IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Gualberto aveva ritrovata la contessa Beatrice quasi come l'aveva lasciata; un po' più magra, un po' più scolorita in viso, con qualche filo bianco fra i capelli ancora bellissimi; ma il suo sguardo amorevole era sempre il medesimo, il suo sorriso pieno di affetto era ancora quello di tanti anni prima, allorquando lo teneva sulle ginocchia raccontandogli lunghe istorie di fate e di malìe.
Il conte era invecchiato nell'aspetto assai più della moglie, ma lo spirito aveva sempre mordace, vigoroso e pieno di brio. Leggeva molto, andava a caccia e faceva lunghe assenze dal castello.
Ermanno era il solo che fosse realmente mutato. S'era fatto grande, forte, più alto di statura del conte; la sua fisonomia aveva migliorato, lo sguardo aveva meno fisso e meno ebete, il contegno più tranquillo, e appariva perciò meno infelice lo stato della sua mente.
Di quel mutamento andava debitore all'amore instancabile della madre, alla perspicacia dell'affetto che aveva scoperte le più nascoste attitudini del suo intelletto e aveva raccolte le idee in istato di embrione per tentare di farle vivere. Fu inferiore a tante fatiche il risultato, ma pur qualcosa ella ottenne. Ermanno leggeva con lei, ma per lo più intendeva le parole, non il senso; l'accompagnava nelle passeggiate, nelle visite, perfino nei viaggi; in quelle occasioni il suo contegno era irreprensibile, perchè col silenzio e coll'immobilità celava a tutti la sua disgrazia.
Il poveretto aveva coscienza della sua inferiorità, sapeva che pesava sopra di lui una disgrazia che lo faceva dissimile agli altri per modo che le cose loro egli non le intendeva; e con quel piccolo raggio di intelligenza che gli rivelava lo stato suo, si era spento il sorriso di felice ebetismo che vedevasi quasi perennemente sul suo viso, quando era bambino. Apparve meno sciocco, ma fu più disgraziato. Si svegliò anche in lui un certo orgoglio aristocratico che lo faceva accorto di ogni più piccola mancanza, di ogni malevolo sorriso, quando era fra gente nuova o sconosciuta; e allora stava zitto, attento a sè, nascondendo con l'orgoglio la povertà della sua mente.
Amava la campagna, amava i fiori, ma più d'ogni altra cosa amava, anzi adorava sua madre. Da bambino allorchè non aveva peranco imparato a frenare gl'impeti dei suoi affetti e dei suoi desiderii, si abbandonava talvolta a dimostrazioni quasi pazze d'amore per lei, le gettava le braccia al collo con urli, mordeva, rideva, le copriva il viso di baci e di carezze; ma poi a poco a poco, incerto sempre sul modo di contenersi, diffidente di sè, non potendo portare la luce dei suoi pensieri confusi e annebbiati, sulle proprie azioni, si moderò, cercò alla meglio di starsene sempre tranquillo e nascondere di sè quanto più poteva a quelli che gli stavano attorno.
Era talvolta coraggioso sino alla temerità o all'inconsapevolezza del pericolo, mentre aveva di alcune cose timori infantili, invincibili. Non ci fu verso, per esempio, di farlo andare una sola volta sul lago, di farlo bagnare nelle acque limpide di esso, raccolte in una vasca presso al castello. Aveva orrore, paura irragionevole, del lago. Quando vi era una bufera e che l'onde si accavallavano e s'infrangevano rumorose contro le mura del castello, il povero scemo si turava le orecchie e stava per ore intere in quella positura. Soltanto la presenza di una persona sconosciuta avrebbe potuto indurlo, per sentimento di orgoglio, a mutar positura e a tollerare il frastuono, spaventevole per esso, dell'acqua in burrasca.
I contadini avevano un amore superstizioso per il conte Ermanno. Egli conversava volentieri con loro, e se per il suo modo di discorrere o per le sue idee confuse essi non intendevano talvolta ciò ch'egli volesse dire, pure facevano come se l'avessero inteso, e con la cortesia istintiva che viene dal cuore gli nascondevano pietosamente le tristi conseguenze del suo stato.
Ermanno aveva un'intuizione più chiara delle cose istintive che delle altre; portava nelle relazioni familiari un sentimento riverente di amore; se alcuno fra' suoi contadini perdeva un figliuolo o la madre o la moglie, egli provava subito una pietà gentile che cercava dimostrare con parole talvolta confuse o inopportune, ma sempre buone, e cercava di alleviare la loro afflizione con doni e promesse. Prendeva cura degli animali, delle piante, dei fiori; intendeva i bisogni, aveva quasi l'intuizione di ciò che riguardava questi esseri inferiori, come si sentisse egli più simile e prossimo a loro che a quegli altri che meglio di lui avevano fatto esercitare e progredire tutte le facoltà del loro cervello.
Benchè avesse più di venticinque anni, serbava sempre nel modo di manifestare i suoi desiderii, di comportarsi colle persone di casa, un fare fanciullesco come fosse ancora bambino. Per lui il grande periodo di mezzo, il più attivo e fecondo nel corso della vita dell'uomo, trascorreva inavvertito; egli era destinato a passare dall'infanzia alla decrepitezza della vecchiaia senza altre evoluzioni. Allorchè gli si fece intendere che trattavasi del suo matrimonio, che una giovinetta di modi gentili ed amorevoli doveva diventare sua sposa, ne provò una gioia intensa, esultante.
Ermanno non provò un piacere da scemo; provò l'ingenua e gentile felicità di un fanciullo, cui fosse promesso in dono un balocco; un balocco che parla, che si muove, che fa ogni cosa come lui, che lo dovrà amare, mentre egli veglierà sopra esso, che egli potrà veder muovere, ridere, parlare, fin che vuole, che potrà far felice o infelice a suo talento, che lo accompagnerà dovunque gli piacerà di portarlo seco. Ma Ermanno in quella gioia non ebbe un pensiero triviale; quella sua intelligenza appena sbozzata, quelle fibre tronche dell'animo suo, erano gentili, delicate, di una soavità quasi femminile; egli pensò al suo trastullo con gioia, con impazienza, ma con rispetto.
Quel trastullo tanto sospirato dallo scemo era Jeronima degli Altinori.
Nobilissima di casato, aveva visto precipitare nell'abisso d'incessanti sventure gli ultimi averi di una famiglia già quasi povera, allorchè ella nacque. La miseria attendeva la madre e le sorelline nel volgere di pochi mesi, la prigione per debiti il padre. Jeronima adorava i suoi genitori, e sentiva stringersi il cuore nel vedere la testa bianca e altera di suo padre chinarsi sotto al peso della sciagura e delle vergognose prospettive dell'avvenire. Ella avrebbe dato la vita volentieri per salvarli. Ma che poteva fare pei suoi? Fu allora che il conte d'Ardenberg, che conosceva da un pezzo gli Altinori, si presentò con generose proposte e l'offerta della mano di suo figlio.
Jeronima accettò senza esitare, come si sarebbe buttata dalla vetta di un monte in un abisso.
I suoi genitori, le sue sorelline, l'onore della sua casa sarebbero salvi.
Jeronima rispose al conte con fermezza e disinvoltura, accettando la sua offerta.
Il conte sentì la mano della fanciulla tremare fra le sue, ne vide le labbra, prima rosee e belle, divenir bianche e quasi livide mentre proferiva con dignità e mestizia la sua condanna.
– È un gran carattere, – disse il conte fra sè, e guardò con diffidenza e compassione ad un tempo l'altera fanciulla che doveva presto diventare la sua nuora.
Jeronima non era bella, ma in alcuni momenti poteva sembrare bellissima. Alta, snella, aveva movenze di una grazia inimitabile e una nobiltà nel contegno tutta sua. Aveva capelli castagni e occhi scuri, grandissimi; ora splendenti di luce, ora velati, profondi, soavissimamente pensosi; il naso e le labbra sottili; la bocca grande, mobile, scopriva ad ogni momento denti uguali e bianchissimi; le mani poi erano quelle di una bambina e di una fata: piccole, sottili, perfette.
Jeronima s'era già incontrata qualche volta con Ermanno e l'aveva guardato ogni volta con pietà; ma più che per lui aveva sempre provato compassione per la madre, che gli dedicava tante cure, tante gentili attenzioni. Allo scemo aveva badato assai poco, ed ora questo scemo le si presentava quale fidanzato!
L'impressione che provarono quei due fu ben diversa allorchè si rividero sapendo che erano destinati l'uno all'altro. L'incontro durò poco; tutti sapevano che non conveniva ritardare queste nozze per non prolungare lo stato d'incertezza, nè la difficile situazione dei fidanzati. Fu dunque fissata la celebrazione del matrimonio a termine brevissimo.
Jeronima fu lì lì per perdere il coraggio nel rivedere Ermanno. Ebbe una voglia disperata di fuggire, d'affrontare qualsiasi altro pericolo, qualsiasi sorte disgraziata piuttostochè questa. La lotta fu grande, ma la generosità di Jeronima la vinse. Nascose quelle angosce a tutti, e due sole fra le persone presenti a quell'incontro ebbero il sospetto delle sue sofferenze: l'una era il conte di Ardenberg, l'altra il padre suo.
Ermanno taceva, commosso, maravigliato, pieno di curiosità e d'impazienza. Guardava insaziato la sua fidanzata; la guardava proprio come un fanciullo guarderebbe un dono di Ceppo. Non poteva apprezzare il valore delle grazie della sua persona, nè l'attrattiva dei suoi modi graziosi e nobili, l'eleganza delle mosse e dell'atteggiamento; era quello un giudizio troppo elevato per lui, ed egli non lo poteva fare; ma ricercava i particolari, le guardava i cappelli, l'orecchio piccolo e trasparente, le palpebre lunghe e oscure, i denti bianchi, e avrebbe voluto osservare tuttociò più da vicino, prendere fra le dita quei capelli castagni, toccare quelle orecchie rosee e sottili, contare quei dentini come fossero un vezzo di perle. Poi l'invadeva un sentimento di paura, un timore fanciullesco di commettere uno sbaglio, di meritare punizione, e già cominciava a spuntare in lui un'intuizione vaga di farle torto, di non essere degno di quella persona grande, bella, viva. Ei sentivasi come un povero diavolo che volesse ospitare una regina, e nella sua misera capanna non avesse nulla ad offrirle che fosse degno di lei.
Ermanno provava confusamente in sè questi sentimenti, e taceva.
La fanciulla gli rivolse la parola con cortesia. Ma egli non intese, e rispose con monosillabi che ella pure non capì. La forza di volontà dell'energica giovinetta bastò appena per reggerla sino alla fine di quel primo colloquio; lo sguardo fisso di Ermanno sopra di lei la torturava con tutte le più pungenti amarezze di un disgusto invincibile; ma quando, nel prendere congedo, lo scemo, facendo con essa ciò che soleva fare con sua madre, le prese la mano, e su quelle dita bianche e sottili posò le sue labbra grossolane, la fanciulla ritrasse vivamente il braccio.
Allorchè gli Ardenberg ebbero preso commiato, il padre di Jeronima la baciò in fronte, e trascinato dalla commozione le disse che non poteva accettare il suo sacrifizio, e che era pronto, qualora lo volesse, a sciogliere la promessa fatta al conte Ottone. Ma Jeronima ricusò; finse, mostrò anzi di essere lieta e superba di poter mutare la sua modesta condizione con quella fastosa di una contessa di Ardenberg; disse che Ermanno era buono, docile; disse infine tutto quanto le si affacciò alla mente per convincere suo padre. Il povero vecchio capì che la sua generosa figliuola si sacrificava per lui, ma sperò che le ricchezze e l'avvenire splendido la compenserebbero del sacrifizio, e fingendosi persuaso la baciò in fronte.
– Che Dio ti benedica, Jeronima, – le disse, e la lasciò sola.
Era tempo. La poveretta non ne poteva più. Nascose il capo fra i guanciali e pianse. Ma non furono di quelle lagrime abbondanti, di quei singhiozzi violenti e continui che travagliano i petti deboli e sgorgano dagli occhi di chi non sa sopportare sventura; erano grosse e rare lagrime che ella premeva sul guanciale con impazienza, col dolore di non saperle trattenere; era un'amarezza piena di paura; era un terrore vago, incerto, disperato, di altri peggiori disgusti nell'avvenire.
L'animo ribellato di Jeronima, lottava tra due sentimenti diversi; ora si sentiva forte, sicura di sè, pronta a qualsifosse dolore o abnegazione, ora dalla stessa sua fierezza traeva argomento d'invincibile umiliazione e vergogna.
Ben diversi erano in quel giorno i sentimenti di Ermanno. Egli era beato. La rivedeva incessantemente cogli occhi della sua debole mente; la rivedeva ne' suoi particolari, così come l'aveva guardata.
La piccola mano di Jeronima danzò tutta la notte, come fosse una farfalla e avesse l'ali, attorno ai pensieri di Ermanno. In sogno egli sorrideva di quel sorriso ebete della sua infanzia, dimenticato da un pezzo; egli pensava, pensava. Ma poi, a un tratto, s'arrestò in quel suo lieto fantasticare, e arrossì con un sentimento di pudore infantile; gli parve di vedere il dolce viso di sua madre, gli parve di aver fatto qualcosa di male senza saper bene ciò che fosse, e per un pezzo non potè più veder chiaro nel torbido lavorìo della sua mente ottusa, già stanca di tanta e insolita attività. E rassegnato, colla pazienza consueta, attese che gli tornasse il barlume di un'idea o d'un'immagine. Ma non venne; e verso l'alba s'addormentò.
Ermanno e Jeronima erano sposi da sei mesi, quando Gualberto giunse al castello. Egli s'accorse con piacere che lo stato di suo fratello aveva migliorato; ma guardò con diffidenza, quasi con sprezzo, la giovane moglie di esso.
Quale triste cagione poteva spingere una fanciulla non ancora ventenne ad unire la sua sorte a quella di un poveretto cieco d'ingegno come il fratello suo? Per lui che non vedeva cosa più alta della vita intellettuale, che non conosceva altra gioia all'infuori di quella dello spaziare nelle regioni più elevate del pensiero, tal fatto era un'abbiezione incomprensibile. Egli intendeva benissimo che un gran signore, di propria volontà, si facesse mendicante; ma che un essere intelligente si unisse per sempre a far vita comune, si mettesse nella dipendenza di uno scemo per ottenere onori e ricchezze, egli non sapeva in alcun modo comprendere.
Jeronima l'accolse con molta cortesia, con quel suo contegno altero e grazioso ad un tempo che piaceva tanto al conte Ottone, ma in quella cortesia non traspariva alcun desiderio di mettersi in relazioni affettuose o familiari con lui. Ella sembrava indifferente a tutto e a tutti; simile ad un essere che si è ucciso, ma che vivendo ancora la vita di un fantasma, passa fra le cose di questo mondo senza aver più alcun diritto di ritrarne gioia o dolore.
Ermanno l'adorava. Era un'adorazione ingenua, mista di rispetto, di paura, di gioia stolida, di brutalità primitiva.
Il suo idiotismo e la sua ignoranza, unendosi ad un'istintiva gentilezza, moderavano le manifestazioni di quell'amore. Cosa maggiore di un sorriso di Jeronima, non vi era per lui nel mondo; nè ancora n'avea esaurite tutte le grazie, tutti i gentili misteri; poter dire che ella era sua, sembravagli una felicità sì grande, che avrebbe voluto ringraziarne incessantemente lei e gli altri; e avrebbe voluto che le torri del castello e gli alberi del bosco e le acque del lago avessero intendimento per accogliere le espressioni della sua riconoscenza.
Ma il balocco che lo faceva tanto felice, sorrideva di rado, e qualche volta gli era sembrato perfino che avesse pianto. Quel balocco vivente aveva egli fame, freddo; voleva esso fiori, belle vesti, voleva altri trastulli per sè?
Lo scemo l'osservava sempre, e un giorno uscì cheto cheto dal salottino di sua moglie, andò sulla terrazza e vi colse tutti i suoi fiori prediletti. Colse le foglie, svelse perfino le pianticelle e venne a portare questo mazzo che rappresentava le cose che gli erano state più care, l'unica occupazione e cura di molti anni, e li sparse senza parlare sul tappeto ai piedi di Jeronima. Essa lo guardò maravigliata.
– Perchè hai sciupato tutti i tuoi fiori che erano tanto belli e che amavi tanto? – domandò dolcemente.
– Perchè – rispose a stento Ermanno – perchè sono meno belli di te, e perchè amo te più di loro. Sono qui tutti a farti festa e tu devi ridere; voglio che tu rida. Perchè non ridi mai? –
Jeronima sorrise; fu un mestissimo sorriso, ma lo scemo non capì che fosse mesto, e la ringraziò d'aver riso; poi con fanciullesca gentilezza ringraziò i fiori d'averle fatto piacere.
Le povere pianticelle ed i bei tralci fioriti appassivano presto. Lo scemo li guardava con malinconia.
– Sono appassiti tutti, – disse Jeronima, – ora tu non li hai più e te ne dispiacerà.
– Sono morti per farti piacere e devono essere contenti, – rispose Ermanno con una prontezza che maravigliò la sua giovane sposa. – Anch'io morirei per farti piacere, se tu lo volessi. –
Jeronima guardò con dolcezza e pietà il povero scemo, che lasciando favellare il suo amore, non sembrava più tale. Lo guardò più del solito nel mentre che egli, dopo questo breve sfogo, era ricaduto nella sua consueta apatia.
Che ci fosse in lui qualcosa che dormisse ancora?
Che ci fosse un raggio nascosto di luce? – Ma Jeronima s'avvide ben presto che non c'era più nulla; che l'amore di madre aveva frugato e rifrugato in ogni canto di quella mente. S'era ottenuto quanto si poteva ottenere; ora se un lampo fugace e inatteso brillava nell'ombra, era un raggio isolato di amore per lei.
Gualberto s'incontrava di rado con la cognata. Essa usciva di casa ogni mattina per tempo e faceva lunghe passeggiate nelle valli vicine; Ermanno l'accompagnava sempre, e quando il conte non era a caccia o in viaggio, anch'egli le teneva compagnia volentieri e trovava piacere grandissimo a conversare con la nuora. Durante il giorno Gualberto non la vedeva mai; s'incontravano solamente al pranzo, per il quale essa scendeva puntualmente sempre alla medesima ora, vestita con semplicità ed eleganza, con un che di rigido e altero nel contegno che contrastava singolarmente con la sua apparenza giovanile; era cortese con tutti, ed aveva per il conte e la contessa di Ardenberg tratti gentili di rispetto quasi filiale. Dopo il pranzo se ne stava lavorando presso la contessa Beatrice, e allorchè questa si ritirava nella sua camera, ciò che talora avveniva assai per tempo, essa rimaneva conversando col conte, oppure si recava nella biblioteca.
Il conte incominciava ad amare e rispettare la sua nuora; ammirava adesso davvero la generosità e la forza di carattere di Jeronima, e si maravigliava della sua coltura e intelligenza. Ogni volta ch'egli conversava con lei, faceva qualche nuova scoperta nella sua intelligenza o nel suo modo originale di giudicare le cose e le persone. Non era però facile carpire un segreto a quell'animo indipendente, sdegnoso di manifestarsi. Il conte trovava un diletto finora sconosciuto nell'indagare quello spirito ritroso; gli venivano delle curiosità psicologiche, mentre incominciava a provare un affetto quasi paterno per essa. Poteva trattare molti argomenti con lei, che era assai colta, ma che ancor più della coltura aveva perspicacia. Il conte d'Ardenberg trovava un piacere nuovo conversando con Jeronima; gli pareva che stesse più degli altri attenta alle sue parole e che portasse in ogni argomento una parte maggiore di attenzione di quel che non facessero gli amici e colleghi suoi, allorchè discuteva con essi. E il conte aveva ragione. Jeronima prendeva parte al discorso in modo ben diverso degli altri; essa non parlava mai di sè, nè a sè pensava; trattava gli affari altrui, allorchè discorreva delle cose che riguardano la vita comune dell'intelletto, l'operare collettivo delle genti; ella non apparteneva più che per forma alla società, dacchè era stata condannata all'inoperosità, dacchè aveva rinunciato alla sua parte, alla giovinezza, alle speranze dell'avvenire, all'orgoglioso desiderio di entrare nel numero di coloro che vivono di una vera vita del cuore e della mente. L'aveva pur sognato tante volte in altri tempi, ma ora quel sogno era dileguato per sempre!
Essa era troppo altera per lasciar indovinare ad altri quale amarezza aveva in fondo all'animo e far pompa dei suoi dolori; per lei ciò sarebbe stato come presentarsi in abiti sdruciti e malconci dinanzi alla gente. E la giovinetta nascondeva il suo dolore dietro a dei sorrisi cortesi, a delle parole gentili, a una indifferenza apparente, nello stesso modo come rivestiva con cura la sua bella persona, presentandosi al pranzo familiare, quasi non fosse fra i suoi, ma come invece l'attendessero ospiti illustri ed esigenti. Per essa erano tutti estranei in quella casa degli Ardenberg; aveva rinunciato alla famiglia, quando vi entrò. La famiglia, come l'intendeva lei, era un soavissimo ideale di tutte le più nobili manifestazioni, di tutti i più fecondi affetti della vita collettiva, e Jeronima, allorchè sposò uno scemo, sapeva che quell'ideale non avrebbe potuto effettuarlo mai più. Della vita familiare non poteva prendere per sè ormai che i sacrifizi e le abnegazioni, e li prese coraggiosamente; era questo il compenso che doveva agli Ardenberg che le avevano soccorso il padre, e non volle essere in debito con essi di un quattrino; pagava senza riposo con ogni fibra, con ogni pensiero, con ogni speranza, e mentre compiva questo dovere guardava mestamente gli altri a vivere.
E il conte Ottone trovava, che nell'osservare gli altri i quali vivevano in modo tanto differente da quel che poteva vivere lei, e nel giudizio che sopra di essi portava, Jeronima aveva una potenza di raziocinio, un'imparzialità così elevata, che talvolta gli faceva ricordare con raccapriccio, quasi avesse commesso un sacrilegio, che era stato per opera sua che ella era divenuta la moglie di uno scemo.
Ed egli aveva potuto credere, che ella non fosse altro che una piccola vanerella, desiderosa di diventare una gran dama e di portare il suo nome!
Allorquando, durante le lunghe passeggiate che solevano fare assieme, lo coglieva questo pensiero, egli si soffermava incerto, e guardava l'altera giovane che camminava accanto a lui discorrendo sempre con tranquillità, mentre fissava con occhio malinconico il lontano orizzonte, e in que' momenti chiedeva a sè stesso ciò che ella pensasse in cuor suo del povero Ermanno e di tutta la sua famiglia.
Ma quel grande occhio nero e velato non diceva così facilmente i suoi segreti, nè il conte sentì mai più quelle manine di fata tremare fra le sue come l'avevano fatto la prima volta. che la vide.
La forza di volontà di Jeronima sembrava crescere anzichè scemare col tempo.
La sola volta che al conte era stato possibile di strapparle una parola più vivace del consueto, di farle dimenticare la tranquillità abituale, fu quando le consegnò una chiave della sua biblioteca, ch'egli teneva sempre gelosamente chiusa durante le sue assenze, e che gliela diede con preghiera di andarvi sola.
– Ne darò spiegazione io stesso a Ermanno ed a mia moglie; è questo un privilegio che voglio concedere a te sola, perchè tu sola lo saprai apprezzare. –
Jeronima allora lo guardò con tale un'espressione di riconoscenza e con certi occhi tanto lucenti, come non ne aveva visti mai; poi gli stese le mani con un gesto familiare ed insolito, ma pieno di grazia e di spontaneità.
– Oh! la ringrazio mille e mille volte proprio di cuore... –
Il conte la fissò con dolorosa maraviglia e provò un vivo sentimento di pietà. Qual bisogno d'isolamento, di liberarsi, per qualche ora almeno, dalla povera compagnia di suo figlio, di essere sola a gustare nel silenzio il frutto dell'altrui intelligenza, e ritemprarsi sopra una pagina immortale del lungo martirio inflittole da un idiota, rivelavano quelle parole! Fu la prima volta che il conte potè misurare il profondo sconforto che Jeronima gli nascondeva sempre gelosamente. Ne provò una pietà vera, cavalleresca. Sentì vicino a sè uno spirito eletto che moriva di sete e di fame, che non aveva contento nè riposo, e decise di aiutarlo in ogni modo. Era una sventura che poteva capire e che era degna di essere intesa e soccorsa da lui.
Egli prese le mani di Jeronima e si chinò sopra la fronte di lei baciandola paternamente.
– Ho inteso, Jeronima, e ti aiuterò d'ora innanzi in tutti i modi, – disse piano. – Uno spirito come il tuo, non dev'essere entrato nella mia casa per morirvi d'inanizione. Sei mia figlia, – continuò a dire, prendendole la mano e passandola sotto al suo braccio per proseguire la via, – e gli Ardenberg non ebbero mai una figliuola più degna di essere amata, nè più intelligente di te. –
Il conte non soleva parlare facilmente con tanta amorevolezza; anzi si abbandonava volentieri, discorrendo anche cogli amici più cari, ad un'ironia mordace che coloriva ognora il suo discorso.
Jeronima, confusa e commossa dalle insolite parole del conte, stette muta per un pezzo; ma poi, ripensando alla gioia rivelatrice che aveva manifestata al suocero, allorchè egli le aveva fatto quell'offerta, ne fu scontenta, e le parve che fosse questa la prima volta che aveva mancato al suo dovere verso il povero Ermanno.
Il conte mantenne con fermezza la sua promessa. Ermanno si ribellò, quando per molte ore del giorno dovette privarsi della compagnia di Jeronima, ma le severe ammonizioni del conte, che egli temeva, e le persuasioni della madre, lo tranquillarono, ed egli le concesse volentieri questa breve libertà, accorgendosi a poco a poco che essa usciva sempre dalla biblioteca più affabile, più lieta ed amorevole con lui.
Un giorno, mentre Jeronima sedeva accanto ad una finestra della biblioteca che guardava il lago, e con un libro aperto sulle ginocchia se ne stava assorta nello sconforto di mestissimi pensieri, la porta si aprì improvvisamente e il conte entrò accompagnato da Gualberto.
Jeronima fece un movimento per alzarsi. Credeva che padre e figlio avessero a discorrere fra loro di qualche interesse di famiglia, perchè non aveva mai incontrato Gualberto nella biblioteca prima di quel giorno, e si mosse per uscire. Ma il conte con un sorriso pieno di benevolenza le fece cenno di restare.
– Gualberto – disse – è anch'esso ormai un privilegiato come te. È tempo che egli legga quei libri che la prudenza dei suoi educatori gli ha tenuto nascosti finora. Chiamato a vivere fra gli uomini, a guidarli, ad operare per essi, deve conoscere quanto è stato fatto dal progresso umano. E poi – aggiunse il conte con leggiera ironia – la sua fede non può più temere ormai di essere scossa dalla vana parola di un filosofo o di pensatore. Qui – disse avvicinandosi agli scaffali di destra – qui stanno gli scritti di coloro che hanno creduto che la verità fosse un'altra da quella insegnata dalla Chiesa; qui è tracciata la lunga striscia di luce o il velo di nebbia come tu vuoi – aggiunse ancora ironicamente – che attraverso lotte secolari è oggi nel periodo del suo maggiore incremento. Conviene conoscere l'errore per combatterlo, per non avere dinanzi a sè un nemico ignoto, forse più debole di quanto si crede. –
– Hai ragione, – rispose ingenuamente Gualberto. – È un desiderio che ebbi da un pezzo e che provo ora più che mai. L'essere solo qui, con questa grande natura che mi circonda e che mi sembra nuovissima, tanto era il tempo che non la rivedevo, mi stanca, mi turba; c'è come una lotta fra me e lei, e non so qual cosa ci contendiamo. Mi farà bene ritemprarmi invece nelle lotte dell'intelletto e rinvigorire la mia fede combattendo col pensiero l'errore e la falsità. –
Jeronima, obbedendo al cenno del conte, era rimasta alla finestra; si era però sporta da essa come guardasse di fuori, affinchè il conte potesse così parlare più liberamente col figlio; le sembrò pure che l'argomento del discorso fosse tale da rendere imbarazzante pel giovane prete la presenza di un testimone. Ma, nonostante la sua intenzione di discrezione, non le sfuggì una sola parola di quanto dicevano il conte e Gualberto.
Non poteva comprendere qual fosse l'imprudente cagione per la quale si voleva turbare sì presto la fede del giovane e credente sacerdote, e darlo in preda tanto inconsideratamente al dubbio ed alle più crudeli incertezze. Anche il tuono e i detti ironici del conte la maravigliarono. V'era in essi un non so che di maligno, come un riso diabolico nascosto sotto accorte parole.
– Perchè il conte aveva fatto prete suo figlio? – continuava a pensare Jeronima, mentre Gualberto ed il padre conversavano ancora nel fondo della biblioteca. – Perchè ora dopo averlo fatto prete lo porta in questo luogo? –
Il conte poco dopo si avvicinò alla finestra dove stava Jeronima, e con accento ben diverso da quello usato col figlio, le rivolse la parola e le disse che essendosi proposto di andare per tempo alla caccia mattina seguente, avrebbe dovuto lasciarla sola in quella sera, volendo coricarsi subito; le augurò dunque la buona notte e se ne andò.
Gualberto, fermo dinanzi allo scaffale indicatogli da suo padre, guardava tutti quei libri colle belle legature dorate, e sembrava avesse davanti agli occhi una legione di giganti o di mostri che volessero divorarlo. Era colto lì all'improvviso da una paura superstiziosa di quelle parole stampate; egli che aveva letto tanto se ne stava ora incerto dinanzi a queste opere, come fosse un analfabeta che non ha mai veduto una raccolta di libri.
Erano tutti nomi di autori già noti a lui quali nemici della Santa Chiesa, quali audaci ribelli alle sue dottrine, ed egli contemplava ora per la prima volta le opere che portavano il loro nome. Non si sentiva forte in questo momento; gli sembrava che quei libri dovessero portargli via dei cari pensieri, delle dolci speranze, delle credenze ardentemente amate.
Essa lo conosceva poco, e non si erano parlati che di rado. Jeronima aveva avuto subito l'intuizione che il giovane ecclesiastico non aveva simpatia per lei, ed anzi aveva scorto nel suo contegno indizi di poca benevolenza. Pur tuttavia, allorchè Gualberto montò sopra uno sgabello e stava per levare un volume dallo scaffale, Jeronima fece un movimento come per trattenerlo, e disse a mezza voce una parola. Gualberto si voltò rapidamente:
– Ha parlato, contessa Jeronima? – domandò con un certo fare impaziente come se lo noiasse l'essere trattenuto.
Jeronima si pentì ed ebbe quasi vergogna di quel movimento inconsulto.
– Nulla... nulla; – balbettò. – Temeva... che cadesse lo sgabello, – poi, scesi i gradini che mettevano al vano dell'alta finestra, ripose il libro che aveva tenuto sino allora nelle mani, fece un saluto a Gualberto e uscì dalla biblioteca.