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Erano scorsi vent'anni. Il castello di Ardenberg sorgeva sempre altero e minaccioso fra la valle ed il lago; non una pietra, non una feritoia, non uno stemma mancavano al vecchio edificio. Sembrava che con solerte vigilanza vi fosse chi riparasse costantemente ai danni del tempo, ed il castello appariva ancora quale era allorchè s'incominciò questa storia. Anche il bosco degli abeti aveva il medesimo aspetto di prima; in luogo di qualche albero schiantato dal vento n'erano sorti altri, e l'edere e le borraccine avevano in quel frattempo ricoperto i massi nuovamente caduti dalla vetta dei monti. Il lago stendeva le sue acque limpide e profonde dinanzi al castello, riflettendone le torri e le mura e lambendole con incessante mormorio. Sulla terrazza che univa le due torri e che prospettava il lago, fiorivano leggiadrissimi fiori e piante arrampicanti che ricoprivano vagamente le vecchie mura e ricadevano sulle finestre con ciocche di fiori o con verdissimi rami lunghi e pieghevoli.
Qual'era la mano gentile che ne aveva cura? Che cosa era avvenuto in questi venti anni nella famiglia degli Ardenberg?
Era ancor vivo il conte Ottone? La bella contessa Beatrice dimorava essa ancora nel castello?
Entriamo nella vecchia dimora feudale, e cerchiamo di ritrovarne gli abitanti.
Dopo avere traversato un ampio vestibolo e due vaste sale, piegando a destra si entra nella biblioteca del conte, situata a pianterreno, con le finestre che guardano il lago.
Era sera, e una lampada illuminava soltanto quel tratto della stanza e della grande tavola di mezzo che era vicino alla finestra. Gli altissimi scaffali lungo le pareti erano tutti nell'ombra e così pure tutte le altre parti della biblioteca, ove, proprio nel punto più buio, brillavano di quando in quando le scintille di un sigaro acceso. Era il conte Ottone che seduto tranquillamente in una larga poltrona fumava il suo avana.
Chi l'avesse potuto vedere da vicino avrebbe scorto con maraviglia il sorriso maligno, quasi diabolico, che aveva sulle labbra e il luccichìo insolito dei suoi occhi semichiusi che fissavano con insistenza da più di un'ora un giovane che era seduto all'altra estremità della biblioteca, proprio sotto alla lampada, leggendo avidamente le pagine di un libro che sfogliava con febbrile impazienza.
La viva luce della lampada ne illuminava la testa bionda ch'egli teneva appoggiata sulle mani, e si vedevano le sue dita bianche e lunghe, dita aristocratiche e sottili, premere la folta e ondeggiante capigliatura con un movimento talvolta di dolore, talvolta di impazienza. Tutto il viso del giovane era nella luce; teneva gli occhi bassi, intenti al libro, tanto che le lunghissime palpebre sembravano toccare le guancie pallide; la fronte aveva altissima, il profilo regolare, vero profilo greco simile a quello della contessa Beatrice; intorno alla bocca semiaperta, fresca, giovanile, una di quelle bocche sulle quali il sorriso frequente lascia una traccia di grazia e di gentilezza che più non si cancella, neppure nella più tarda età, spuntavano dei baffi biondi. Mentre leggeva, la sua fisonomia, che doveva essere di straordinaria mobilità allorchè si animava, variava ad ogni momento. La persona del giovane spariva nell'ombra del gran seggiolone ad intagli, nel quale era seduto. Vestiva tutto di nero, e soltanto un collarino bianchissimo, stretto intorno al collo, e che risaltava sull'abito nero, rivelava il suo stato.
Il conte, sempre seduto nell'ombra, guardava e sorrideva.
A un tratto il giovane chiuse il libro, passò rapidamente la mano sulla fronte e si alzò con un movimento rapido, energico come quello di un uomo che ha preso una risoluzione. Pareva che nello stato d'agitazione che lo travagliava egli avesse dimenticata la presenza del conte, o non la curasse. Gli volse le spalle, si avviò verso la finestra, l'aprì, e appoggiando di nuovo la testa fra le mani, e curvando l'alta e snella persona, guardò fisso fisso l'acqua del lago, illuminata dai raggi della luna. Era una sera splendida. Mille stelle scintillavano nella trasparente oscurità della notte, e il lago giaceva immobile e tranquillo, come uno specchio grandissimo racchiuso in una larga e vaporosa cornice di alti monti.
La luce della lampada rischiarò allora tutta la persona alta e snella del giovane, ravvolto con garbo artistico nelle pieghe di seta nera di un abito sacerdotale che sembrava messo a caso o per ischerzo su quell'aitante persona, che aveva le movenze ardite e disinvolte del cavaliere piuttostochè del prete.
Quel sacerdote era il figlio della contessa Beatrice e di Guido Campaldi.
Il conte aveva ottenuto il suo intento. In cambio del nome concesso tanto malvolentieri, egli si era impadronito dell'avvenire di quel fanciullo non suo, scansando nello stesso tempo il pericolo che un bastardo trasmettesse ad altri il nome degli Ardenberg; a questo modo aveva compiuta la sua vendetta e fatta infelice la contessa Beatrice, trasformandole quel figliuolo adorato, bello, intelligente, in un essere che essa doveva riguardare con vergogna, forse con ripugnanza, simile a tanti che con puerile antipatia essa aveva sempre sfuggiti e spregiati.
Fu giorno pieno di angosce per la madre quello nel quale il suo vivace e bellissimo bambino ebbe a spogliare gli abiti eleganti e sfarzosi, de' quali soleva adornarlo, e tagliati quei capelli d'oro che essa inanellava ogni mattina con tanta cura e tanto amore, s'ebbe a rivestire con la nera veste del prete. Non valsero le preghiere, non valse la resistenza perseverante della contessa; il conte Ottone aveva trovato il modo di vendicarsi, e non era facil cosa distoglierlo dalla sua vendetta. Anche il bambino si ribellò; si ribellò con violenza, con energia, forse istigato dalla contessa che aveva riposto in questo mezzo le sue ultime speranze, e che sapeva che il marito non disamava l'intelligente fanciullo, il quale tante volte l'avea maravigliato colla prontezza del suo ingegno. Ma il conte fu inesorabile; qualche castigo severo, quasi crudele, represse ogni tentativo di ribellione per parte del ragazzetto.
Egli fu accompagnato a Roma dal conte di Ardenberg che affidò la sua educazione ai preti di un seminario, ai quali fece intendere che suo figlio era destinato allo stato ecclesiastico, ma che essendo in questo suo proposito avversato da altre persone della famiglia, era perciò necessario vegliare sul fanciullo, affinchè nessuna cattiva influenza lo distogliesse dalla sua vocazione, come disse loro il conte.
Quei sacerdoti capirono a volo ciò che da essi chiedevasi, e tutti i tentativi fatti più tardi per eccitare il giovanetto alla ribellione contro la volontà paterna riuscirono vani. La contessa non rivide suo figlio che quando era già prete.
Il conte aveva disposto ogni cosa per il compimento dei suoi disegni con accortezza mirabile, e aveva condotto le cose in modo che la contessa non potesse andare a Roma, quando il figlio vi riceveva gli ordini sacri. Perciò stabilì che contemporaneamente fosse fatta al castello di Ardenberg una gran festa di famiglia per il matrimonio di Ermanno, cui egli aveva finalmente, dopo molti infruttuosi tentativi, trovata una sposa nella nobile ma poverissima famiglia degli Altinori.
Jeronima degli Altinori sacrificò nobilmente sè stessa per aiutare i vecchi genitori, ridotti quasi alla miseria; e nello stesso giorno nel quale una generosa giovanetta compiva l'atto infausto che legava la sua esistenza a quella di uno scemo, Gualberto di Ardenberg, a Roma, rinunciava per sempre a tutte le gioie della vita, a tutte le speranze dell'avvenire. Ma Gualberto non entrò in quella via esitante o pauroso; vi entrò con gioia, con entusiasmo giovanile, con un'impazienza degna di un apostolo.
I preti avevano fatto bene l'opera loro; e l'entusiastica indole del giovane agevolò di molto ad essi il difficile incarico. Già nei primi anni avevano scritto più volte al conte, lodando il carattere facile e pieghevole, l'ingegno prontissimo di suo figlio. Ogni anno Ottone di Ardenberg raccoglieva così molte lettere che contenevano elogi grandissimi di Gualberto, e nelle quali si pronosticava ad esso uno splendido avvenire, fondando sopra di lui molte e serie speranze.
E le lettere scritte al conte erano veritiere. Gualberto fu da essi trattato con affetto, con deferenza, e allevato come dovesse esser chiamato un giorno ad altissimi destini, non perchè portava un nome illustre o perchè era un signore ricchissimo, ma per il suo grande ingegno e per l'attrattiva dei modi e dello spirito suo, pei quali pregi non vi era l'uguale nel seminario.
Il giovanetto visse colà lietissimi anni. I suoi educatori, abili ed astuti, sapevano sempre cogliere nel segno, allorchè dovevano presentare alla sua mente qualche nuovo ordine di fatti o d'idee; sapevano porgergli le cose in modo che in lui non nascesse diffidenza alcuna per le dottrine da essi professate. Nè questo riesciva difficile con Gualberto, il quale, come tutti coloro che hanno vivacità d'imaginazione e indole artistica, non era punto diffidente. La grande e bella religione cattolica, che parla ai sensi e rianima tutte le più poetiche imagini della mente, che si è fatta ricca per tanti nobili esempi d'altissima e ispirata abnegazione, di santi e soavissimi entusiasmi, aveva ripieno di fede e di speranza lo spirito di Gualberto. Egli sapeva di poter chiedere alla sua fede quanto volesse, sicuro di ottenere sempre da lei ciò che a lei sola chiedeva; e a qualunque desiderio della mente, a qualunque morboso bisogno di commozione intellettuale egli sapeva di poter soddisfare per opera sua quanto e come voleva.
Gualberto, guidato da saggi e dotti istitutori, era entrato in quella elevata atmosfera religiosa, e vi aveva trovato, non solamente quanto e più di quello sapeva esservi nel mondo cui doveva rinunciare, ma anche la realtà stessa più bella, perchè sempre rivestita di tutta la poesia, di tutto quell'idealismo, dei quali fuori di lì andavano disadorne le cose umane. E lo spirito eletto ed aristocratico del giovane disdegnava quanto v'ha di gretto, di rozzo o di volgare; aveva, in quella giovanissima età nella quale le istintive impressioni non sono moderate dalla riflessione, il bisogno di vedere le cose rivestite con grazia e con fasto di colori vaghi e vivaci; e la religione cattolica è, fra tutte, quella che meglio riveste le dottrine e le imagini sue con arte, con pompa, talvolta con prodigalità. In essa, dovunque egli posasse il suo pensiero, poteva riposarlo fra imagini alte e perfette.
Il sacerdozio era dunque per Gualberto uno stato eletto; egli credeva con esso acquistare il dominio delle opere dello spirito, elevarsi sopra il livello comune; gli sembrava di affratellarsi con tutti gli animi gentili, d'appartenere così alla famiglia di quei nobili entusiasti che sostennero sorridendo il martirio o che vissero felici fra gli sconforti della solitudine e fra i paurosi silenzi dei deserti. Eletti, pei quali il mondo e l'eternità si popolavano per opera di una idea sola e grande. Figuravasi di entrare nella comunità di coloro che credevano essere gl'intermediari fra le miserie della terra e le glorie del cielo; si figurava di far sue tutte le leggende cristiane, tutte le subblimi aspirazioni di quei celebri mendichi d'altri tempi, i quali, regalando l'ultimo lembo della loro veste ai poveri che incontravano per via, vagando a piedi, soli, senza guida, perdevano con indifferenza il loro cammino fra i continenti, cercando una via immortale nel cielo.
Egli aveva abbracciata con la sua ardente imaginazione nella sua maggior grandezza, l'idea cristiana nella religione cattolica. L'aveva presa come un artista e un poeta farebbe sua una delle più vaste creazioni dell'ingegno umano. Aveva la fede di un bambino, l'intensità ardente del pensiero di un adulto. Il giorno che prese gli ordini sacri gli parve prendere con essi il possesso del suo sogno.
Provò una gioia altera, un piacere vivo, come fosse una sensazione fisica; la sua natura aristocratica gioì dopo quell'atto; gli sembrò di non appartenere più al volgo.
I suoi educatori l'avevano spinto arditamente per quella via, e con arte mirabile avevano saputo approfittare delle tendenze del suo spirito. Ma alcuni di essi si sgomentavano di quella foga, di quell'entusiasmo; vi trovavano un non so che di profano, un modo di prendere con indiscrezione, senza dare guarentigia di restituzione; egli apparve talvolta temerario, e perfino in opposizione coi dogmi della Chiesa; la sua esultanza non sembrò umile e raccolta, ma audace, e mista di espressioni che somigliavano troppo a quelle dei piaceri e delle gioie mondane. Ma contro a questi prevalse l'opinione di altri, i quali l'avevano anzi spinto per quella via.
È così – dicevano – che la sua fede prenderà stabili e profonde radici nell'animo suo. Con tale fervore, se caso alcuno lo muovesse e l'allontanasse da noi, non troverà mai altro sentimento nel mondo che gli sappia dare la gioia ch'egli ebbe da questo, e vi tornerà. –
Il vecchio prete che parlava a questo modo diceva il vero. La vita reale non ha ebbrezze di pensiero e di immaginazione, non ha speranze grandi e infinite come l'aveva nel cuore e nella mente il giovane Gualberto.
Pochi mesi dopo che era entrato irrevocabilmente nella carriera ecclesiastica, e mentre già gli si promettevano onori e gradi, assai maggiori di quelli potessero sperare altri all'età sua, ammalò gravemente, e la convalescenza fu così lunga e destò tante inquietudini che gli fu consigliato di andare a ritemprarsi per qualche mese nell'aria natia.
Egli partì da Roma sul finire del marzo con grandissimo desiderio di rivedere sua madre, che da tanti anni non aveva più veduta, ma che gli era pur sempre presente come non l'avesse lasciata che il giorno innanzi; desiderava pure ritrovarsi nelle sue valli del Tirolo, presso il lago azzurro, ove tante volte allegramente aveva vogato nei giorni della sua infanzia. A que' tempi il lago gli era sembrato vasto come l'oceano, il bosco degli abeti grande quanto una foresta vergine del nuovo mondo. Come li troverebbe adesso?
Nella sua convalescenza Gualberto era tornato molte volte col pensiero alla sua casa, ed aveva provato un desiderio insolito di rivederla. Sembrava che il lungo malore avesse domato in lui quella foga superba che faceva spaziare la sua mente lungi dalle piccole dolcezze degli affetti terreni; pareva che lo spirito suo, stanco di vagare nelle regioni dell'ideale, volgesse in un momento di debolezza le sue aspirazioni alla terra.
Sul finire del viaggio, allorchè s'innoltrò nelle gole degli alti monti, ebbe dall'aspetto della natura, la quale via via che s'avvicinava al castello di Ardenberg andava diventando sempre più grandiosa e selvaggia, un'impressione nuova, quasi dolorosa. Queste roccie nude, queste vette calve, questi dirupi scoscesi, tutta questa bellezza disadorna e vigorosa, provocava nell'inconsapevole suo spirito raffronti colla sontuosa magnificenza di Roma ch'egli tanto amava. Questa bellezza risvegliava un sentimento di ammirazione ben diverso da quell'altro; c'era qui un che di ruvido, di violento nell'evocazione di tale sentimento. Era questo il bello primitivo, che sembrava toccargli l'immaginazione a nudo, senza artifizio, con una violenza quasi rozza; era un trovarsi a tu per tu colle imagini grandi, un sentirsi insolitamente vicino alle cose alte, inarrivabili. Le magnificenze di Roma gli erano sempre apparse invece in abito di gala; le aveva sentite, con rispetto e desiderio, sempre ad una certa distanza da sè. Intermediaria fra lui e la natura v'era stata in ogni tempo l'arte, ma l'arte più bella e più degna d'essere interprete della natura che mai vi fosse; fra lui e la cosa spontanea, originale, eravi sempre stato un velo, una veste, ricca ed elegante sì, ma che pur l'aveva sottratto al contatto diretto della realtà. E lo spirito suo seguendo quella china aveva inteso a quel modo la religione, la vita, l'avvenire; aveva creduto prendere per sè le cose migliori; aveva unito Cristo e Michelangelo, l'amore ed il culto di quanto vi fu di più buono e di più bello; si era servito dell'uno per amare l'altro: si era innalzato per opera delle bellezze artistiche, di tutte le più squisite eleganze della forma e del pensiero, di tutti i più vaghi sogni poetici e religiosi, affine di salire ancor più alto nel mondo raggiante della sua immaginazione; e quel mondo il giovanetto l'aveva chiamato col nome di Religione cattolica.
L'impressione avuta durante il viaggio crebbe, anzichè scemare, allorchè ebbe fatto dimora per alcuni giorni nel castello di Ardenberg.
Rivedendo sua madre e la camera ove abitava da bambino, e i luoghi ove a quel tempo s'era baloccato tante volte, e rivedendo con essi quella natura aspra ed alpestre, sentì che lo spirito suo non seguiva più il solito ordine d'idee; tornò al passato con una tenerezza, di cui non si sarebbe creduto capace; pensò all'avvenire come vi fossero in esso mille sorprese e mille segreti; sentì che il bello non aveva sempre bisogno di rivestirsi di certe forme convenzionali, che certe aristocratiche paure della realtà venivano da ignoranze puerili.
Gualberto passeggiava fra quelle montagne, passeggiava lungo le rive del lago, e guardava e pensava. Talvolta era preso da una voglia pazza di sentirsi ancora più vicine quelle cose belle; provava il bisogno di accarezzare le alghe, di fiutare quei fiori e quelle erbe alpestri, di tuffare il viso e le mani in quelle acque limpide e azzurre, per toccare e avere in suo potere una briciola, una particella di quella grande e altera bellezza della natura che viveva con lui e intorno a lui.
Gualberto sentiva che il suo spirito s'era maturato, s'era fatto a un tratto più vecchio, più forte, più malinconico; provava vuoto e tedio; s'era accorto che già una parte del suo essere morale gli mancava, ma era ancora tanto ricco da non accorgersi quale parte fosse.
Anche la sua fede ardente aveva subìto insensibilmente un mutamento; s'era fatta più severa, più sobria; non s'associava più a certe intemperanze dell'immaginazione; non ardiva popolare quelle vette scarne ed alte, quelle gole oscure, di tante leggiadre, varie e splendide visioni; esse gli sarebbero parse quali dame eleganti in abito da ballo, perdute fra le dimore dei cervi e dei camosci. La religione sua, che in Roma s'alimentava di tutte le bellezze artistiche, di tutte le pompe sacerdotali, spogliavasi qui di quelle ricche vesti e tornava ad una semplicità severa e primitiva. E con questo mutamento inavvertito, con questa tranquillità maggiore nelle cose di religione, nascevano in lui desiderii che non avevano nome nè scopo fisso, ma che l'agitavano, lo turbavano, lo rendevano felice e infelice ad un tempo. Voleva, voleva, e non sapeva ciò che volesse; avrebbe voluto talvolta fermare per sempre il corso del tempo ed eternare un momento felice di contemplazione.
Dotto in molte materie, Gualberto era ignorante di moltissime cose della vita reale. Tranne che in alcune parti de' suoi studii, egli del resto aveva sempre spaziato in un'atmosfera artificiale. Non aveva dunque imparato a rendersi conto di certi fenomeni pure comunissimi, e ignorava fatti che accadevano a migliaia, a pochi passi da lui. La vita vera gli era stata nascosta dietro un fitto velo ricoperto da splendide e attraenti figure. Adesso, qua e là, il velo si squarciava. Gualberto vedeva rapidamente, a sbalzi, l'ignota realtà; poi tutto si copriva di nuovo, e gli rimaneva nell'animo un desiderio impaziente e un turbamento profondo.
Quando i preti posavano il grande edificio della fede e dell'avvenire religioso di Gualberto su quelle attitudini straordinarie della sua mente e della sua immaginazione per ciò che era grande e ideale, quando alimentavano i suoi gusti aristocratici e i suoi sdegni alteri per le cose volgari, non sapevano che quelle doti, ereditarie in lui che discendeva da una famiglia di grandi artisti, non potevano nutrire per lungo tempo la sua fede; non sapevano che non si può fare di un poeta un prete, e che, se a vent'anni le attrattive delle grandi imagini religiose e le soavi ebbrezze della fede potevano bastargli, l'inganno durerebbe poco; che egli poi, seguendo le istintive tendenze degli avi, tornerebbe alla terra e vi morderebbe con gioia un rozzo pezzo di pane bagnato forse di lagrime sue o altrui.
Gli artisti e i poeti sono i veri genii della terra; hanno bisogno di godere e sentire; hanno bisogno di trarre l'ispirazione dalle fibre, dai colori, dalla gioia e dal dolore. Le cose profane e reali, le abbiette e le grandissime, sono tutte materiale necessario alle loro creazioni; hanno bisogno di lagrime, di sorrisi, di una foglia secca che cade sulla neve, del fiore che muore nel seno di una donna. Ma Gualberto aveva in sè anche altre più forti e più vigorose inclinazioni; tendenze cavalleresche, ereditate d'altra parte; sentimenti d'orgoglio, di generosità, d'aristocratica alterigia. E se da un lato era tratto alle follie della fantasia, dall'altro lo domava un altero sprezzo per certi disordini volgari, e si sentiva così gran signore che non poteva scendere nella folla e cercare fra quella la soddisfazione di un sogno della sua mente. Non s'erano dunque al tutto ingannati coloro che fidavano nella costanza de' suoi proponimenti; ma prima che potessero essere ben sicuri di lui, egli aveva a combattere ancora una fierissima lotta. Quale delle due aspirazioni così differenti fra loro, che si contendevano l'avvenire di Gualberto, avrebbe vinto? Si sarebbero esse unite concordi, oppure l'avrebbero consumato nella contesa?
Lo vedremo più innanzi.