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Nei giorni seguenti Jeronima trovò sempre il cognato seduto al posto del conte, leggendo avidamente l'un dopo l'altro i libri che gli erano stati indicati dal padre; talvolta era tanto assorto nella lettura, che non si accorgeva neppure che ella entrava nella biblioteca; non vedeva neppure il saluto e il freddo sorriso che essa gli rivolgeva. Jeronima, ora che la biblioteca non era più tutta sua e del conte, si sarebbe volentieri astenuta dall'andarvi, se avesse potuto isolarsi altrove dalla gravosa presenza del povero scemo, e levarsi altrimenti, per qualche ora, la maschera di un contegno lieto, tranquillo, e amorevole, che certe volte le sembrava intollerabile. Abituata a leggere e studiare, era la biblioteca il solo luogo ove poteva riposare isolandosi. Ivi, senza essere molestata, ritemprava l'animo nello studio e nella lettura.
Gualberto non usciva più di casa; le sere sino ad ora tarda stava leggendo nella biblioteca. Jeronima per non disturbarlo, aveva variato più volte l'ora nella quale v'andava, ma l'aveva sempre trovato, v'andasse la mattina per tempo o tardi la sera.
Essa vedeva crescere con inquietudine ogni giorno nel giovane la smania, l'impazienza di divorare quei libri; egli era divenuto pallido, era indifferente a tutto, e durante il pranzo non parlava quasi mai, nè s'accorgeva degli sguardi lunghi ed ansiosi co' quali la contessa Beatrice lo fissava, quasi volesse interrogarlo.
Passarono molti giorni, ma Gualberto durava sempre in quella fatica febbrile.
Tutta la sua mente, tutti i suoi desiderii, tutti i suoi affetti erano lì, disarmati, colpiti da mane a sera da quei piccoli caratteri neri impressi sulla carta, feroci ed inesorabili nella loro immobilità. Essi gli dilaniavano l'animo senza posa e senza misericordia. Che cosa sarebbe avvenuto alla fine?
Talvolta Gualberto sostava, e lo sguardo suo cadeva allora sopra il viso pallido di Jeronima, che leggeva a poca distanza da lui, immobile, attenta, con un'espressione di severità, alcune volte di dolore, sull'intelligente fisonomia. Ma non sempre ella leggeva; allora egli la vedeva appoggiata alla finestra colla bella persona leggermente curva e coi grandi occhi pensosi, fissi all'orizzonte. A che cosa pensava essa allora?
Nelle sere ancor fredde fra quei monti, sebbene fosse già aprile, la vedeva con una lunga veste di velluto nero che faceva spiccare singolarmente la grazia elegante della sua persona, e là, poggiata a quel parapetto, sembrava il ritratto vivente di una castellana del Medio Evo.
La presenza di Jeronima non dispiaceva a Gualberto; la sua tranquillità imponeva un certo riserbo al suo spirito agitato; egli amava sentirsi vicino in quelle ore d'amarezza e di dubbio un essere vivente capace forse anch'esso di soffrire e di lottare. Un giorno egli si accorse che i libri che leggeva Jeronima erano precisamente quelli del medesimo scaffale dove egli prendeva i suoi; ne fu maravigliato, ma era troppo occupato di sè per osservare lungamente gli altri. La sua poca stima di Jeronima non diminuiva per questo, che anzi ogni fatto che gli rivelava maggiormente l'intelligenza di essa, gli faceva sembrare ancor più spregevole la bassa ambizione che l'aveva spinta per vanità e per avidità di ricchezze a sposare uno scemo.
Un giorno, conversando con suo padre, che gli parlava degli Altinori, gli venne fatto di chiedere in qual modo Jeronima, che sembrava donna colta e intelligente, avesse acconsentito a diventare la moglie d'Ermanno. Il conte alzò leggermente le spalle e guardò Gualberto con un'espressione di sprezzo. – Bisogna esser semplice o prete – disse fra sè – per non capire certe cose; – e poi aggiunse forte:
– Gli Altinori, sebbene di grande e antichissima nobiltà, erano stati colpiti da tante disgrazie, che il barone, padre di tua cognata, sarebbe finito non solo in miseria, ma forse in prigione, se... – Gualberto guardò il conte maravigliato.
– Ebbene?... – domandò il giovane con impazienza.
– Se Jeronima non si fosse sacrificata per lui! Feci intendere a certi amici di casa che la futura moglie di Ermanno avrebbe potuto disporre di un patrimonio, che la metterebbe in grado d'aiutare anche maggiori sventure che non fossero quelle degli Altinori. Lo dissi io stesso a Jeronima, ed essa divenne la moglie d'Ermanno. –
Il giovane non rispose, e il conte lo guardò con un piccolo ghigno. – Non è con quella veste che si fanno certe cose, – pensò fra sè.
Allorchè Gualberto rivide il giorno seguente sua cognata, la salutò, non solo con gentilezza insolita, ma con rispetto così grande, come se ella fosse un essere superiore a lui; Jeronima sulle prime n'ebbe maraviglia, ma poi, dopo breve riflessione, un mesto sorriso le sfiorò le labbra. Essa aveva presso a poco indovinato il vero. Ma che cosa le importava che si credesse l'una cosa o l'altra?
Andò alla finestra, appoggiò la testa alla mano, e guardò più lungamente del solito le onde del lago, che chiare e scintillanti s'infrangevano sotto al parapetto.
Vedeva il contorno mobile dell'ombra delle torri variare col muoversi dell'acqua, e ne' momenti di tranquillità vedeva le alghe del fondo piegarsi e sollevarsi con movimento grazioso e monotono.
Gualberto alzò gli occhi parecchie volte in quella mattina e la guardò con attenzione e riverenza. Vide per la prima volta la rassegnata espressione di dolore che faceva apparire meno severa la sua bella fisionomia, meno altero il suo contegno; vide ne' suoi occhi il raggio di una viva, profonda intelligenza, e simpatizzò con tutto il cuore col dolore di lei. Tornò a leggere, e allora il turbine di tanti e nuovi pensieri, e l'amarezza, le trepidazioni di quella lotta terribile, lo trascinarono lungi dai sentimenti pietosi e dalla gentile riverenza che gl'ispirava Jeronima.
Una grande e orribile tentazione travagliava lo spirito di Gualberto.
Una tentazione irresistibile, diversa assai dalle altre, perchè invece d'apparirgli con promesse attraenti gli rapiva ogni cosa senza una sola guarentigia di compenso. Eppure Gualberto le dava tutto, e talvolta le dava assai più di quanto sapesse di darle. Era uno strazio senza fine e senza misura; erano fibre dell'anima sua strappate ad una ad una e gettate ai quattro venti; era un scroscio d'acqua sulla fiamma viva delle sue più care speranze; era una furia di spegnere ogni cosa, ogni fiammella dimenticata, ogni raggio di luce che illuminava ancora le sue aspirazioni adorate del passato. E poi?
Gualberto sentiva freddo nell'animo, provava terrore di quel buio che s'era fatto intorno a lui per opera propria. E non sapeva più che cosa avrebbe dovuto fare di sè dopo compiuto quel triste lavoro.
Talvolta nelle ore più cattive gli rinasceva una speranza. Il passato si ribellava al presente; la sua fede non era simile ad un castello di carta che cade al primo soffio di vento; il lumicino spento tornava a brillare in certi momenti, e con che gioia Gualberto lo rivedeva! Con qual soave commozione correva incontro col pensiero a quel debole raggio, come vi riscaldava lo spirito intirizzito, come lo accarezzava festosamente! La grande nostalgia che provava per quel mondo ideale e adorato che andava dileguandosi rapidamente, come cosa che non può più riaversi, non aveva che quei brevi e rari momenti di conforto; ma quei conforti un triste dubbio glie li chiedeva inesorabile, e Gualberto coraggiosamente sacrificava anche quelli. Un bel giorno non gli restò più nulla. Gualberto si trovò solo, trasformato; spogliato come un viaggiatore assalito lungo la via dai briganti.
Le aveva sepolte ad una ad una le splendide e venerate imagini della sua fede. Alcune, ritornando ad assumere forme più umili, erano però rimaste vive, erano scese dagli altari e camminavano leggiere e graziose tra la folla. Avevano tuttora per lui un aspetto di cielo; le vedeva mescolarsi alle cose mortali con maraviglia e con dolore; ma sopra gli altari rovesciati non v'era più posto per esse. Erano queste le migliori, erano le possenti per intelletto, quelle forti di amore per gli uomini, quelle che avevano amato e patito sorridendo. Delle altre, fatte grandi dalla credulità e dalla superstizione, non rimase nulla. Gualberto le ricordava con sentimento di umiliazione e di rammarico, perchè esso rimpiangeva, rimpiangeva con amarezza disperata, e ancora non pensava ad altro che al dolore d'aver perduto ogni cosa.
Gualberto non aveva parlato a nessuno dello stato del suo animo. Il conte però aveva preveduto in parte ciò che doveva accadere.
E Jeronima aveva essa pure indovinato tutto.
In quella sera nella quale abbiamo trovato il conte seduto nella sua biblioteca fissando con tanta insistenza Gualberto, sentivasi vicina la catastrofe, ed era prevedibile che il giovane non avrebbe più saputo nascondere in sè la furia de' suoi pensieri.
Il conte fumava sempre tranquillamente. Gualberto appoggiato alla finestra, colla testa stretta fra le mani, guardava nella notte.
A un tratto si volse. S'avviò verso la scintilla di fuoco del sigaro che indicava nell'ombra dove sedeva suo padre, e gli si fermò dinanzi.
– Dunque non è vero? – disse con voce soffocata.
– Di che cosa parli? – domandò con simulata indifferenza il conte.
– Parlo di tutto ciò che ho creduto esser vero sinora, – rispose con voce tremante Gualberto.
– Era molto? – domandò il conte, e chi lo avesse visto avrebbe osservato un sorriso malizioso spuntare all'ombra dei suoi baffi.
– Era tanto – rispose con veemenza il giovane – che se fosse stato oro, nessuno l'avrebbe potuto contare. Non v'ha cosa reale, grandissima, che regga al confronto della più meschina fra quelle che io ho perdute; era un credito illimitato nel mondo ideale....
– Era molto davvero, – disse il conte freddamente. – Sarai diventato esigente a questo modo, – aggiunse con ironia.
– Esigente? – ripetè Gualberto. – Che si chiama esigenza il volere nelle cose dello spirito?
– L'indiscrezione è nociva sempre. Tu sei stato indiscreto nella fede, ora vorresti esserlo nell'incredulità. A questo modo eccederai in tutto, e non avrai mai pace.
– Eccedere – ripetè ancora Gualberto. – Ma in che cosa posso eccedere? quali esigenze può avere chi non possiede più nulla?
– Si esagera anche nell'incredulità, – rispose il conte alzandosi. – Uno spirito riflessivo non si lascia trascinare così facilmente da una cosa all'altra. Tu, – aggiunse, e gli posò familiarmente la mano sulla spalla – attraversi in questo momento una di quelle ore di dubbi e di lotte che hanno già turbato l'animo di tanti intelligenti sacerdoti prima di te.
– Ma il mio non è più dubbio, – rispose con amarezza Gualberto. – Non c'è più lotta, non c'è più incertezza nel caso mio. Che importa a me degli altri sacerdoti? Io getterò questa veste che non posso più difendere! – Gualberto proferì con violenza le ultime parole, e il conte che aveva fatto un passo verso l'uscio si fermò a un tratto e lo guardò severamente.
– Ah! gettare quella veste? Un conte di Ardenberg mancherebbe alla sua promessa! – disse lentamente; – passeggerebbe fra il volgo rappresentando quell'essere neutro e ridicolo che si chiama un prete spretato? metterebbe a nudo le piaghe puerili del suo spirito? farebbe sapere a tutti che sino ai vent'anni credette ciecamente, e non fu mai capace di riflettere da sè solo, di ragionare per conto proprio; e dimostrerà invece che al primo grido di un plebeo rivoluzionario, il grande edifizio che sosteneva l'alta mente di un Ardenberg cadde a un tratto? Vorresti metterti al pari di quegl'impudichi dello spirito, gente moralmente senza tetto e senza asilo, spergiuri ad una promessa, che portano perennemente il segno della debolezza e dell'incertezza nelle proprie azioni, che fanno mostra, come i pezzenti lungo la pubblica via, delle ridicole sofferenze del povero spirito loro? Chi di noi – aggiunse il conte con maggiore dolcezza, allorchè vide la fronte di Gualberto chinarsi avvilita – chi di noi non ha nascosto in sè dubbi, lotte, lunghe e dolorose incertezze? Chi non ha avuto l'orgoglio, il pudore di celarle al volgo gelosamente; chi non è stato riconoscente alla veste, qual si fosse, che lo toglieva a quegli sguardi avidi di scandalo? – Gualberto fece una mossa di dolore.
– La mia vita sarà dunque una simulazione continua? – disse piano, quasi parlasse fra sè.
– Sarà simile a quella di molti altri. Vedrai col tempo che la vita non è un perenne sorriso; che si celano sotto ad apparenze di tranquillità, dolori, umiliazioni, rancori profondi, – aggiunse il conte con forza ed amarezza. – Tu ancora non lo sai, e non sai qual fatica è il nasconderli al volgo che ride. Poichè la gente ride del dolore altrui. Ti figuri ciò che pensano di un sacerdote che rinnega apertamente la sua fede? Credi tu che intendano le lotte dello spirito, la coscienza elevata che lo domina? Povero ragazzo credulo ancora delle cose di questo mondo, e che neghi Iddio. Essi non intendono nulla di ciò che è grande e intelligente, e in codesto fatto non vedrebbero che l'impulso d'istinti triviali, di desideri volgari e brutali, d'abbiette passioni che chiedono sfogo.
Gualberto rialzò alteramente a queste parole la sua fronte pura, che nella sua bellezza e giovinezza aveva un che di verginale e d'incontaminato.
– E chi chiede alla folla stupida ciò che pensa di noi? – domandò.
Il conte notò con piacere la mossa altera di Gualberto, e sorrise delle sue orgogliose parole.
– Essa lo dice non richiesta. Ne parla ai quattro venti; lo grida da migliaia di bocche. – Il conte si avviò verso l'uscio. Aveva detto tutto, ed era impaziente d'uscire di lì; temeva che Gualberto facesse qualche altra interrogazione, cui fosse più difficile il rispondere. – Calmati – aggiunse – e rifletti alle mie parole. Vedrai che sono giuste. – E dicendo questo, il conte uscì dalla biblioteca senza attendere la risposta di suo figlio.
Gualberto rimase immobile al posto dove aveva parlato con suo padre. Gli sembrava che la veste che indossava lo serrasse come se fosse di ferro, gli pareva di soffocarvi, d'avere assunto erroneamente la forma di un altro, di dover vivere di una vita doppia, della quale l'una sarebbe la sua, l'altra quella di un essere che egli spregiava.
Le parole di suo padre suonavano e risuonavano nelle sue orecchie; in lui l'artista entusiasta, sincero, ingenuo, si ribellava, mentre l'altero discendente degli Ardenberg accoglieva quelle parole con riverenza, perchè gli apparivano giuste.
Gualberto sentiva le pulsazioni alle sue tempie farsi sempre più rapide e rimbombare nel suo capo come colpi di martello.
In quel punto lo scosse il rumore di un passo e il fruscio di una veste accanto a lui. Si volse e vide Jeronima.
– Ah! è lei! – disse Gualberto, come chi si sveglia dal sonno. – Era qui da un pezzo?
– Sì, – rispose dolcemente Jeronima.
– Ed ha sentito tutto? – domandò Gualberto con impazienza.
– Non tutto. Ma ciò che non sentii lo so, lo sapevo da un pezzo, – disse Jeronima.
– Chi glielo disse? – domandò maravigliato, ma con maggior dolcezza Gualberto.
– L'ho indovinato! – rispose ella tranquillamente.
– Ah! – disse Gualberto guardandola, e fissando con incertezza quel viso severo e soave ad un tempo. – Lei aveva indovinato tutto e a me non disse nulla?
– Era inutile, – rispose Jeronima, – sapevo che un giorno avrebbe dovuto parlare di ciò che io indovinavo, e aspettai... mi figuravo che io forse quelle parole non le avrei sentite, nè che sarebbe toccato a me rispondervi. Pensai che altri avrebbe saputo farlo...
– E le pare – soggiunse Gualberto con amarezza – che le risposte che m'ebbi ora debbano bastare?
– No, non bastano! – rispose Jeronima con sicurezza.
– Ah! mio padre ebbe dunque torto? – disse vivamente Gualberto.
– Sì, – rispose laconicamente Jeronima, e i suoi grandi occhi si fissarono pieni d'intelligente pietà su Gualberto. – Il conte ha detto delle cose giuste, ma non ha risposto a ciò che ella chiedeva.
– Mio padre non ha capito, – disse Gualberto.
– Il conte non ha voluto rispondere: ha creduto di trattare una quistione di forma e le ha parlato senza pensare alla gravità delle cose provate da lei; forse questo è un dolore che non intende... –
Gualberto pendeva dalle labbra di Jeronima, che parlava con dolcezza, ma quasi sottovoce, così che il suono melodioso delle sue parole sembrava dileguare fra le ombre della vasta biblioteca.
– Che cos'è la perdita di un essere vivente in confronto di quella di un Dio sparito per sempre, – rispose Gualberto, – di un pensiero immortale che m'aveva invaso lo spirito ed ora lo ha lasciato deserto? Che cosa mi daranno quei libri di scienza e di filosofia, che cosa mi darete voi, gente intelligente e buona di questo mondo, in compenso di quanto ho perduto? – Gualberto fissò Jeronima con impazienza quasi volesse scuoterla dalla consueta tranquillità. Essa non rispose subito; i loro sguardi s'incontrarono, e quelli di Jeronima si abbassarono dolcemente dinanzi a quelli di lui. Gualberto si avvicinò ad essa e affranto di stanchezza si lasciò andare su di un seggiolone ad intagli che le stava accanto; poi, rialzando la bella testa bionda e la fisonomia giovanile turbata e commossa, le disse ancora:
– Che cosa hanno gli altri che valga questo che aveva io? Possiedono essi nella realtà ciò che aveva nello spirito? Hanno ambizioni, desideri di potere, di gloria, hanno famiglie, figli che amano, donne che si lasciano amare; ma che cosa è tuttociò in confronto di quello che aveva io? – Gualberto chinò il capo e stette lungamente pensoso; poi, guardando di nuovo Jeronima, le disse:
– Quelle gioie, Jeronima, lo sa come sono? –
Essa lo guardò maravigliata.
– Le gioie della vita, le gioie di coloro che chiedono alla terra ciò che io cercavo lassù in un mondo che per me non esiste più? – rispose Gualberto; ma presto si pentì della sua interrogazione perchè vide le labbra di Jeronima tremare leggermente e il suo volto farsi mesto mesto.
– Quelle gioie io non le conobbi e non le conoscerò mai. –
Tutta la vita di Jeronima si compendiava in queste parole.
Gualberto le prese una mano con rispetto e si chinò per baciarla; dopo quella risposta gli parve che essa gli stesse assai più vicina di prima, come se vi fosse fra di loro un legame più intimo, un dovere di aiutarsi e sorreggersi a vicenda.
– Mi perdoni, – disse Gualberto dolcemente. – Ora ho inteso tutto, ma ora anche ardirò aprirle più francamente l'animo mio; i poveri non si vergognano fra loro. – A queste parole Gualberto sentì le dita sottili di Jeronima che stringevano la sua mano, e vide un sorriso pieno di grazia e mestizia che illuminò tutto il suo viso.
Egli provò una sensazione nuova, forte, ignota, che gl'ispirò compassione, simpatia, riverenza per questo essere che soffriva da tanto tempo sempre muto e dignitoso.
– Ma come ha vissuto sino ad oggi? Di che? – gli domandò quasi sottovoce come sperasse attenuare così la sua indiscrezione. Con gentile semplicità Jeronima gli rispose senza esitare:
– Quasi di nulla o di così poco, che ogni giorno credevo morire di sete o di fame.
– Oh se potessi!... – rispose con forza Gualberto, ma poi lasciò a mezzo quello che voleva dire, perchè si ricordò che era povero e che non aveva nulla a darle.
– E quel poco che cos'era? – domandò ancora.
– Era orgoglio? era tenacità? lo chiami come vuole. Vivevo per pagare un debito, per compiere un dovere, – rispose.
– E non sperava? – continuò a chiedere Gualberto mosso a pietà di lei e ansioso di trovare forse una parola che riconfortasse anche lui.
– Speravo, – disse dopo breve riflessione, – allorquando non pensavo più; e in quelle ore di stanchezza saliva dal fondo del mio animo una gioia vaga e indistinta, una cosa lieta che rassomigliava ad un sorriso; cosa senza forma, senza nome, che conobbi in altri tempi, che mi faceva allora mille promesse e mi narrava mille dolcissime fiabe; era quella la speranza; ora, per abitudine, talvolta ritorna, ma adesso è muta e non ha più nulla a dirmi. Ma perchè – disse con grazia – perchè parliamo di me e non di lei, Gualberto?
– Perchè l'esempio della sua forza e della sua tranquillità mi fa bene, perchè io mi riposo pensando per un momento a lei, Jeronima, e non a me. Oh io! – esclamò. – Io che ero così felice e orgoglioso, che credevo d'aver messo la mano sulle più alte cose, che mi credevo capace dei più grandi sacrifizi, che mi credevo tanto lontano da tutto il volgo che non vestiva quest'abito come me, quasi fossi io solo in un mondo di eletti, ed ora mi ritrovo inferiore a tutti coloro che hanno saputo scegliere una via modesta e vera, non falsa e illusoria come la mia.
– Falsa? – ripetè Jeronima. – Quale è la vera per poter dire che questa è falsa?
– Lei crede?... – domandò maravigliato Gualberto – crede che la via che scelsi fosse buona?
Jeronima non rispose subito, e Gualberto disse ancora: – Vestirebbe quest'abito?
– No, – rispose prontamente Jeronima – Ma se fossi prete non lo svestirei. Sopporterei con dignità le conseguenze del mio errore, nè crederei per questo di rappresentare cosa falsa.
– È cattolica? – chiese incerto e maravigliato Gualberto.
– Credo che nella religione cattolica vi sia tanta verità quanto nelle altre. Le religioni sono forme, che variano secondo i costumi, l'indole, le condizioni dei popoli; talvolta la forma è rozza, bizzarra, triviale, talvolta è un capolavoro d'arte, fatto con tanta sapienza, con tanta squisitezza di gusto, sì perfetto in tutte le sue parti, che le genti lo credettero plasmato miracolosamente sul vero e l'adorarono senza contrasto e senza mutamenti. Quello che sta dietro a quella forma lo chiami come vuole, dica Dio, dica mistero; si fermi alla cellula o cerchi ancora più in là fra le forze nascoste della natura, si lasci guidare dalle incessanti aspirazioni dei più vigorosi intelletti o vada a tastoni fra i sentimenti più nobili dell'umanità e ne ricerchi le cagioni, poco importa; ma ardirebbe affermare che tuttociò che hanno rivestito quelle forme secolari fu sempre errore? Se potessimo qui, quasi fossimo dinanzi ad una vasta guardaroba da teatro, togliere da essa ad una ad una le vesti lacere e scolorite di tutte le divinità del mondo, allorchè comparvero su questa scena a soccorrere o intimidire i popoli della terra, quale fra le peggiori potremmo però dire che vestisse cosa che fosse veramente falsa? Di qual fede rozza e triviale non riuscirebbe però trovare la cagione sottile e recondita che l'affratella alle più alte? Le dico soltanto ciò che penso io, e forse questi miei pensieri non hanno per lei valore alcuno, – soggiunse quasi umilmente Jeronima; – ma in quest'ultimi tempi pensai anch'io lungamente intorno a quest'arduo problema, sperai trovare nella religione, in una forma precisa e compiuta di essa, un conforto e uno scopo alla mia vita, e quale fu il risultato delle mie ricerche? Trovai argomento a riflettere, non a sperare; trovai che non è fuori delle cose che agitano e commuovono le genti di questo mondo, che non è fuori della realtà e della vita vera che deve estendersi la nostra attività.
– Seguendo le sue opinioni sarei dunque condannato all'inerzia? – ribattè vivamente Gualberto.
– No. Soltanto ella è chiamata ad operare laddove non è spinta a farlo spontaneamente dalla propria volontà o dalla propria fede. Crede per questo di non poter fare più nulla? Crede che sia più utile una macchina a vapore o qualsiasi nuovo ritrovato della scienza di quanto può operar lei per sradicare pregiudizi, per avviare uomini acciecati o idioti sulla strada del progresso, per far camminare di pari passo la religione con la civiltà?
– E quando la gente operosa del secolo che costruisce navi, che fa strade ferrate, che accresce in ogni modo l'attività e il progresso, ci rimanderà, noi parassiti inerti, alle nostre case o al posto ove avremmo dovuto operare davvero, allora la società avrà essa torto o ragione? – disse quasi con impazienza Gualberto.
– Se lo farà avrà torto. Ma non può farlo. Se vi sarà un tempo d'assoluta universale incredulità, quanta superstizione, quanta credulità feroce e stupida lo seguirà! Forse m'inganno e parlo di cose che non saranno vere. Ma a me sembra che non vi sia ufficio più utile e difficile insieme, che quello di sapere indovinare i bisogni del tempo in cui si vive e pareggiare le tendenze degli uni e le esagerazioni invecchiate degl'altri! – Jeronima tacque e lo guardò quasi vergognosa d'aver detto tanto.
Gualberto chinò la testa e non rispose. Passavano davanti alla sua mente mille e mille immagini del passato, evocate dalla parola dolce e melodiosa di Jeronima.
Gli sembrava di avere vicino a sè una di quelle grandi, caste, coraggiose patrizie romane che affrontavano la solitudine e gli orrori del deserto, animate dall'amore di Dio, confortate da costanti e profonde amicizie coi primi pensatori della Chiesa. Vedeva le gare, le lotte, gli eroismi di quei martiri dei primi tempi del Cristianesimo, e fra i pedanti, gli ambiziosi, gl'ingrati d'allora, sorgevano leggiadre e soavi figure di donne ispirate dai più nobili ed alti sentimenti del cuore. E di nuovo pensava a Jeronima.
Ricordava la lunga agonia di quegli Dei della Grecia che avevano popolato di tempii le più belle contrade d'Europa, che avevano protetto tutte le gioie, tutti i dolori dell'umanità, che vi avevano partecipato con pianti e sorrisi. Ricordava con insistenza quel momento di transizione, quell'epoca di lotte, di paure e di superstizione, durante la quale fra i terrori degli uni e l'indifferenza degli altri, moriva una religione e ne nasceva un'altra. Jeronima aveva detto il vero. Di quelle religioni perdute s'era perduta ogni cosa? Gualberto appoggiò il capo fra le mani, mise i gomiti sulla tavola e guardò fisso fisso dinanzi a sè. Risaliva colla mente all'epoche religiose più lontane, da Buddha a Confucio, da quelli alle forme più rozze e primitive del concetto religioso; cercava un nesso, gli sembrò che tutta quella storia delle religioni fosse come una matassa arruffata, ma che il filo non interrotto si ritrovasse sempre sebbene nascosto e contorto. Poi ricordò che forse tutto il quadro di una storia religiosa poteva rifarsi vivente al giorno d'oggi fra le diverse nazioni civili, scendendo giù sino a quelle che non lo sono una forma religiosa rudimentale e quelle ancora che non ne hanno punta. Correva col pensiero dal passato al presente. A momenti gli tornava alla mente il detto di un padre della Chiesa o di qualche teologo famoso, di quelli che egli aveva maggiormente ammirati negli anni scorsi; ora ripensava le parole del Vangelo e accanto a quelle vedeva una pagina di storia, severa, irrepugnabile, oppure un giudicato della scienza, e sorrideva fra sè con amarezza, con ironia, con disperazione. Oh quanta parte di sè aveagli preso la sua fede e quanto portava seco dileguandosi!
Gualberto si alzò, andò al posto ove era stato seduto nelle prime ore di quella sera, e prese il libro che aveva letto.
– Jeronima, – disse dandole il libro. – Questo lo conosce? È La vecchia e la nuova fede dello Strauss.
– Sì, – rispose Jeronima. – È la religione del progresso. Ha già degli eletti, dei martiri; spera nell'avvenire dei semidei e tornerà ad incontrare per via le più vecchie credenze della vecchia fede. Le respingerà o le riprenderà per sè? Secondo, se le incontra in un'ora di sconforto o in un'ora di piena e vigorosa vitalità. La vita collettiva degli uomini deve avere ore tristi e deboli come quella dei singoli individui; come sapere in quale momento avverrà l'incontro? Quale maggiore bisogno travaglierà allora lo spirito umano? Avrà bisogno di pace, di amore, di fede? –
Gualberto guardava con riverenza e simpatia la gentile e severa consolatrice che gli parlava così. Il volto di Jeronima si era illuminato con un raggio vivo d'intelligenza, i suoi più intimi pensieri sembravano trasparire dalla sua mobile fisonomia fattasi in questo momento straordinariamente bella.
– Lei parla dell'avvenire, – disse Gualberto dopo un breve silenzio. – Ma adesso per noi, per me, che cosa resta?
– Rimane la vita vera, rimangono tutte le fasi della vita d'oggi, non di lei soltanto, ma di tutti; le rimane il cómpito di studiare l'ora presente e di farla fruttare per quella che verrà, – rispose vivamente Jeronima.
– E come fare? – domandò ancora Gualberto.
– Lo chiede a me? Amare gli uomini e non le immagini della propria fantasia; dare loro senza orgoglio ciò di che hanno bisogno anche se un'altera convinzione sembra opporvisi; accettare un fatto mediocre che ci avvia a far meglio senza preferire l'isolamento ad una perfezione che non si può raggiungere.
– Simulare?... – disse piano Gualberto.
– È una parola elastica la sua, che nasconde le paure e le debolezze di coloro, a' quali è più facile essere sinceri, che essere utili e grandi. Vi sono menzogne sublimi, che i caratteri mediocri sono incapaci di sostenere. Alcuni atti di sincerità non sono talvolta che la manifestazione volgare e istintiva di un bisogno del momento; sono gridi nella folla, necessari anch'essi, ma che rappresentano nel mondo il cómpito più facile. Tutti gli atti che nascono da una riflessione dovrebbero in questo caso chiamarsi simulazione perchè furon modificati, misurati, spogliati della primitiva sincerità. Più si pensa e più si altera la spontaneità primitiva del pensiero; ma che per questo si inganna? E se ella adatterà i suoi pensieri ed i suoi atti ad uno scopo alto e grande, se darà un nome a cosa che per lei n'ha un altro, che avrà perciò mutato, simulato il suo pensiero? Se darà una forma a ciò che per lei è grande e non ha misura, e rivestirà quell'idea in modo diverso, ma rassomigliante, perchè il volgo la intenda e la accetti, che ingannerà? E se ella si sente umiliato, imbarazzato dalla superstizione che le regna d'intorno, e trova il suo posto pieno di difficoltà, non è forse per questo ancora più grande l'ufficio suo, non sono forse così maggiori i mezzi, di cui dispone nella lotta pel miglioramento dell'uomo?
– È una triste ora questa in cui vivo. Le sue parole mi sorreggono, mi aiutano, Jeronima: sono grandi, buone. Ma quando mi riafferra l'orribile realtà, dispero e chiedo e ripudio a un tempo ciò che ho perduto, – rispose agitato e commosso Gualberto. – Io n'ho bisogno di quello che ho perduto, ho bisogno di un equivalente, d'una larva almeno che gli rassomigli; quell'ufficio severo non lo potrò adempire senza un pensiero, un affetto che mi animi. Ho ancora bisogno d'adorare, ho ancora bisogno di sollevare tutto l'animo mio a speranze ardenti, dileguate per sempre. La mattina quando mi desto ho bisogno di pregare, alla sera quando mi corico vorrei prostrarmi e adorare; la natura, così bella, ora che è deserta da Dio mi dispera. Oh Jeronima, – disse coprendosi il volto, – è una viltà la mia, lo sento, lo so, e mi vergogno di lei e di me stesso nel confessarlo. –
Jeronima non rispose. I suoi grandi occhi erano umidi di pianto, e lo guardava senza proferire parola. Chinò il capo senza parlare. In quel momento una lagrima sua cadde sulla mano di Gualberto.
Essa piangeva per lui, piangeva la più nobile ed elevata cosa che siasi adorata e perduta, una religione. Per questi dolori l'altera Jeronima aveva una lagrima, e quella lagrima la dava a lui.
Un sentimento confuso lo agitava; nasceva in lui una sensazione nuova, vivace, ardente, dissimile da tutte quelle che rimpiangeva in quell'ora.
Egli si sentiva più vicino alle cose reali via via che s'allontanava da quelle immagini celesti che erano state sino adesso le sue compagne.. Il suo pensiero si avvicinava agli uomini, si mescolava ad una folla a lui sino allora sconosciuta, che sentiva piangere, che sentiva amare, soffrire.
Era l'avvilimento e la prostrazione del suo spirito che lo ricacciava fra quella? Era un sentimento benefico della realtà che lo guidava attraverso il labirinto degli affetti terreni?
La sua mente, abituata ad alimentarsi di fatti soprannaturali, ad interpretare in un modo astratto ed imaginoso quelli della vita reale, accolse la lagrima di Jeronima come fosse il suggello di un nuovo patto che egli stringeva con le cose della terra; era il simbolo d'addio a quelle altissime, adorate, delle quali in nessun modo avrebbe mai potuto essere compensato; era il primo vincolo che lo riuniva alla vita comune di tutti, che lo stringeva agli uomini per partecipare alle loro sofferenze e alle loro speranze.
Gualberto rialzò il capo e guardò Jeronima. Quel viso di lei, bello e intelligente, severo e addolorato, gli sembrò l'immagine dell'umanità ideale che lavora, pensa, soffre.
Gli parve, dopo aver perduto tanto, che non gli rimanesse altro fuorchè lei. Confuse nella sua mente un sentimento sconosciuto, indefinito, che gl'invadeva il cuore, con un pensiero gagliardo che spuntava dalle rovine del passato; sentì l'impeto di una corrente nuova che lo portava altrove, e la vita gli parve a un tratto più bella, la natura intera più grande, più degna d'essere amata.
In confronto alla splendidezza di quanto aveva perduto, erano queste larve sbiadite e meschine; ma nel suo cuore deserto spuntava finalmente la luce fioca e lontana di una speranza.
Il vecchio pendolo della biblioteca segnava con un battito lento e regolare il corso del tempo; la lampada illuminava solamente una parte della gran tavola di legno, il seggiolone ad intagli ove sedeva Gualberto quando leggeva, e un tratto di pavimento in mosaico nero, che ben si addiceva alla mobilia oscura della sala. Più in là tutto giaceva nell'ombra, e solo dalla finestra aperta entrava il fioco chiarore di una sera stellata. La brezza notturna fresca e leggiera muoveva di quando in quando le tende e le portiere. Il lago era tranquillo, e dal posto ove stavano Gualberto e Jeronima se ne vedeva la superficie chiara e unita che giaceva immobile come fosse un cristallo. La luce della lampada illuminava a mezzo le due figure di essi, e passando sulla bionda testa di Gualberto, che egli nascondeva in parte fra le mani, si posava sulla veste di velluto nero di Jeronima. Il viso di lui in quella mezza luce appariva bianchissimo, delicato, quasi non appartenesse ad un essere vivente.
Tacevano entrambi. Il pendolo continuava il suo corso monotono, la brezza della sera diventava più fredda via via che il tempo passava e che s'inoltrava la notte, le tende si muovevano come fossero agitate da mani ignote o che celassero fra le loro pieghe demonietti irrequieti; nessun passo, nessuna voce turbava la quiete di quel luogo, mentre quei due, silenziosi, l'uno accanto all'altro, cercavano di calmare il turbine dei propri pensieri. Pareva che quelle lunghe file di legature dorate, brillando qua e là nell'oscurità, fossero occhi avidi e intenti di vedere ciò che essi pensavano o facevano; pareva che in quel silenzio ci fosse un non so che di vivo, di commosso, d'indiscreto che tacitamente spiasse quei dubbi e quelle lotte.
Chiuse negli scaffali, messe in ordine con intelligenza ed esattezza, stavano raccolte in questa biblioteca tutte le opere più insigni dell'intelletto umano; e rinchiusi con quelle opere fra queste vecchie mura feudali, fra le alte speranze e amare derisioni stampate in quei libri, fra le poetiche leggende del volgo e la grande e severa natura che li circondava, questi due, giovani e derelitti, condannati entrambi alle sole austere gioie dello spirito, stavano frugando e rifrugando audacemente nell'intimo pensiero per trovarvi una speranza, una verità.
Al pendolo suonò la mezzanotte.
Jeronima fece un movimento di maraviglia.
– Debbo andare, – disse piano quasi parlasse ad una persona che dorme o che soffre.
– Mi lascia solo? – rispose Gualberto come si destasse allora.
– Domani ci rivedremo, – replicò Jeronima; – spero che le mie parole di stasera non l'avranno offesa? Forse nel dir ciò che pensavo potè sembrare che io volessi dare dei consigli che certamente non sarei mai in grado d'offrire...
– Mi promette, Jeronima, di dirmi sempre come stasera quello che pensa? – disse Gualberto vivamente, fissandola in atto di preghiera. – Le sue parole mi hanno fatto tanto bene, mi hanno tranquillato, mi hanno ridato la forza di pensare e cercare. Sono indiscreto, ma ho bisogno di lei.
– Ci aiuteremo a vicenda, – disse Jeronima con ingenua franchezza. – A domani. – E volle accomiatarsi da lui.
Ma Gualberto la fissava con tanto affetto, con tanta riconoscenza nello sguardo, che Jeronima ne maravigliò.
– A che cosa pensa di nuovo? – domandò.
– Non lo so, – rispose con semplicità Gualberto. – rimango solo e le vecchie idee ritornano. Potessi pregare... adorare... è un'abitudine del mio spirito, forse una manìa... Ella è stata così buona per me, mi ha confortato con parole altissime, piene di affetto e di carità: mi pare sì poca cosa dirle grazie, dirle domani; e vorrei che ella fosse una grande e venerata figura religiosa per poterla adorare... – Jeronima sorrise.
– Quanta fede ancora in questo incredulo, – disse sorridendo. Non accetto, Gualberto, la parte di una divinità di secondo grado, – aggiunse quasi scherzando, – preferisco esserle sorella ed amica come già sono.
Gualberto la guardava. Non badava alle sue parole. Quel suo sorriso, quel fare scherzevole che scorgeva in lei per la prima volta, le mosse piene di grazia della sua elegante persona gli sembrava averle già vedute o sognate; gli pareva averla incontrata altre volte, averle già parlato. Quando?
Che cos'erano quelle memorie che l'assalivano? Che cosa aveva questa creatura che ispirava riverenza; quale incanto la faceva diventare d'ora in ora più idealmente bella a' suoi occhi? Che v'era in quella voce che gli ricordava delle melodie dimenticate, come se un tempo egli le avesse udite insieme? Perchè a un tratto, mentre essa parlava, vedeva qualche bella scena della natura, qualche luogo aspro e selvaggio dei suoi monti, ove non era mai stato con lei, e associava così, inscientemente, tanti pensieri a quello di questa donna?
La mezzanotte ribattè alla chiesa di Ardenberg.
– Debbo andare, – tornò a dire Jeronima, e fece una mossa per allontanarsi. Ma Gualberto stava sempre immobile, assorto dai suoi pensieri. – A che cosa pensa? – diss'ella allora.
– Pensavo in questo momento al bosco degli abeti accanto al piccolo torrente, e come il sole, passando fra il fitto degli alberi, fa scintillare le acque spumanti...
– Davvero! – rispose Jeronima maravigliata. – Mentre suonava la campana, non so perchè mi son ricordata anch'io di quel luogo. – Poi gli stese la mano e con una stretta amichevole e affettuosa, disse: – A domani, buona notte. – E sparve svelta e leggiera nell'ombra, lasciando solo Gualberto.