sempre turbata fra di loro.

Ma il piccolo Ermanno non dava ai suoi genitori liete speranze per l'avvenire; sebbene robustissimo della persona, alto e tarchiato per la sua età, aveva il viso che rassomigliava piuttosto ad una scimmia che ad un essere umano, e in quella sgraziata fisionomia non era mai balenato un lampo di intelligenza o di vivacità. A cinque anni non era ancora stato possibile cavargli di bocca altro che suoni confusi; talvolta erano urli, talvolta lamenti bestiali, quasi feroci, espressi senza motivo e senza ragione.

Invano i medici, vedendo la complessione robusta del bambino, avevano fatto sperare ai genitori un mutamento felice nell'avvenire; il conte Ottone sapeva pur troppo che il piccolo Ermanno non era il primo scemo nella sua famiglia, e si ricordava perfettamente che il suo nonno aveva vissuto in uno stato alquanto migliore, ma non dissimile da quello del suo figliuolo.

La bella contessa Beatrice, ignara della sventura che colpiva da secoli regolarmente la famiglia degli Ardenberg, erasi talvolta fermata sgomenta, nei primi mesi del suo matrimonio dinanzi ai ritratti degli avi di Ottone, fra' quali si scorgevano qua e , a brevi distanze, certi visi mansueti e stupidi, certe teste strette e piccine con mascelle sporgenti e occhi spenti, fissi, quasi non avessero mai avuto un raggio di vita; e osservava con curiosità che quei tipi, sebbene fra di loro non tutti si rassomigliassero, riapparivano regolarmente dopo un numero di ritratti quasi sempre uguale. Alcuni avevano visi meno stupidi o bestiali, ma la contessa non sapeva se andavano debitori alla natura o all'adulazione del pittore di quei lievi indizi d'intelligenza.

Allorchè la giovane contessa soffermavasi quasi impaurita dinanzi a quei ritratti, Ottone con febbrile impazienza o con scherzevoli carezze rapidamente la traeva di , spinto da un segreto timore per l'avvenire, e da una cocente vergogna per quella sventura nella sua famiglia, che la sua nobile e bellissima sposa ignorava. Il conte Ottone amava la giovinetta leggiadra e docile, di altissimo casato, ch'egli si aveva scelto per compagna. Di mente assai più colta ed elevata di quella di Beatrice, versato specialmente negli studii filosofici, ammiratore entusiasta di quanto era stato fatto in Francia nel secolo decimottavo e di quanto avevano detto e scritto gli Enciclopedisti, non dispiacevagli però nella contessa un'ignoranza quasi infantile, che a lui sembrava ingenuità, ed una fede semplice, soavemente femminile che la faceva essere più docile e arrendevole nella convivenza della vita domestica.

Il conte Ottone la pensava su questo argomento come tutti coloro di pronta e vivace intelligenza, che dopo essere stati educati nei pregiudizi di una casta, anzi di una famiglia che nutriva ancora tutte le più despotiche idee feudali, si sono trovati a un tratto, nel primo giorno di libertà, atteso e desiderato durante tutti gli anni dell'adolescenza, dinanzi ai più grandi avvenimenti storici non più travisati dalla prudenza dei maestri, dinanzi alle più audaci ironie e alle derisioni più ardite di quanto era stato loro imposto di venerare sino a quel momento. Il conte Ottone, che aveva avuto per maestro un vecchio e rigido sacerdote, aspirò, come un uomo che affoga nella cerchia ristretta del bigottismo, l'aria libera che spirava dagli scritti degli Enciclopedisti, dalle storie della Rivoluzione francese, da quella corrente ardita e forte che spargendosi per tutta Europa, portava dovunque il seme delle nuove idee. La vecchia società crollava sotto quel turbine, e dove non poteva crollare ne rimaneva scossa per sempre. Anche il frutto dell'educazione del vecchio precettore crollò come essa; e il conte, sbalordito da quel mutamento, fiero e vendicativo di sua natura, pensò con rabbia ai lunghi anni sprecati nell'errore e nei pregiudizi. In quel primo impeto volle rompere ogni relazione col sacerdote che gli era stato maestro, scrivendogli una lettera, che sebbene per la forma apparisse cavalleresca e cortese, per le intenzioni e le opinioni in essa manifestate doveva ferire profondamente l'animo del vecchio e rigido prete, che aveva creduto di compiere coscienziosamente un dovere, allorchè colla sua pedanteria e le molteplici e tediose pratiche religiose toglieva all'infanzia di Ottone le ore più liete di espansioni e di gioia.

Non fu amore della verità che spinse il conte di Ardenberg a porre un termine alle sue relazioni col precettore e a fargli intendere crudelmente com'egli avesse nudrito la sua giovinezza di errori e pregiudizi, che finalmente riconosceva come tali: no; era, com'è per molti, l'amore di che lo spingeva: e per questo provò un acre desiderio di far scontare al vecchio pedagogo le prediche, le messe, i vespri e le litanie che aveva dovuto sopportare per volontà sua, mentre in quelle ore lo rodevano tutte le impazienze febbrili dell'infanzia e sognava corse, balocchi e giuochi severamente proibiti dal rigido educatore. Ma il conte, che amareggiò gli ultimi anni del suo vecchio maestro, regalandogli una copia di una bellissima edizione del Diderot, rilegata in pelle ed oro colle sue cifre, non ne avrebbe tradotta una pagina sola ad uno dei suoi contadini, avrebbe visto di buon occhio che la contessa si fosse avviata decisamente per la via tracciata da quell'intelligente incredulo.

Erano idee grandi e belle, ma bisognava essere anche un gran signore come lo era lui, essere indipendenti e ricchi, per poterle manifestare liberamente; gli altri le intendevano male, le applicavano a rovescio, e per esso il vedere uno degli autori della sua biblioteca fra le mani di un contadino o di un operaio, sarebbe stato come ritrovare in una sudicia osteria un quadro di Raffaello. Le idee erano per lui come gli oggetti di un museo o di una galleria, come gemme e opere preziose; tutte cose per gli eletti di questo mondo, che costavano quattrini a chi voleva acquistarle, e che dovevano sempre costituire una parte delle proprietà di un gran signore. Egli faceva pompa della sua incredulità e delle sue idee liberali, come i suoi avi mostravano l'ordine di Santo Stefano e la Croce di Malta, e s'arrabbiava contro quei nobili che non la pensavano come lui. Che il popolo poi credesse in ciò che egli derideva, sembravagli un fatto naturalissimo, e cosa alla quale sarebbe stato irragionevole il fare opposizione; le opinioni sue erano opinioni belle e buone da discutersi fra amici di pari erudizione, gente elegante, côlta e di spirito, degna infine di ripetere i motti arguti di quei grandi scrittori che egli prediligeva, e di assaporarne le bellezze fra una presa leggera di finissimo e delicato tabacco e un caldo sorso di thè, ma per il popolo non valevano niente; a questo bastavano le frottole del parroco. I poveri sono facilmente infelici, soleva dire il conte, e per chi crede, la religione dev'essere un gran conforto.

A che cosa poi dovessero servire queste nuove idee nell'avvenire della società, egli non pensava; non dava ad esse importanza maggiore che ad una moda, aveva in quelle attitudini che ci fanno applicare utilmente ai grandi interessi comuni le scoperte della scienza e i progressi della ragione. L'amore di casta e l'educazione tendente allo scopo di accrescere nei giovani quel sentimento, spengono facilmente in essi l'attitudine e il desiderio di effettuare nella realtà e a profitto di tutti le proprie idee, contratte già per istinto e abitudini entro un campo ristretto. Per vincere gli effetti di quell'educazione e di quegl'istinti occorrerebbe una fecondità straordinaria della mente, oppure un'energia che si accoppiasse ad una forte e decisa individualità. Le schiatte vecchie hanno difficilmente in lo spirito innovatore di quelle più giovani, ammenochè si sian potute sempre ritemprare con nuovi elementi di vita.

La genealogia degli Ardenberg non era stata mai turbata da parentele indegne di essa; certi tipi rassomiglianti fra di loro si ripetevano ad ogni generazione; quelle stesse attitudini, o meglio quelle stesse attività, erano incessantemente chiamate a vivere e ad esaurirsi, e non vi fu mai un forte elemento che imparentandosi a quella famiglia le infondesse nuovo vigore. Così gli Ardenberg, come tutte le antiche famiglie, andavano sempre più esaurendosi; e il conte Ottone, che aveva ingegno sottile e pronto più degli avi, non aveva in la loro energica forza innovatrice e produttiva, forza che spinge chi ne è padrone a mescolarsi alla folla per guidarla e emergere da essa; il conte invece provava, senza rendersene conto, quella stanchezza della mente, che si manifesta colla tendenza all'isolamento e a quell'esclusivismo nelle idee, che sempre le fa essere improduttive.

Allorchè ebbe dalla contessa la speranza che gli nascesse un erede, il conte di Ardenberg ideò nel suo cervello tutto un metodo d'educazione che valesse a salvargli il figliuolo dalla tirannia e dagli errori che avevano contristata la propria infanzia. Al futuro erede degli Ardenberg, sapeva di poter aprire senza pericolo l'uscio della sua biblioteca, iniziandolo ai segreti preziosi degli spiriti più eletti, ai perspicaci sorrisi dei più irriverenti e più celebri increduli; e dopo essersene fatto a modo suo un amico e compagno di studio, côlto e spregiudicato, intendeva farne anche un perfetto cavaliere, un cacciatore rinomato, un gentiluomo di modi cortesi e disinvolti.

In una notte fredda e burrascosa di autunno, mentre le onde s'infrangevano minacciose sotto le finestre della biblioteca e che il vento fischiava sibilando fra gli anditi del castello, le speranze del conte erano finalmente vicine ad effettuarsi. La contessa stava per divenire madre.

Cedendo alle persuasioni della zia Beatrice ed alle preghiere della sposa, il conte era sceso nella sua biblioteca, attendendo colà che il grande avvenimento gli fosse annunciato. S'era provato a leggere, ma non gli riusciva. Angosciato per la giovane contessa che aveva abbandonata in mezzo a gravi sofferenze, trepidante per l'esito di ciò che stava per compiersi, l'animo del conte era troppo turbato perchè egli potesse pensare ad altro. Aprì un libro di filosofia, ma non ne capì una parola. Lo richiuse sorridendo: – Lo leggeremo insieme, – disse fra , pensando al suo figliuolo. Poi guardò con orgoglio le belle legature e i grossi volumi collocati in ordine sugli scaffali. – Gli spiegherò quanto v'ha di più bello in quei libri, – pensò di nuovo; e nella sua immaginazione si mescolavano confusamente, alla memoria di sentenze filosofiche, la speranza di sorrisi infantili e il ricordo dei lamenti che il dolore strappava alle pallide labbra della contessa Beatrice.

Finalmente una cameriera, con un viso mesto e serio gli si presentò dicendo:

– La signora contessa ha partorito...

– Un maschio? – domandò il conte con impazienza febbrile, senza lasciarle il tempo di finire.

Sissignore, – rispose la donna, abbassando il capo.

Il conte avrebbe voluto dare in un grido di gioia, ma guardò la cameriera e si arrestò confuso.

– Sta forse male la contessa? – chiese di nuovo.

Nossignore, – replicò la donna timidamente.

Ma il conte non si trattenne più a lungo; sgomento per l'aspetto turbato della cameriera, felice e pieno di paura ad un tempo, uscì dalla biblioteca, e corse su per le scale sino al primo piano.

La zia della contessa lo attendeva.

– Che cos'è stato? – domandò il conte impaurito, vedendo che essa piangeva, e si avviò rapidamente alla camera di sua moglie; ma la zia lo trattenne.

Zitto, – disse, – Beatrice è debolissima e non l'ha ancora veduto... – E preso per mano il conte, lo condusse nella sala vicina, presso ad una culla. essa si fermò, e prima di sollevare il velo che la ricopriva, disse:

Coraggio, Ottone, forse il tempo porterà rimedio. – E scoperse la culla.

Un mostriciattolo, uno scimiotto fasciato, si presentò agli occhi del conte Ottone. Fu quello per lui un momento terribile. Il conte stette lungamente silenzioso e rivide improvvisamente col pensiero tutti i ritratti degli scemi della sua famiglia, che tanto rassomigliavano a questo che aveva ora dinanzi a . Non vi era dubbio, suo figlio era colpito dalla medesima sciagura!

Fece un atto di disperazione; poi accennò alla zia di lasciarlo solo; ed essa incerta e titubante uscì dalla sala.

Un'ora più tardi il conte, pallido, ma tranquillo e risoluto, entrava nella camera della contessa Beatrice e deponeva un bacio sulla sua fronte.

– Voglio vedere il nostro bimbo, – disse dolcemente la giovane madre.

– Lo vedrai più tardi, – rispose con voce leggermente tremante il conte Ottone. – Ora riposa, Beatrice, – e baciatala di nuovo in fronte, partì, per quel giorno, dal castello.


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