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Scorsero cinque anni dopo l'infausto avvenimento, senza che altri figli venissero a confortare i conti di Ardenberg sì crudelmente delusi nella loro prima speranza. Il piccolo Ermanno cresceva sano e robustissimo di corpo, ma privo affatto d'intelligenza. Il suo viso largo e brutto non manifestava nè gioia, nè dolore; a cinque anni le sue labbra erano ancora mute, e nessun raggio d'intelligenza aveva ancora brillato nei suoi piccoli occhi tondi, fissi, meravigliati d'ogni cosa, senza intenderne o apprezzarne alcuna.
La contessa Beatrice, che dapprincipio, quando ebbe a convincersi della triste verità, sembrava non potersene consolare, dopo breve tempo apparentemente si tranquillò e riprese con rassegnata serenità la sua vita abituale; ma le relazioni tra lei ed il conte di Ardenberg non furono più quelle di prima.
Forse la contessa Beatrice non aveva mai amato veramente il marito. Uscita da una famiglia nella quale le era stata impartita una scarsa, ma rigorosissima educazione, essa aveva trovato nel conte di Ardenberg il primo uomo che le parlasse il linguaggio dell'affetto, che le susurrasse all'orecchio parole d'amore. Beatrice ne fu scossa e turbata, ed a quel turbamento aggiungendosi più tardi le speranze della maternità per le quali le carezze, le sollecitudini del conte verso di lei diventavano sempre più vivaci e affettuose, essa durò sino alla nascita del bambino, in uno stato d'animo incerto e commosso che poteva rassomigliare assai ai turbamenti cagionati da un primo amore. Ma alla vista di quel disgraziato figliuolo, tutto mutò a un tratto. Allorchè essa vide che il frutto del suo amore con quell'uomo era quest'essere infelice, deforme, scemo; allorchè pensò che il conte aveva in sè e nella sua famiglia, il germe d'altre simili sventure, e che, guardando quei ritratti appesi nel salone, ebbe la certezza che tale fatalità pesava su tutti gli Ardenberg e aveva contristate altre spose e altre madri entrate com'essa in quella famiglia, la contessa provò quasi orrore di suo marito. Gli parve di essere stata ingannata da lui, perchè le aveva taciuta questa vergogna della sua schiatta; le parve di avergli dato gioia e felicità, mentre in cambio riceveva lagrime e amarezze. Essa fu ingiusta, come sono sempre coloro che non amano davvero.
La contessa non disse al conte ciò che provava, anzi cercò di nascondere il mutamento rapido dei suoi sentimenti, ma non gli potè celare tutte le sue ripugnanze.
Il conte afferrò di volo le manifestazioni di questo mutamento e ne indovinò la cagione, sebbene la contessa cercasse abilmente di nascondergli i suoi veri sentimenti. Ne provò confusione e dolore. Forse non l'amava veramente neppur lui, ma ciò che aveva provato per lei era stato certamente un sentimento più vero e profondo che non fosse quello della contessa verso di lui. Il conte Ottone non era stato acciecato da un turbine di nuove e violenti commozioni come la giovinetta inesperta, cui egli aveva parlato per il primo di amore; quindi egli poteva avere maggior coscienza di ciò che sentiva, ed era stato perciò sempre più vero e sincero di sua moglie. Il conte si sentì offeso nel suo orgoglio, e dolorosamente colpito in quel sentimento che chiamava amore e che non lo era. Ma Beatrice era bella assai, e forse il conte dava il nome d'affetto al fascino potente di quella bellezza.
La vita dei due sposi divenne difficile, e la convivenza loro poco lieta.
La contessa diventava ogni giorno più bella e più altera. Il conte malediva quella bellezza che domava il suo sdegno e lo aizzava ad un tempo.
Le sue ardenti speranze di avere un figlio più degno di portare il nome degli Ardenberg dileguavano sempre più. Il piccolo scemo era il solo erede del conte Ottone.
Gli sposi di mutuo consenso cambiarono vita. I mesi che solevano passar nel castello sembrarono adesso ad entrambi assai più lunghi di prima, e risolvettero di stare in città la maggior parte dell'anno. Fecero parecchi viaggi, e allorchè tornavano ad Ardenberg non ci tornavano più soli, ma una lieta schiera d'invitati veniva con essi a rallegrare le vaste sale della vecchia dimora feudale.
Il conte vedeva con piacere la bellissima contessa Beatrice presiedere ai pranzi, ai balli, ai convegni del suo castello; il suo povero orgoglio si accontentava dei complimenti, degli sguardi d'invidia, delle ammirazioni e gelosie che suscitava questa donna, ch'egli non poteva più quasi chiamar sua e per la quale era invidiato da tanti.
Il contegno della contessa Beatrice verso di lui era sempre inappuntabile e diventava talvolta perfino affettuoso, allorchè la presenza d'altri, e le molteplici occupazioni della padrona di casa, mettevano fra di loro una barriera insuperabile, e la difendevano dagli spiacevoli contrasti della vita intima. Il padre dello scemo non era più per la giovane contessa che un congiunto stimato, e al quale doveva, entro certi limiti, obbedienza e rispetto, ma non altro.
Anche nelle loro opinioni i due coniugi si trovavano quasi d'accordo. In questi ultimi anni, la timida giovane, che non aveva nè molto ingegno nè molta energia, aveva però progredito assai intellettualmente ed aveva acquistato opinioni elevate e coltura maggiore di quanto il conte l'avesse creduta capace di acquistare e di apprezzare. Egli ammirava anche la giusta misura, entro la quale sapeva conservare le sue opinioni; come, per esempio, in materia religiosa serbasse con grazia femminile delle sue vecchie convinzioni quanto bastasse a non eccitare maraviglia e a non trascurare la Messa della domenica, mentre poi, in società, sapeva dire con garbo sentenze abbastanza ardite, e sorridere leggiadramente delle vecchie credenze.
Questo modo di entrare ed uscire dal proprio guscio morale, s'attagliava perfettamente alle idee del conte. Ed egli era stato soddisfattissimo, allorchè una volta, trattandosi d'invitare un loro parente che era prelato in Roma, la contessa aveva dimostrato una vera ripugnanza all'idea di ospitare un prete in casa sua; e di tal puerilità il conte aveva fatto gran caso e aveva giudicato che la contessa era proprio degna, per le sue opinioni, di portare il suo nome. A parer suo, Beatrice faceva bene, per dare buon esempio alla servitù, a passare dieci minuti in chiesa ogni domenica, mentre, d'altra parte, dava prova di altissimo senno, allorchè nella sua sala e nel suo castello non voleva ospitare un gesuita.
Ma un avvenimento impreveduto venne a turbare la pace apparente e momentanea dei castellani d'Ardenberg.
Il piccolo Ermanno compiva il suo cinquesimo anno, allorchè un nuovo ospite giunse al castello. Era questi un lontano parente del conte, scultore di gran fama, noto anche nel mondo letterario per alcuni suoi bellissimi versi, ricco, giovane, festeggiato da tutti; egli si chiamava Guido Campaldi.
Il conte Ottone non si era mai rammentato di quegli oscuri e lontani parenti, se non quando la fama del giovane scultore aveva messo il nome suo in bocca di tutti.
Guido Campaldi era figlio di una Ardenberg e di un pittore romano.
La famiglia degli Ardenberg aveva fatto sempre dimora sul confine fra il Tirolo italiano e quello tedesco, e specialmente la borgata ove abitava il ramo degli Ardenberg, cui apparteneva la madre del Campaldi, soleva essere specialmente visitata da italiani che vi dimoravano nella stagione estiva, o vi passavano diretti verso la Baviera o l'Austria. Era quella borgata fra le più belle del Tirolo, e allorchè il padre di Guido vi giunse viaggiando, non potè fare a meno di fermarsi colà, e di valersi di una lettera di raccomandazione per gli Ardenberg, che gli era stata data in Roma. Così il pittore conobbe la giovinetta che invaghitasi perdutamente di lui, fuggì con esso a Napoli e divenne poi madre di Guido.
Fu quello uno scandalo senza esempio nella famiglia degli Ardenberg. Tutti i membri di essa rinnegarono la moglie del pittore, che morì giovanissima, lasciando al Campaldi desolato un solo figliuolo. L'artista, che non potè consolarsi della morte di sua moglie, la seguì presto nella tomba, e il piccolo Guido rimase solo padrone di un gran patrimonio, e ricco di vasto e splendido ingegno.
Allorchè il nome del giovane scultore fu messo a pari dei più celebri, e giunse all'orecchio degli Ardenberg, essi rammentarono, senza sdegno, che era unito ad essi dai vincoli di una lontana parentela.
Il conte Ottone s'incontrò a Vienna con Guido Campaldi e lo invitò a soggiornare, durante l'autunno, nel suo castello.
Lo scultore accettò l'invito con riconoscenza; egli ricordò subito in quel momento la bellissima contessa Beatrice che aveva talvolta incontrata alle feste o nei teatri, e pensò con piacere alla prospettiva di passare alcune settimane nella sua compagnia.
Ne' primi giorni di settembre il giovane artista giungeva al castello di Ardenberg.
Era una giornata calda di estate. Dietro agli altissimi monti, a' quali sembrava appoggiarsi un lato del castello, s'ammucchiavano densi nuvoloni, che frapponendosi fra il sole e la valle la mettevano in ombra e la facevano apparire ancora più buia e tetra del solito; tutta quella parte del castello e il bosco di abeti dietro ad esso, erano immersi in un'ombra oscura, e gli alberi scossi dal vento prendevano in quell'ombra forme fantastiche e strane, mentre invece sul lago scintillavano mille raggi di sole e si specchiava un cielo azzurro e sereno; le due torri che sporgevano in esso si riflettevano nell'acqua limpida, mossa qua e là da qualche lucente increspatura.
L'artista guardò maravigliato quel bellissimo contrasto; l'antico castello, che sorgeva alteramente fra quei dirupi selvaggi, e quel lago chiaro ed azzurro; poi pensò alla bella castellana, e il suo animo d'artista rivide più splendida quella leggiadra immagine fra le bellezze di una natura orrida e ridente ad un tempo, tale come ancora non ne aveva viste mai.
Guido entrò nel castello lieto e speranzoso. I suoi occhi neri e lucenti si fissarono in quelli cerulei della contessa, e Beatrice sentì per la prima volta che in quello sguardo vi era un fascino dolcissimo e irresistibile. Ne ebbe quasi paura. Se avesse potuto, l'avrebbe pregato di tornare addietro, l'avrebbe mandato lontano da sè, per poi seguirlo con incessante desìo.
Guido si accorse della profonda impressione prodotta dalla sua presenza, e il suo sorriso diventò ogni giorno più raggiante, l'occhio suo più vivace e animato. Egli in quel tempo sentiva di vivere in un modo compiuto e intenso. Ogni ora l'artista scopriva nuovi tesori di luce e di forme, nascosti fra le vecchie torri, o fra sentieri scoscesi nella selva di abeti, o fra le alghe pieghevoli del lago. Dappertutto il suo occhio incontrava magici colori, contrasti maravigliosi. In que' giorni beati passava ore intere seguendo un raggio di sole che danzava sulle acque, o guardando una leggiera sfumatura che velava nel lontano orizzonte le cime candide e sottili dei monti, associando così alle immagini esterne delle bellezze della natura, quelle interne, ideali, della sua fantasia.
In quel tempo nella mente dello scultore contrastavano mille pensieri lieti, baldanzosi, mille imagini che gli portavano a piene mani speranze di gloria e d'immortalità. E dopo aver sognato ad occhi aperti per lunghe ore in mezzo alla campagna, egli tornava al castello inebbriato dal sole, colla fantasia accesa da quella ebbrezza di luce e di immaginazione che sanno soltanto provare gli artisti; e veniva di là, avido di gioia e di vita, ardito e spensierato come un fanciullo, forte di tutto il vigore della sua altissima intelligenza, a portare ai piedi di Beatrice, con eloquente ardire i suoi sogni per l'avvenire, e gli audaci, impazienti, appassionati desideri del presente. E Beatrice si sentiva avvolgere, sgomenta e commossa, da questo turbine di idee grandi, elevate, di sensazioni ardenti, indefinite; e il turbine la travolse.
Guido fu felice. Felice come si può essere a venticinque anni, quando uno è artista davvero e che quel nome ne dà il diritto a prelevare da ogni cosa che vive, che sente, che ha luce o colore, un tributo di gioia che è negato agli altri.
A Guido sembrava in quei giorni che tutte le cose migliori di questo mondo appartenessero a lui solo; dovunque egli volgeva gli sguardi ritrovava dappertutto la sua Beatrice, sotto alle ombre degli abeti, fra le nebbie del mattino, come nei tramonti dorati della sera; e allorchè egli le era vicino la vedeva più bella ancora che non fosse, per la bellezza delle cose che le stavano d'intorno; come la natura stessa s'abbelliva quando essa non c'era, per la sola memoria delle sue grazie.
Egli prendeva senza discrezione, a piene mani, tutti i maggiori tesori della giovinezza, e sentiva che per sè stesso, non per la gloria che poteva acquistare presso gli altri, non sarebbe mai giunto a più alto grado di potenza intellettuale di quello a cui giungeva in queste settimane, che non avrebbe mai più avuto dinanzi alla mente maggior copia di splendide visioni nè d'immagini grandiose.
Ma lo scultore sdegnò di dar loro forma e realtà. Le tenne per sè. Volle provare l'ebbrezza del sentirsi padrone di tutto quel turbine di impulsi grandi, indefiniti, senza darne una briciola, senza lasciarsene carpire uno solo: fece uno scialo, in quei mesi, che lo esaurì e gli dette vigore e forza ad un tempo. Ma un giorno, mentre le sue labbra si posavano su quelle di Beatrice, e che il suo occhio scintillante si fissava fra gli splendori della natura che lo circondava, e che egli si sentiva forte e felice e così pieno di gioia e di audacia che tutti gli altri esseri di questo mondo sembravano in confronto di lui non viver se non che d'una larva di vita, in quel momento il conte Ottone apparve dinanzi ad essi.
La contessa Beatrice svenne. Guido sentì che la sua più grande felicità era finita inesorabilmente.
Il conte fu tranquillo; egli ebbe nel gesto e nella parola una tranquillità terribile; quella di colui che ha già risoluto di vendicarsi. Il giovane artista tremò per Beatrice. Ma il conte lo rassicurò con un sorriso sardonico.
– Datemi la vostra parola d'onore – disse il conte – che partirete domani di qui, e lascerete la Germania e l'Europa; che per vent'anni non rimetterete il piede qui; e in cambio vi darò la mia che non torcerò un sol capello alla contessa di Ardenberg. – Lo scultore promise. Il cuore gli si spezzava. Beatrice riavendosi alla vita udì le ultime parole dell'artista e lo vide partire.
Si coprì il viso con ambo le mani, pianse e tremò. Sentì che il conte era vicino a lei, immobile e muto. Non ardiva muoversi. Temeva qualcosa di orribile. Beatrice era di sua natura timida e debole. Aveva paura. Il timore era in questo momento più forte dell'amore, e pensava a sè. Il conte fece un movimento; Beatrice spaventata scoperse il viso e guardò.
Il conte l'osservava, pallido, con le labbra strette, ma tranquillo e impassibile. Allorchè i loro sguardi s'incontrarono, egli volse gli occhi altrove con atto di dolore; poi le offrì il braccio in silenzio e la ricondusse seco al castello. Quella sera la contessa non comparve alla cena fra i suoi ospiti; il conte la scusò dicendo che ella era indisposta. Fu gaio, parlò con tutti, ma specialmente si dimostrò cortese e gentile coll'artista, manifestandogli quanto rammarico provasse per la sua partenza, e invitandolo a rimanere; Guido non sapeva dissimulare; per quanto fosse persuaso nell'interesse di Beatrice della necessità di farlo, per quanto sapesse che la maggior difesa che ella avesse ancora fosse la stima del mondo, pure l'agitazione febbrile che lo tormentava traspariva da ogni sua parola. Il conte seppe abilmente nascondere anche questo, alludendo ad una cagione grave e dolorosa che necessitava la partenza anticipata dell'artista.
Così il nome degli Ardenberg fu salvo da uno scandalo.
Guido tentò invano quella sera di rivedere Beatrice. Il conte la tenne d'occhio come fosse prigioniera, e all'alba del mattino seguente il Campaldi partiva.
Era una mattina fredda e nebbiosa; la barchetta, che lo portava lontano dalla bella contessa Beatrice vogava mestamente sull'acque torbide e bigie del lago, mentre il castello spariva dietro un denso velo di nebbia.
Beatrice in quell'ora, non vista da lui, spiava dalla finestra della sua camera la barchetta che rapidamente portava lungi da lei l'uomo che amava. Non ardì aprire la finestra, nè fargli da lontano un muto cenno d'addio, perchè udiva il passo grave e regolare del conte Ottone che camminava su e giù nella camera attigua.
La povera donna aveva vegliato tutta quella notte, e mentre vegliava aveva udito il vento sibilare sinistramente fra gli anditi del castello e le acque infrangersi con un rumore cupo e violento contro le mura della sua dimora. Fra quei rumori confusi le era parso udire dei pianti e dei lamenti, e la sua immaginazione sovreccitata aveva popolato di fantasme tutte le ombre di quella notte lunga e crudele.
Era stata veramente una nottata cattiva e burrascosa, come ve n'erano talvolta in quelle gole sul finire dell'autunno; ma allorquando al mattino la cameriera della contessa, chiamata più tardi del consueto dalla sua signora, le disse tutta turbata, che la Rosalìa, colla quale s'era incontrata alla prima messa, le avea detto che in quella notte s'era vista l'ombra della contessa Valfreda sotto le torri del castello; e che la s'era udita piangere nel bosco, allora la povera Beatrice sentì un brivido nelle ossa e non ebbe il coraggio di ridere, come soleva fare altre volte, della narratrice di tali fiabe.
L'apparizione della contessa Valfreda presagiva, a detto dei contadini, grandi sciagure, e la spregiudicata contessa Beatrice pensava con terrore quale altra sventura la poteva ancora colpire.
Mentre Beatrice nella commozione e nell'avvilimento del suo animo scendeva perfino ad interrogare le vecchie credenze del volgo, e che Guido, prima di allontanarsi da quelle valli, volgendo ancora a lei il pensiero innamorato, affidava a persona sicura l'incarico di ragguagliarlo sulla sua sorte, il conte pensava, dal canto suo, al modo di compiere una vendetta che non fosse indegna di lui.
Aveva giurato a sè stesso di vendicarsi, ma non sapeva come farlo. Egli voleva evitare uno scandalo, e la sua natura colta e civile si ribellava all'idea di commettere atti violenti che potessero attirare l'attenzione degli estranei sulle sue sciagure domestiche.
L'impazienza del trovare un mezzo col quale appagare l'amor proprio offeso, lo rodeva.
Ma finalmente, pochi mesi più tardi, la fronte corrugata del marito della contessa Beatrice si rasserenò. Egli aveva trovato il modo di vendicarsi.