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Il bel volto della giovane moglie di Ottone diventava ogni giorno più pallido e sparuto, essa aveva negli occhi un non so che d'incerto e di atterrito, quasi passassero dinanzi al suo sguardo fisso paurose visioni. Sembrava che meditasse qualche disperato proposito.
Il conte Ottone che aveva indovinato il motivo di quei patimenti l'osservava con un ghigno nascosto. Il marito di Beatrice era infelice anch'esso; ma la sua non era un'infelicità senza rimedio; il pensiero di vendicarsi bastava a tranquillarlo, e quel pensiero dominava nella sua mente tutti gli altri.
Però un giorno temè che la sua vittima potesse fuggirgli di mano, che qualche disperata risoluzione glie la togliesse ancor prima ch'egli potesse compiere i suoi disegni; e allora con ironica mansuetudine le diresse la parola sulla cagione della sua afflizione.
– Questa mesta dimora – disse una sera, mentre erano soli sul finire del pranzo, al quale la contessa aveva assistito senza assaggiare neppure una vivanda – questa mesta dimora sarà presto rallegrata dai sorrisi e dai giuochi di un altro bambino. –
La contessa guardò atterrita il marito.
– Il figlio di un artista vagabondo porterà il nome degli Ardenberg – continuò a dire il conte con voce sorda, quasi trattenesse a stento la sua ira. – Non è una scena che intendo farvi, – disse con mal garbo a Beatrice, che si era alzata, e pallida come una morta si reggeva a stento, appoggiandosi con la mano alla seggiola che aveva messo dinanzi a sè quasi in atto di difesa; – anzi è per rassicurarvi che ne parlo, è per evitare che la vostra inquietudine, o fors'anco qualche stolta o colpevole vostra risoluzione, attragga l'attenzione del mondo sopra i tristi fatti avvenuti qui dentro. –
La contessa respirò alquanto sollevata, ma nel tuono di voce di suo marito, nell'espressione di quegli occhi v'era qualcosa di irato e di nascosto, quasi avesse trovato il modo di vendicarsi, e ne gioisse. Il conte tacque per un momento, ma la contessa non ardì proferire una parola.
– Questo figlio forse vivrà... anzi vivrà sicuramente – aggiunse il conte con un sorriso ironico e uno sguardo scintillante come di uomo pazzo o briaco, – perchè i suoi genitori sono belli, giovani e forti entrambi. – La contessa lo fissò spaventata e credette che egli perdesse la ragione. Cercò d'interromperlo, ma dalla sua gola riarsa, dalle sue labbra strette, non potè uscire neppure una sillaba; mandò quasi un lamento, ma il conte non vi fece attenzione. – Non credevo, contessa, – riprese egli a dire con simulata indifferenza, – che aveste idee tanto avanzate e teorie così sicure da poterle mettere in pratica con tale prontezza; l'idea di migliorare le vecchie schiatte ritemprandole fra il volgo delle nuove non è forse cattiva; soltanto mi dispiace che il castello di Ardenberg abbia servito al vostro filantropico fine: ma basta di ciò, queste sono teorie che riguardano i grandi interessi dell'umanità e che dovrò discutere con altri; voi avete già con troppa prontezza risoluto l'arduo problema. Torniamo dunque a vostro figlio. Egli porterà il nome degli Ardenberg. Ed io vi prometto che sarà da me trattato in modo da non poter dubitare ch'egli porti con ogni buon diritto quel nome; ma esigo in cambio una promessa: e guai a voi e a lui se non sarà mantenuta; guai, lo ripeto, perchè allora non baderò nè a scandalo nè a convenienze, e la mia vendetta sarà terribile! – Pronunciando le ultime parole il conte non frenò più la sua ira, e la sua voce tremante e forte ad un tempo faceva rassomigliare ogni parola ad un urlo.
La contessa indietreggiò spaventata.
– Non abbiate paura, gentile contessa, – riprese a dire il conte con maggior calma e con un sorriso maligno. – Credete che io sia capace di torcere un capello della vostra fronte altera, o di mettere una mano sacrilega sulla vostra bella persona? Ho troppo vivo il culto del bello, senza essere artista, per commettere tali colpe. Altri sono i pericoli che corrono in questo mondo creature leggiadre come voi. Ma quei pericoli voi non li temete... – Un vivo rossore salì al viso della contessa; la paura, lo sdegno, il dolore represso, tutti questi sentimenti stavano per traboccare e trascinare la povera donna a inveire contro il conte, a correre incontro a qualsiasi pericolo, a farla finita una volta per sempre con queste tristi sequele di angosce, di terrori, di umiliazioni, ma il conte se ne avvide e le troncò sulle labbra la parola.
– Non facciamo una scena, – ripetè imperiosamente, ve lo consiglio nel vostro interesse e in quello di vostro figlio. Risolviamo prontamente la quistione; quando l'avremo risolta, io mi assenterò per qualche tempo dal castello e spero che al mio ritorno troverò la contessa Beatrice riavuta da queste commozioni e non più rassomigliante ad una vittima di melodramma o ad una Maddalena pentita. Adesso vi dirò ciò che esigo da voi. Il figlio che avrete diventerà mio di nome e di fatto; ma anche mia, solamente mia sarà l'autorità che avrò sopra di lui, nè altri dovrà cercare di toglierlo dalla via in cui l'indirizzerò e che egli dovrà seguire per mia volontà, nè adoperarsi in verun modo perchè egli da quella si tolga. Altrimenti, lo ripeto, temete entrambi la mia vendetta. Per parte mia vi prometto che sarà trattato amorevolmente e che gli sarà impartita un'educazione degna del suo stato. Promettete dunque di farmi dono di questo figlio; aggiungete all'autorità paterna che mi dà la legge, l'assicurazione che in verun caso voi non la vorrete contrastare. –
Vi fu un momento di silenzio. La contessa pensava con febbrile rapidità; considerava le promesse del conte e le minaccie nascoste in quelle sue misteriose parole. Avrebbe voluto consigliarsi con qualche persona, avrebbe voluto indovinare. Ma il conte chiedeva con impazienza una risposta. La povera donna si sentiva stanca dopo tante commozioni e tanti patimenti; essa era di un'indole timida e debole nell'avversa fortuna. Non era capace di farsi un piano di difesa per l'avvenire, ma le bastava di scansare il pericolo presente. Così fece anche questa volta. Inoltre pensò non senza ragione che nel caso non avesse mantenuta la promessa, il pericolo non poteva essere maggiore di quanto lo era adesso e che intanto si acquistava tempo. Non potè prevedere nella confusione di quel momento che più tardi sarebbero stati due a patire, e che uno di quei due sarebbe stata una sua creatura, cui avrebbe dovuto confessare una vergognosa istoria d'adulterio.
La contessa, nello sgomento e nell'incertezza di quell'istante, non pensò a tutte queste probabilità. Promise al conte quanto voleva; rinnovò a sua richiesta la già fatta promessa, e poi, finalmente, uscì accompagnata dal marito da quella sala, ove aveva passata una mezz'ora che le era parsa lunga quanto un anno. Il conte la lasciò presso all'uscio della sua camera, le fece un inchino profondo, e le disse che la mattina seguente sarebbe partito e non sarebbe tornato che fra due mesi.
La contessa, a quella notizia si sentì riavere; così pure non le parve vero che il marito avesse scoperto il suo segreto e che la cosa fosse finita a quel modo.
La mattina seguente, allorchè il conte partiva dal castello, la contessa Beatrice dormiva ancora di un sonno profondo e riposava come da molte settimane non aveva più riposato. Sognava, e nei suoi sogni apparivano immagini vaghe e confuse. Le sembrava d'essere con Guido in un paese sconosciuto, e di vogare dolcemente con lui sopra un mare tranquillo e azzurro; talvolta ritornava invece col vagante pensiero agli anni dell'infanzia, e si ritrovava nella sua casa, fra le amiche e le sorelline, giuocando con esse nel giardino; ma l'immagine di Guido tornava sempre, ora mestamente velata, ora piena di sorrisi e di gioia. La contessa discorreva dolcemente con esso e aveva le sue mani fra quelle di lui, allorchè la carrozza del conte che partiva, passò sotto le sue finestre, e i cavalli che velocemente correvano scuotendo i loro sonagli, la destarono a un tratto.
Beatrice si scosse, si ricordò, e nascose il volto fra le coltri.