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Erano scorse dieci settimane da quella mattina, e una sera il conte verso l'ora del tramonto faceva ritorno al castello. La zia di Beatrice, quella stessa che nella notte in cui era nato Ermanno, gli aveva scoperta la culla del piccolo scemo, gli venne incontro lieta e festosa.
– Beatrice sta meglio: da ieri il medico ha dichiarato che è fuori di pericolo ed essa ha fatto da stamane un miglioramento rapidissimo; il bimbo poi è... un amore! – A queste parole della zia, il conte strinse le labbra e non replicò subito, ma poi rispose con disinvoltura e domandò se poteva vedere la contessa.
La zia l'accompagnò sollecitamente nella camera di sua nipote, aprì l'uscio, e senza parlare si allontanò in punta di piedi.
Appena il conte era giunto al castello, Beatrice l'aveva saputo, e d'allora in poi con ansia grandissima aveva tenuti gli occhi fissi sulle portiere della sua camera e aveva cercato, malgrado la gran debolezza, di stare attenta a tutti i rumori che le venivano di fuori. Finalmente la portiera si sollevò, ed un uomo entrò nella camera. Beatrice abbassò le palpebre a un tratto, come fanno i bambini, allorchè fra le ombre della notte sembra loro di vedere qualche paurosa visione. Il conte si avanzò pian piano sino al letto. Beatrice si scosse e lo guardò. Gli occhi della poveretta erano divenuti smisuratamente grandi, essa aveva in quel momento i capelli disciolti, il viso pallido, magro, quasi cadaverico; ma quegli occhi grandissimi in quel pallido volto la facevano parere ancora più bella che non fosse, ma di una bellezza trasparente, ideale, come in lei il conte non l'aveva vista mai. La guardò un momento impietosito, e non potè frenare un sentimento di ammirazione.
– Sono lieto, Beatrice, – disse quasi con dolcezza, vinto dal fascino di quegli occhi, – sono lieto di sapere che stai meglio. – La contessa gli stese la mano. – Grazie, – mormorò debolmente, e una grossa lagrima le spuntò fra le ciglia. Il conte volse altrove lo sguardo per vedere se nella camera non vi fossero altri, ma si fermò maravigliato alla vista di una lettera mezza scritta, di mano di Beatrice, che giaceva aperta sullo scrittoio.
La contessa seguiva con gli occhi lo sguardo del marito, e allorchè lo vide fermarsi su quel foglio, disse quasi umilmente:
– Nella scorsa notte, credendo di dover morire, mi feci dare quel foglio e ti scrissi...
– Non ti affannare, Beatrice, – rispose subito il conte, quasi avesse fretta d'interrompere quel discorso e di sottrarsi ai sentimenti miti e pietosi che lo invadevano. – Ora stai meglio, non devi più pensare a quei tristi momenti. Sta tranquilla e riposa. – Non prese quel foglio che essa gli aveva destinato; ebbe paura di guardarlo e di toccarlo, ebbe paura di dimenticare per un momento i suoi rancori. Strinse leggermente la mano di Beatrice, e si avviò per uscire dalla camera, dicendole addio; ma l'ammalata lo richiamò.
– Ermanno – disse con evidente imbarazzo – s'è fatto più grande, più vispo; dice alcune parole, s'è ricordato di te, ha capito che dovevi arrivare. – Il conte sorrise mestamente e intese il significato delle parole di Beatrice. La povera donna voleva farsi perdonare la bellezza di quel bimbo che la zia aveva chiamato un amore.
– Ne sono lieto, – rispose egli brevemente, e uscì dalla camera.
Il conte si avviò nel salotto della zia.
– Dov'è il bambino? – disse entrando e imperiosamente. La zia, maravigliata dall'asprezza con la quale accentuava quella domanda, aprì una porta e chiamò piano.
Una giovane balia si presentò, salutò rispettosamente il conte e rispose alla vecchia signora, che le chiedeva se i bambini erano con lei, che il contino Ermanno si baloccava, mentre il piccolo Gualberto dormiva.
Anche questa volta il conte volle rimaner solo.
Entrò nella camera e chiuse ben bene l'uscio dietro a sè. Provava vergogna, pensando che altri potessero vederlo mentre guardava per la prima volta quella creatura non sua.
Ermanno, seduto sopra un guanciale giuocava con un gattino; egli era grande e forte per la sua età, ma la sua testa stretta, il suo viso schiacciato in alto, con gli occhi infossati e la mascella inferiore sporgente, lo facevano ancora rassomigliare ad un idiota. Al primo apparire del conte egli si levò impaurito, poi lo fissò lungamente, sorrise varie volte come fanno i semplici, e sembrava che cercasse di rammentare una cosa dimenticata. Il padre lo guardava immobile, quasi avvilito. Era questo il figlio, per il quale aveva vagheggiata gloria e fama nell'avvenire, che aveva voluto iniziare a tutti i progressi dell'intelligenza umana, a tutte le grazie e le sottigliezze dello spirito, che doveva interpretare i filosofi più arditi, e diventare il più illuminato gentiluomo del suo paese!
Finalmente il povero scemo lo ravvisò; sul suo brutto viso balenò un raggio non d'intelligenza, ma di piacere e di bontà, gli andò vicino e disse:
– Babbo! Babbo! – Il conte si chinò con una espressione di dolore e lo baciò in fronte; poi si volse a destra e cercò l'altro. Questi giaceva nella culla, ma si era destato allorchè Ermanno aveva chiamato il padre. Era un bellissimo bambino, biondo, roseo, con occhi grandi che scintillavano per vitalità e salute, e sembravano già promettere tesori d'intelligenza e di letizia. Il conte si avvicinò ad esso con un movimento rapidissimo. Il bambino lo guardò e sorrise. Fu un sorriso vaghissimo, che illuminò tutta quella fisionomia infantile, e la fece sembrare ancora più graziosa. Battè le piccole manine rosee, delicate, quasi in atto di gioia, poi sollevò i piedini tondi e piccini, tanto belli che sembravano dipinti, e coll'audacia dell'innocenza scoprì il suo corpicino forte e perfetto; poi sorrise di nuovo, guardando il conte con insistenza e maraviglia.
Ottone di Ardenberg lo fissava con una curiosità tormentosa, spiava con avidità ogni suo lineamento, ogni gesto; guardò i piedi, le mani, i capelli, le unghie; l'osservava con una ansietà febbrile; quella creatura gli sembrava un documento vivente da leggersi, da analizzarsi; l'avrebbe tagliato a pezzi, se le fibre sue avessero potuto parlare e narrare la loro istoria.
E intanto il bimbo sorrideva e batteva le manine e i piedini, e aveva negli occhi mille curiosità, mille gioie infantili, mute e nascoste. Il conte si era chinato per vederlo meglio, e allora un dito del piccino si posò sulla sua mano.
Il conte la ritrasse con orrore; quel contatto gli sembrò un insulto, una vergogna, un fatto la cui enormità non avrebbe potuto mai far scontare bastantemente a chi ne era cagione; e rialzatosi si volse verso Ermanno.
Il povero scemo col gattino sulle braccia si era avvicinato in quel mentre anch'esso, dal lato opposto, alla culla. Allorchè il padre si allontanava, Ermanno mise arditamente il gattino sulla culla; il suo piccolo fratellino fissò con maraviglia quell'inattesa apparizione, poi gettò un piccolo grido di gioia e posò la manina fra il pelo bianco del gatto. Il conte, che cercava in questo frattempo Ermanno, rivoltosi di nuovo dalla parte della culla li vide entrambi. In quel momento i due fanciulletti si guardavano, e il vispo sorriso di Gualberto rispondeva a quello stupido dello scemo.
Il conte provò una stretta al cuore.
– Lo spegnerò quel raggio d'intelligenza e di gioia! – disse fra sè, e uscì dalla camera.
Nel salotto incontrò di nuovo la balia e la guardò con diffidenza.
– Chi sei? – le disse alteramente.
– Sono la figlia della Rosalìa, – rispose intimidita la giovane donna.
– Sta bene, – disse il conte, celando il suo malcontento sotto un freddo sorriso. – Abbi cura del bambino, – e senza attendere una risposta se ne andò.
Senza darsene ragione, pure lo noiava che la figlia della Rosalìa fosse entrata in casa sua. Sapeva fin dall'infanzia chi era la Rosalìa, e conosceva le fiabe che correvano nella valle sul conto di lei, ma di ciò non gli sarebbe importato; in quel giorno infausto però, nel quale egli aveva scoperto nel bosco quella triste verità che doveva amareggiare tutta la sua vita, gli era parso di vedere da lontano la vecchia Rosalìa che, secondo la sua abitudine, vagava fra gli abeti raccogliendo le legna.
A che serviva l'aver frenato la sua ira, l'aver scemato col tempo e le incertezze dell'avvenire la sua vendetta, se quella donna aveva visto e sentito, e poteva ridire ogni cosa?
Assunse nascostamente delle informazioni. Egli stesso, il conte di Ardenberg, tenne d'occhio lungamente la povera contadina, ma non gli fu dato di scoprire cosa alcuna per la quale s'affermassero i suoi sospetti, e questi erano già sopiti interamente, allorchè la vista della figlia di Rosalìa li risvegliò; fu però soltanto una fugace impressione del momento e il conte riflettendo che la sua diffidenza era puerile e infondata, la vinse.