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Il bel volto giovanile di Gualberto serbava ancora nel riposo un'espressione di dolore e di angoscia; le sue vesti polverose, malconce, ricoprivano in disordine la sua persona che giaceva nella positura di chi cade affranto dalla maggiore delle stanchezze, quella del pensiero.
L'uomo che guardava con insistenza, con espressione di pietà e di sdegno ad un tempo, il giovane che dormiva, era un uomo che s'avvicinava ai cinquant'anni. Era alto, ben fatto della persona, un po' pingue, di quella pinguedine che non toglie ancora l'elasticità delle movenze e del passo, ma che rivela l'età matura. Il suo viso intelligente, vivacissimo, spirava salute, forza e letizia d'animo; la folta capigliatura era sparsa di ciocche bianche che facevano contrasto cogli occhi pieni di vivacità giovanile. Mentre fissava Gualberto, le sue labbra piene e facili al sorriso erano strette da un sentimento di pietà e d'ira, e le nere sopracciglia erano ravvicinate dal corrugarsi della sua fronte. Via via che quell'uomo guardava, il suo volto esprimeva sempre più sdegno e dolore; strinse i pugni in atto di minaccia, e aprì la bocca come volesse formulare un'imprecazione; ma si trattenne, ebbe pietà di quel sonno, di quel breve momento di riposo e d'oblìo.
Il sole appariva alto nel cielo; poi cominciò a scendere verso ponente; le ombre degli alberi andavano via via distendendosi sull'erba quasi volessero coricarvisi, e le alte pareti delle roccie proiettavano da ogni spigolo, da ogni sporgenza, lunghe strisce di ombra; ma Gualberto ancora non si muoveva, e lo sconosciuto ritto dinanzi a lui non aveva mutato positura.
Una contadina si avvicinò a quell'uomo e con un gesto timido e pieno di rispetto gli pose una mano sul braccio.
Lo sconosciuto si voltò, e le sorrise con amarezza.
– Guardalo, è lì – e le additò Gualberto che dormiva – Che cosa vuoi da noi? – aggiunse con impazienza pronunciando con enfasi la parola noi.
– Per carità... parli piano... non vede che si sveglia? – disse la contadina – Vorrebbe forse?... – e lo guardò titubante e sgomenta.
– Sì, lo voglio – rispose l'altro con fermezza, ma parlando piano perchè Gualberto incominciava a muoversi sul sonno. – Non lo vedi Vanina, non vedi sul suo viso le traccie del dolore, della disperazione? Non lo ami abbastanza questo infelice che hai nutrito, per indovinare anche tu le sue sofferenze? – La contadina guardò lungamente con aria mesta e addolorata il giovane che dormiva, e mentre essa lo guardava facendosi sempre più afflitta e accorata, l'uomo si chinò verso di lei, le strinse il braccio con la mano e disse imperiosamente.
– Voglio che tu glielo dica! –
– Signore...! – balbettò la donna tutta spaventata.
– Lo voglio, Vanina, – continuò a dire lo sconosciuto – lo voglio per il suo bene, m'intendi? per il suo bene. È indispensabile Vanina, bisogna che egli lo sappia. Vuoi forse che lo svegli qui, ora, e glielo dica? –
– Oh no! – esclamò la Vanina come fosse scandalizzata da quella proposta.
– Or bene, chi glielo può dire, chi può prepararlo a ricevere quella nuova se non lo vuoi far tu? – replicò l'altro con insistenza. A questo punto Gualberto fece una mossa come si svegliasse davvero.
– Vada via – disse la donna impaurita, – egli si desta. –
– Non mi muovo se tu non prometti di parlargli; di farlo subito – replicò l'altro imperiosamente. – Vanina, ieri me lo hai quasi promesso...
– Per carità, vada via, non vede che si muove, che... – interruppe la Vanina tutta confusa.
– Lo farai? – domandò di nuovo lo sconosciuto senza turbarsi.
– Sì, sì, farò come vuole, ma vada via subito – diceva ansiosa la Vanina accennandogli di andarsene.
– Sta bene, vado laggiù fra quegli alberi, di là ti posso vedere e verrò quando mi chiamerai – e lo sconosciuto andò via proprio quando Gualberto apriva gli occhi, ed ebbe appena appena il tempo di nascondersi ad una certa distanza da essi dietro gli alberi.
Il giovane si era svegliato e fissava la contadina quasi cercasse faticosamente di raffigurarla, di rammentare chi ella fosse e in qual modo egli si trovasse nel luogo dov'era, e in quella positura.
Si sollevò da terra, lo guardò ancora dubbioso e finalmente disse.
– Vanina?..
– Sì, sono io, la Vanina, signor contino, e – Ma Gualberto l'interruppe con impazienza.
– Che cosa vuoi? – domandò vergognoso dell'essere visto in quell'atteggiamento. La donna con furberia contadinesca e con l'intuizione di chi ama devotamente, indovinò il pensiero di Gualberto, si avvicinò a lui umilmente, poi disse.
– Non le dispiaccia conte Gualberto, di mostrarsi così alla sua vecchia balia, che l'ha tenuto tante volte sulle braccia quand'era piccino, e che ha tranquillato le tante e tante volte i suoi pianti. – Gualberto le stese la mano. Quelle semplici parole d'affetto in bocca della contadina, dopo le tristi ore d'angoscia passate in quella mattina gli parvero ancor più buone e affettuose che non fossero veramente. Era quella una sincera e semplice voce umana che lo richiamava perchè tornasse a vivere nella vita comune di tutti, a gustarne gli affetti e i dolori.
– Che diversità, mia buona Vanina, fra quel tempo e questo!... – rispose mestamente Gualberto e riappoggiò la persona stanca al tronco dell'albero guardandola pensoso. – Tutto era vero allora, tutto, persino le fiabe che tu mi narravi seduta accanto al mio letticiuolo durante le notti insonni, ma ora... – e Gualberto tacque addolorato e confuso.
La Vanina non intendeva il senso di quelle parole ma indovinava che erano la manifestazione di un profondo dolore. La povera contadina amava devotamente il giovane che aveva allevato e avrebbe fatto qualunque sacrificio per vederlo felice. Essa se ne stava zitta e imbarazzata dinanzi a lui, pensando se lo potea veramente confortare con la rivelazione audace che aveva promesso di fargli.
La donna non sapeva come incominciare; rammentava la promessa fatta allo sconosciuto, l'animava il desiderio di porgere aiuto e sollievo a Gualberto, eppure la tratteneva una gran paura di far male, di mancare ad un dovere, di peggiorare forse la condizione del giovane. Però dopo avere esitato un pezzo risolse di parlare, e allora lo fece arditamente.
– Signor contino – disse – quei tempi felici per lei, furono tristissimi per gli altri; le vecchie mura del castello di Ardenberg, custodivano gelosamente allora, come lo custodiscono adesso un segreto terribile –
– Un segreto? – domandò Gualberto maravigliato fissando con stupore la Vanina, che parlava in tuono solenne mentre sembrava confusa e imbarazzata nello stesso tempo. – Un segreto... che tu sai? –
– Sì – rispose la donna già mezza pentita di quello aveva detto, perchè la maraviglia che dimostrava Gualberto le faceva sentire maggiormente l'importanza delle cose che stava per dire.
– Un segreto?... – ripeteva Gualberto pensoso. La Vanina taceva spaventata, ma poi quando con aria più tranquilla egli le indirizzò di nuovo la parola e disse. – Era un segreto che ti riguardava? – allora timidamente gli rispose. – No, quel segreto riguardava lei! – e le parve di aver detto tutto, tanto, che Gualberto dovesse sapere senz'altro tutta la verità.
Ma come ben s'intende, Gualberto non aveva capito nulla, e fissava con inquietudine e stupore la sua vecchia balia.
– Un segreto che riguardava me solo e che nessun altro sapeva fuorchè tu, Vanina...? – domandò quasi non credesse alle sue parole.
– Lo sapevano anche degli altri, – rispose la donna che non trovava più il verso di tirare innanzi – lo sapeva la sua povera mamma, lo sapeva il signor conte, lo sapeva... un altro – e pronunciate queste parole fece una mossa per fuggir via. Ma Gualberto spinto da un triste presentimento, indovinando dal contegno della Vanina che essa stava facendogli malgrado la sua coscienza e la sua volontà, una dolorosa e importante rivelazione, balzò in piedi e la trattenne.
– Quell'altro chi era? – domandò.
– Suo padre... – rispose la donna balbettando a stento quelle terribili parole.
– Mio... mio padre...? – ripetè Gualberto sbalordito. La Vanina non ardì muoversi, non ardì guardarlo. Le parve di sentir scricchiolar dei rami, le parve di udire dei passi dalla parte ove era andato il forestiero, ed ebbe una gran paura che escisse dalla boscaglia che lo nascondeva, precisamente in questo punto.
– Mio padre?... qual pazzia ti coglie dicendo queste cose?... disse Gualberto, poi a un tratto quasi urlando gridò. – Non è vero! Non è possibile; tu hai mentito! – La Vanina chinò il capo e tacque, e Gualberto dopo un momento di riflessione tornò a dire.
– No, non è vero! Dimmi che hai mentito, che il conte di Ardenberg è mio padre! –
Ma la povera donna non poteva reggere al sentirsi accusare così e rispose con sicurezza e dignità.
– No, non ho mentito. Potrei giurare sull'altare che ho detto il vero. –
Allora dinanzi alla mente sbalordita e confusa di Gualberto apparvero improvvisamente, disordinate e tumultuose delle immagini del passato; i ricordi dell'infanzia si mescolavano alle memorie recenti; parole dette da sua madre tant'anni fa, altre pronunciate il giorno avanti; rammentò i pianti della contessa, gli aspri e ironici rimproveri del conte, la disperazione di sua madre quando glielo portarono via, l'angoscia silenziosa e rassegnata colla qual sembrava accompagnarlo anche adesso, ogni volta lo vedeva in compagnia del marito.
Quel marito non era dunque più suo padre? Tuttociò gli s'affacciava ora al pensiero con una chiarezza improvvisa; ritrovò lucidissima la memoria di certe scene domestiche, di certe ore dimenticate da un pezzo, che adesso risortivano dal passato illuminate vivamente come fossero quadri staccati, punti luminosi nelle tenebre. Si rammentò l'ultimo dialogo avuto col conte d'Ardenberg, e con una rapidità spaventosa, con una perspicacia morbosa, indovinò, capì tutto.
No, il conte d'Ardemberg non era suo padre; ne sentiva in sè la certezza. Tutto ciò che aveva fatto per lui gli appariva qual era veramente: una atroce vendetta.
Ma sua madre...? Quella creatura soave e venerata, quell'idolo della sua infanzia era stata colpevole? Gualberto avrebbe voluto che il suo pensiero tacesse dinanzi a questa domanda.
Di quanto quell'uomo sconosciuto doveva essere superiore a tutti o di quanto inferiore per aver potuto divenire suo padre? Andava egli debitore della vita ad un turpe delitto o all'amore, all'entusiasmo, alla fede, ispirata da qualche essere eccezionalmente buono e intelligente?
Era un pezzo che taceva e che la Vanina non ardiva turbare con una mossa o con una parola quel silenzio. Finalmente Gualberto lo ruppe, e umilmente, senza guardarla, quasi si vergognasse dinanzi a lei le chiese.
– Il suo nome...? –
– Dio mio – esclamò la Vanina – che cosa ho fatto! – e si coprì il viso spaventata del dover compiere la sua rivelazione pronunciando quel nome, che da tanti anni nessuno aveva più pronunciato in quelle valli.
– Il suo nome... – tornò a dire Gualberto con tuono quasi supplichevole. – Il suo nome Vanina...?
La Vanina esitò, sospirò, poi finalmente, pianissimo, susurrò il nome di Guido Campaldi.
– Campaldi? – esclamò Gualberto cui era famigliare il nome del celebre artista. – Campaldi...? – ripetè quasi non potesse prestar fede a quella risposta.
– Per carità... per carità... parli piano – disse la Vanina tutta spaventata.
Ma quel nome pronunciato così forte, era stato udito da colui che attendeva nascosto nella boscaglia e che ne uscì impetuosamente correndo verso Gualberto.
– Chi mi chiama? – disse guardando il giovane.
E la parola gli tremava fra le labbra e da tutto il suo contegno traspariva una commozione così violenta che a stento gli riusciva di padroneggiarla.
Gualberto indietreggiò d'un passo, guardò la Vanina che s'era fatta rossa e pallida nello stesso momento e le domandò piano con tuono di sgomento.
– Chi è...?
– È lui. – rispose la donna chinando la testa.