Emilia Ferretti Viola (alias Emma)
La leggenda di Valfreda
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X.

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X.

Jeronima non potè mantenere la sua promessa. Suo marito ammalò, ed essa era troppo occupata nell'assisterlo, per poter dedicare il suo tempo ad altri. Gualberto l'attese dunque invano il giorno dopo e i seguenti. Jeronima non si tratteneva più dopo il pranzo con la suocera, scendeva nella biblioteca. Gualberto era impaziente di poterla incontrare; le parole che essa gli aveva rivolte in quella sera gli avevano fatto bene, ma l'effetto di esse diminuiva non rivedendola. Nell'animo agitato si confondevano ignoti sentimenti, cui egli non sapeva ancora dare un nome. Parevagli che al suo sconforto fosse unico sollievo la dolce e pietosa parola di Jeronima. Non potendola vedere gli sembrava aver perduto anche la sola speranza che risorgeva in lui.

Non leggeva più. Pensava, pensava con febbrile rapidità. Non poteva più stare chiuso nella biblioteca, trattenersi nella sua camera. Aveva bisogno di essere fuori all'aperto, solo con la grande natura che lo circondava. Aveva finito di lottare cogli altri e discutere i pensieri e le riflessioni altrui nella quistione cocente che lo agitava. Era sazio di letture e di tutte quelle dottrine differenti fra loro e che si contraddicevano le une coll'altre, mentre tutte pure si univano per distruggere le sue. Compiuta l'opera di distruzione, esso non aveva più nulla a fare coi distruttori. Entrava nel secondo periodo; in quello, in cui lo spirito nostro si ritrova solo fra le rovine del passato ed ha bisogno di raccogliersi per riavere tutto il vigore e la fecondità di cui è capace. In questo momento di vita intellettuale, la parola stampata non serve più a nulla e non suscita più altro che un senso di disgusto e di sazietà; le cose fatte e pensate dagli altri pèrdono valore, e lo spirito, ripiegandosi sopra stesso, ha bisogno di vivere per forza propria. Allora la natura riprende il suo ascendente sull'animo nostro, allora ricomincia a farsi in noi l'operazione del grande e incessante lavorìo della materia che si trasforma per vivere e vive per trasformarsi; allora un albero, un fiore, una landa ricoperta di erbe ti raffigurano quanto non saprebbe esprimere un volume di astrazioni filosofiche, e si afferra un momento di vita come una rivelazione.

È un periodo lungo, difficile, funesto agli spiriti deboli, durante il quale una forma dello spirito nostro muore e ne nasce un'altra; momento, nel quale tutti gl'istinti si fanno più vivi, nel quale da ogni sentimento nasce un'idea. E Gualberto provava sentimenti nuovi, ignoti, e li annoverava fra le vecchie cose che perdeva, non sapendo che erano gli embrioni di tutte le sue idee dell'avvenire.

Un bel mattino di maggio egli uscì per tempo dal castello e s'inoltrò nella valle. Era un giorno fresco e chiaro, gli uccelli cantavano sugli alberi, il sentiero che egli seguiva era sparso d'erbe montanine fresche e olezzanti, da ogni fenditura delle roccie spuntava un fiore, e ogni cosa si animava di una vita nuova. Gualberto camminava lento e pensoso per quel sentiero; era pallido e abbattuto, e guardava fisso fisso la sua ombra che si allungava dinanzi a lui. Talora quell'ombra si stendeva sopra un tappeto variopinto di pervinche, di margherite, di mammole, talvolta cadeva sopra la bianca e nuda roccia nella quale era scavato l'alpestre sentiero, e vi si disegnava con singolare chiarezza.

Gualberto aveva passata una notte insonne; era stanco e avvilito per le lunghe lotte dei giorni scorsi e guardava ora con amarezza e dolore quell'ombra di prete che si posava sull'erbe fiorite; gli sembrava che quella forma apparisse a insultare lo splendore lieto di quel mattino, parevagli d'essere simile ad un uccello notturno che esce dal suo nascondiglio per ispiegare le negre ali alla chiara luce del sole.

Quell'ombra sembrava frammettersi continuamente tra la natura e lui per contenderlo a quella bellezza primaverile che lo chiamava a con mille voci, con mille armonie; si sentiva l'animo chiuso, quasi l'avessero messo a forza in una prigione angusta, soffocante, mentre di lo spirito suo chiedeva ad ogni istante a quelle stesse cose che lo chiamavano, che lo aiutassero e lo liberassero; e si dibatteva contro quella veste di ferro che non era più forma alla nuova essere suo.

Pensava a certe favolose istorie di vendicative divinità, che avevano imposto ai disertori dalla loro religione mostruosi castighi; ricordava le orribili torture che erano state inflitte nel Medio Evo a certi infelici, condannati a vivere nell'isolamento di una angusta cella, entro la quale non potevano coricarsi, star ritti, riposare in verun modo. Lo spirito suo rassomigliava al corpo di quei condannati; dentro a quel prete, la cui ombra egli vedeva dinanzi a , esso non poteva più vivere.

La vita ideale si era spenta, la vita vera era lontana, tanto lontana che non gli sembrava possibile di poterla mai afferrare.

Non pensava più alle dolci parole di Jeronima, ai sarcasmi di suo padre, all'amorevolezza costante e mesta di sua madre; non rammentava più l'altero castello paterno, la vasta biblioteca, le sale spaziose popolate di ritratti degli avi; gli sembrava di uscire ora per la prima volta da quell'ambiente aristocratico, e che la natura rigogliosa e la vita reale lo chiamassero a con insistenza; camminava con passo affrettato su per quell'erta che metteva a delle capanne isolate di pastori. La sua stanchezza diminuiva via via che camminava; era agitato, impaziente, quasi andasse incontro a un che d'ignoto che gli dovesse apparire. Non era una speranza questa che sentiva in , era un acre, violento desiderio che cresceva col moto, che sembrava alimentarsi col calore del sole, con la fragranza dei fiori e dell'erbe montane. Talvolta pensava a Jeronima, ma a Jeronima soltanto, non alle cose dette da lei; la rivedeva e la vestiva con tutti i raggianti colori di quella mattina; incominciava per lui una di quelle ore di entusiasmo che gli avevano in altri tempi illuminata la via della fede e che ora lo trascinavano pei cocenti e intricati sentieri delle cose terrene. Ma poi, ad ogni svolta della via rivedeva la propria ombra, e allora Gualberto la fissava sbalordito; si arrestava, pensava, poi ricominciava con più ardore la salita.

Quel sentiero lo condusse finalmente quasi alla cima del monte, in mezzo a una vasta prateria, ove pasceva una mandra.

A destra era una modesta capanna accanto a un gruppo di abeti, e dietro sorgevano le vette scarne e bianche d'altre montagne; e giù giù, lontano, si stendevano altri prati, sorgevano altri monti, leggermente velati da una nebbia azzurra. L'aria sottile di lassù era trasparente e fredda; regnava un grande silenzio, tutto aveva apparenza solenne; la vita comune degli uomini sembrava esservi sconosciuta, mentre un'altra vita, grande, misteriosa, primitiva, sentivasi nascostamente operare nel silenzio e nello splendore di quella solitudine.

Gualberto si fermò ansante, trafelato; si sentì per un momento veramente solo, lontano da tutti, perfino da quella triste parte di che tormentava l'altra; gli parve d'essere finalmente vicino alla cosa ignota che cercava.

Era l'oblìo? Era il silenzio? Sperava che quell'altera e splendida natura gli avrebbe rivelato un segreto?

Egli si volse verso la capanna e rivide nel prato la sua ombra. Questa volta non si fermò; chiuse gli occhi e andò verso la dimora dei pastori. Non poteva più reggere a quella persecuzione.

Gli sembrava che i suoi pensieri dovessero uscire a forza da quella veste come fossero cosa viva e reale; in quel luogo e in quella mattina non poteva più sentirsi prete; avrebbe voluto essere un fanciullo, una creatura senza ragione, una cosa che non pensa, che non sa di vivere, che nasce e muore inconscia di ; avrebbe voluto essere un fiore, un'erba di quel prato, tutto, fuorchè essere simile a quella immagine che l'opprimeva.

Si affacciò all'uscio della capanna e vide un pastore intento a preparare formaggi o a mescere del latte.

Cavò del denaro di tasca e offrendoglielo disse: – Ho caldo, e vorrei mutare questa veste. Datemi la vostra ed io vi do in cambio questo denaro. –

Il pastore guardò maravigliato il giovane sacerdote, contò, adocchiandolo, il danaro che questi gli porgeva, e con un inchino rispettoso corse ad aprire una vecchia cassa di legno. Ne trasse un abito delle feste.

– È indegno d'essere portato da lei, – disse il vecchio: – ma è il più bello che ho, me lo misi il giorno che fui sposo ed è ancora tal quale. –

Gualberto afferrò la veste con febbrile impazienza.

Grazie, – disse; e si volse per uscire, ma poi si arrestò incerto e domandò a quell'uomo se il danaro datogli lo compensava bastantemente. L'onesto pastore lo guardò maravigliato.

– È tre volte più di quanto mi dovrebbe dare, – e allorchè vide che Gualberto si avviava per uscire, gli corse dietro e gli disse ancora: – Ma non vuole spogliarsi qui?

– No, – rispose con impazienza Gualberto; – voglio essere solo. – E tenendo stretti sotto al braccio gli abiti del pastore, sparì dietro alla capanna.

Non badò a quello che poteva pensare di lui la povera gente di lassù, non badò a nascondere l'impazienza e l'agitazione che lo divoravano, non badava più ad altro che alla folle, fanciullesca speranza di togliersi per sempre di dosso quella veste che lo soffocava.

Gli sembrava d'essere vicino a rinascere, d'essere simile al baco che sta per diventare farfalla.

Il silenzio non interrotto che regnava su quelle vette portava sempre più in alto i suoi pensieri facendo dileguare dalla sua memoria le immagini del mondo, i ricordi del passato, gli affetti e i doveri che lo legavano alla società. In questo momento egli non rammentava più nulla, non sapeva più nulla di coloro che vivevano in quel castello che sorgeva sulle rive del lago, a piedi dello stesso monte sul quale egli correva trafelato e ansante; non sapeva più nulla di Roma e dei suoi educatori; si sentiva ignaro d'ogni cosa come un fanciullo, come fosse tornato ad uno stato d'ignoranza primitiva; tutto si dileguava dalla sua mente intenta ad un solo pensiero. Una pagina scritta dall'autore più insigne sarebbegli parsa puerile e stolta a confronto della lieta istoria di vita che gli narravano qui le eriche che fiorivano nel silenzio alla più pura luce del cielo.

La sua fronte ardeva sotto al sole che si faceva sempre più caldo, egli curava di ripararsene; quei raggi infuocati sembravangli carezze; quel calore, vita e movimento.

Giunto presso ad un picco deserto, si fermò. Egli era ben sicuro d'essere finalmente solo.

Dinanzi a lui la roccia viva scendeva quasi verticale nel fondo di un abisso angusto, mentre dall'altra parte lo circondavano altre balze nude ed irte di roccie scheggiate; il cielo sopra il suo capo era puro e sereno, di un azzurro maraviglioso.

Gualberto si mise a sedere sopra un mucchio di sassi e guardò pensoso intorno a . Il suo sguardo era velato e ardente ad un tempo; sembrava aver l'occhio torbido di un ebbro, ma si scorgeva che la cagione della sua ebbrezza, egli l'aveva attinta in dalla furia tormentosa dei propri pensieri, che n'era stanco ed eccitato ad un tempo. A un tratto si rizzò di , e con uno sguardo ancor più torbido, con mano tremante, si strappò di dosso ad una ad una le sue vesti; le lacerò, le sciupò; poi ne fece un involto stretto, si affacciò all'orlo del precipizio e con un gesto violento, disperato, lanciò quei cenci nell'abisso.

Li guardò cadere con un sorriso amaro, pieno di triste, dolorosa ironia; dopo tante e maggiori cose perdute che cos'era per lui quella veste nera che cadeva a sbalzi da quella rupe? La guardò finchè gli parve giungesse nel letto di un torrente che sembrava abbandonato anch'esso come quei cenci dallo spirito che lo teneva vivo; poichè non vedeva neppure un filo d'acqua fra quelle pietre. Non un sogno, non una fede, non una speranza seguiva laggiù quell'involto deforme. Eppure di quanta vita era stato animato un giorno, di quante grandi, care speranze erano una volta adorne quelle spoglie ora spregiate!

Gualberto volse il capo dall'altra parte e guardò il cielo, la luce, i fiori alpestri che crescevano fra i sassi.

Gli sembrò allora essere un uomo rinato, redento. Gli sembrò avere finalmente acquistato il diritto di godere delle cose che vedeva intorno a . Appoggiò la testa ardente sulla roccia calda quasi volesse accarezzare col viso la terra, e premette le guance sulla dura pietra come fosse cosa viva che sentisse la sua gioia.

Prima era prete, ora era uomo. E a questo pensiero avrebbe voluto stendere le braccia per cingere quelle pietre e quelle eriche che sembravano farsi vive al calore del sole.

A chi l'avesse veduto lassù non sarebbe parso un uomo che ha perduta la ragione, ma un fanciullo ebbro di luce e di vita.

Quel suo viso, bello, giovanile, quei capelli biondi e ricciuti mossi dal vento, quelle mani bianche che sembravano mani di donna e che premevano la terra come fosse un essere vivente che volessero accarezzare, portavano l'impronta di una infantile innocenza e di un candore virginale.

Passò del tempo; Gualberto non sapeva se erano scorse ore o minuti.

Finalmente il suo sguardo si posò sulle vesti del pastore che non aveva pur anco finito d'indossare, e allora si alzò lentamente. Voltò e rivoltò quella giubba, guardò fisso dinanzi a , poi prese di nuovo a esaminare quegli abiti. Il suo viso si fece serio serio; quasi sgomento.

Pensò a un tratto a Jeronima, a suo padre, a sua madre, a quello che era stato ed a quello che accadeva in questo momento; poi si volse, e guardò la grande e muta natura che lo circondava.

Per la prima volta gli parve di indovinare in quel silenzio un rimprovero severo, gli parve che le cose che lo circondavano fossero diverse, ben diverse da quel che era lui; che nella natura che gli stava d'attorno regnasse un ordine severo, irremovibile e che le pietre, i fiori guardassero muti e attoniti quel pazzo che si era trasformato con tanta rapidità.

Sembravagli nel delirio della sua mente che quella brezza acuta e fredda venisse a lui dopo traversato il lungo cammino di molti secoli, dalle prime epoche del mondo, e gli portasse le nuove dell'alba della vita narrandogli con ironia dei lunghi silenzi, dei caldi deserti, dei mari lungamente disabitati, e gli susurrasse all'orecchio il numero immemorabile d'anni che aveva impiegato una cellula per diventare un essere simile a lui.

Quelle roccie lo guardavano maravigliate per la sua rapida metamorfosi; l'altera natura sembrava osservarlo sdegnosa, lui, il povero pazzo, che mutava così facilmente la sua forma e faceva in un'ora il lavoro di secoli.

Il silenzio che lo circondava, mentre egli così pensava, sembrava farsi più cupo.

Le umili eriche che crescevano ai suoi piedi, la polvere bianca che il vento sollevava in piccoli turbini dinanzi a lui, le alte roccie che lo guardavano immobili, sembravano rimproverarlo tutte in coro; sembravano dirgli:

– Tu ignori le leggi dell'armonia, vuoi vivere per te solo, non per tutti, vuoi essere sempre il raggio di sole che splende e feconda ogni cosa, non la pianticella che lo riceve o il limpido ruscello che lo riflette. Non sai appartenere soltanto all'ora nella quale sei vivo, ma vorresti essere anche di quella che verrà e nella quale tu non vivrai più!

– Tu non vuoi far parte di un tutto: tu che credi amare la terra, vorresti cingere il mondo colle tue braccia; tu non vuoi essere fra le cose che stanno per finire e decomporsi adagio adagio a fine di vivere poi di nuovo; tu non vuoi essere soltanto il germe ancora nascosto fra le cose imputridite, ma che sorge per questo a nuova e più rigogliosa esistenza; vuoi essere il fiore sbocciato e la mèsse matura.

– Sei la disarmonia, il disordine, non il progresso. A te basterebbe l'apparire nuovo a te stesso e non sai che solo trasformandoti lentamente puoi seguire e promuovere la trasformazione altrui. –

Gualberto premeva colle mani la sua fronte ardente; due sentimenti diversi lo straziavano. Volse lo sguardo alle sue valli lontane, e scese col pensiero al castello di Ardenberg. Una voce dolce e melodiosa sorgeva per esso di laggiù; ma quella voce ripeteva quanto gli dicevano l'erbe, le roccie e il vento; e quella voce gentile gli raffigurava l'immagine ideale dell'eterna armonia.

Gualberto si lasciò cadere di mano gli abiti del povero pastore, guardandoli muto, atterrito. Che cos'era dunque la verità? Dov'era? Non v'era sforzo disperato che la potesse evocare?

Fece un gesto di rabbia. Avrebbe voluto essere padrone d'ogni cosa, per dare tutta quella luce di sole che lo incantava, quella fragranza montana che lo inebbriava, la vista di quelle cime, di quelle valli azzurre: dare tutto in cambio di una rivelazione del vero.

Un uccello passò stridendo sopra il suo capo. Quell'urlo acuto nel gran silenzio che lo circondava gli parve un ghigno di cattivo augurio.

In questo momento si sentiva anche superstizioso. Lo spirito umano non è mai più vicino alle cose piccole e puerili di quando vuol salire alle più vertiginose altezze; in quel momento esso ha bisogno di tutto, ogni parte della sua attività intellettuale si fa viva e coll'altre anche la superstizione.

L'uccello disegnò volando un cerchio sulla testa di Gualberto, e lo ripetè più volte innalzandosi via via che volava, in forma di spirale.

A Gualberto sembrava veramente che quell'uccello salendo verso il cielo azzurro ridesse, sghignazzasse.

Su quella cima deserta, avvolta nella luce e nel silenzio delle grandi elevazioni, gli sembrava che l'intera natura lo guardasse atterrita, maravigliata.

L'uccello strideva sempre lassù per l'aria.

– S'era mai dato il casosembrava dire lo schernitore che volava sopra il suo capo – che una cosa inutile potesse crescere e durare nella vita comune degl'uomini? E il prete è finora un prodotto dell'intelligenza umana come tant'altri. L'ha fatto perchè ne ha bisogno. L'ha mutato e cacciato; ma poi, vestito a nuovo, l'ha rivoluto sempre. È un cerchio come questo che disegno io nell'ariadiceva l'uccello di cattivo augurio – e se tu sei capace di spezzarlo, se tu sei capace di sopprimere l'infanzia e ritardare la vecchiaia, hai ragione di fare ciò che hai fatto stamane; se non lo sei, non fai altro che mostrarti stolto e irragionevole, – l'uccello continuava sempre a fare que' suoi voli tondi, accompagnandoli con un ghigno stridulo; – se tu fossi nato ai tempi di Cristo in Galilea, avresti udito anche tu la voce che ti arrestava sulla via di Damasco, ti saresti lasciato martirizzare per la fede e saresti stato pago; non è miglior cosa il dubbio e la disperazione che provi tu adesso, nemico dell'errore, indagatore della verità? – Gualberto appoggiava il capo indolenzito e ardente alla roccia calda, teneva gli occhi semichiusi quasi dormisse o avesse dei sogni intermittenti. – Nel Medio Evo saresti stato un alchimista instancabile, avresti cercato la pietra filosofale, avresti evocato gli spiriti e avresti fatto dei filtri; non è meglio essere ciò che tu sei ora? Non è meglio sconoscere l'errore e ignorare la verità che credere il falso? Hai tanto bisogno di fede, e non sai intendere il bisogno che ne hanno tutti? Ma non sai che l'errore, di cui hanno bisogno gli uomini, dev'essere appunto amministrato dalle mani più abili? Credi tu che perchè lo sdegni, lo sdegneranno anche gli altri? Credi che l'umanità sia capace di rinunziare a cosa che le è necessaria, perchè alcuni non la credono vera? Falle rinunciare prima alla paura della morte, all'incertezza dell'avvenire, agli effetti famigliari, ai turbini dei sensi, e allora potrai negarle l'illusione religiosa; prima no. Intanto, quella fiaba ideale e potente sia nelle mani migliori, e il più alto senno distribuisca fra voi l'indispensabile errore. – L'uccello svolazzò ancora intorno alle roccie in silenzio; poi con gridi acuti che sembravano ghigni pieni di derisione per lui e per tutti gli esseri viventi, sparì nella nebbia azzurra e lucente del lontano orizzonte.

Gualberto si scosse a un tratto come persona che si svegli dal sonno. Aveva egli pensato o aveva forse soltanto sognato?

Si guardò con un sentimento di ripulsione; provò ira verso stesso; si sentì umiliato, confuso.

Quanto era lontano adesso dai pensieri che lo avevano spinto a salire poche ore avanti su quella vetta deserta! Come risorgeva dalla riflessione quell'altra parte di lui che traeva la sua origine dalla fiera, cinica, altera prosapia degli Ardenberg.

Si affacciò di nuovo, ma con ben altri pensieri, all'orlo del precipizio e guardò nel fondo. Una macchia nera nel letto del torrente indicava il luogo ove giaceva la sua veste.

Cercò con lo sguardo una via per scendere nella valle e scorse dall'altro lato un sentiero angusto che metteva al torrente. Quel sentiero era lontano, difficile, pericoloso. Gualberto non vi badò, gettò sulle sue spalle la giubba del pastore e con passo sicuro e risoluto s'arrampicò sulle roccie, seguì la china del monte, lo risalì dall'altra parte e giunse finalmente dal lato opposto, ove trovavasi il sentiero che scendeva nel precipizio. Senza esitare un sol momento, aggrappandosi alle sporgenze dei sassi, aiutandosi con le mani e le braccia, lasciandosi scivolare lungo le pareti quasi verticali degli scogli, pesto, malconcio, giunse laddove voleva andare; entrò nel letto del torrente e raccolse risolutamente gli abiti che v'avea buttato.

Svolse con mano tremante l'involto ch'egli aveva stretto dianzi tanto rabbiosamente, che neppure sbalzando di rupe in rupe da quell'altezza vertiginosa s'era potuto sciogliere. Alzò il capo e guardò all'insù, d'onde l'aveva lanciato nel fondo della valle.

Lassù tutto era luce, il sole splendeva con forza abbagliante, le bianche roccie sembravano scintillare sotto ai suoi raggi, mentre che le loro sottili frastagliature si staccavano sul fondo sereno e azzurro del cielo.

Gualberto fissava quel punto, e gli sembravano scorsi degli anni dal momento in cui v'era stato. Allorchè abbassò gli occhi acciecati da quel chiarore, non vide più nulla intorno a . Quel tetro burrone non vedeva mai sole, era bigio, umido, buio.

Gualberto tremava; aveva freddo, era stanco, si sentiva spossato.

Si rivestì della sua vecchia e lacera veste, quasi inconsapevole di quanto faceva. Sapeva di volerlo, di avere ottenuto questo sagrifizio da stesso dopo aver voluto lungamente, disperatamente il contrario. Non sapeva, non capiva altro. Sembrava vi fosse un estraneo accanto a lui che lo rivestisse; egli ignorava che l'umile servo che in quel momento gli prestava aiuto, era l'altera e orgogliosa sua volontà unita alla fredda ragione: le due nemiche dei suoi sogni, delle sue speranze, dei suoi entusiasmi.

Quanto diversa era questa seconda vestizione nel fondo freddo, angusto e buio di quel precipizio, dalla prima, lieta e pomposa, fatta in Roma! a Gualberto era parso di porre in evidenza tutte le sue ideali aspirazioni e spogliarsi d'ogni sentimento volgare; qui, metteva una maschera per nascondere un animo desolato che aveva riconosciuto l'errore e non sapeva la verità.

Ma Gualberto era così stanco da non poter fare quel raffronto, e si ritrovò vestito come lo era stato poche ore avanti, avendo vissuto con tanta intensità in quel mattino, come avesse preso parte alla vita di tutti i secoli che erano stati prima di lui. Gli pareva d'aver preso parte a tutte le fiabe, a tutti gli errori, a tutti i martirii dello spirito umano, dacchè questo poteva avere coscienza di . Il suo cervello stanco gli raffigurava le imagini più inverosimili, quasi uscisse dal lungo delirio d'una febbre violenta.

Senza scopo determinato si rimise a camminare nella valle andando laddove questa sembrava aprirsi scendendo verso il lago. Non s'avvide che un uomo lo seguiva da lontano spiando i suoi passi.

Non badava più a niente, ma istintivamente si avviava dalla parte più larga e chiara, scegliendo senza volerlo la strada migliore per la quale giunse ad un piccolo piano erboso, ombreggiato da folti castani.

Era quello un luogo affatto sconosciuto da lui. La fresca ombra degli alberi su quel verde e fitto tappeto d'erba lo invitò al riposo. La sua stanchezza era tale, che gli parve d'essere di nuovo ammalato come era stato a Roma. Si lasciò quasi cadere presso ad un vecchio tronco, vi appoggiò il capo ed il dorso e chiuse gli occhi.

Non dormì subito. Un ronzìo incessante nel capo lo teneva desto. Quel ronzìo sembrava prodotto dalle mille voci confuse di una folla che gradatamente si allontana. A poco a poco quelle voci si dileguarono, tutto tacque in lui, ed egli s'addormentò profondamente.

Allora pian piano l'uomo che l'aveva seguito gli si avvicinò, gli si fermò dinanzi, e immobile in atteggiamento di pietà e dolore lo guardò lungamente.


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