Emilia Ferretti Viola (alias Emma)
La leggenda di Valfreda
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XII.

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XII.

Gualberto si volse verso il Campaldi e con una mossa altera, rialzò il capo con orgoglio fissandolo arditamente. In quell'istante pensava a sua madre. Gli pareva dover difendere quella riputazione, finora immacolata, contro chi minacciava di macchiarla, ma a poco a poco il suo sguardo fisso negli occhi del Campaldi si fece più dolce, parve divenisse via via che lo fissava, più affettuoso, più vivace. Le sue ciglia s'inumidirono, e un'intuizione potente, irrefutabile gli gridava nel cuore che quell'uomo era suo padre.

Un'affinità misteriosa delle fibre e del pensiero lo traeva con violenza a riconoscerlo per tale.

Gualberto gli stese la mano, e il Campaldi a quell'atto con gioia impetuosa lo strinse fra le braccia.

– Mio figlio! – esclamò, e in quelle due parole pronunciate a quel modo era non solo la conferma di un fatto, ma anche tutta una storia di affetto, di aspettazione, di dolore represso. – Mio figlio! – ripetè e lo baciò sulla fronte.

Gualberto pensava sempre a sua madre; anche in questo momento di profonda commozione lo turbava dolorosamente il pensiero di sua madre.

Il Campaldi gli aveva messo le mani sulle spalle e scostandosi un poco da lui lo guardava insaziato. Egli indovinava ciò che pensava Gualberto e sentiva con avvilimento che il suo affetto non l'avrebbe compensato di questa nuova disillusione che riguardava il suo culto e il suo amore per la contessa Beatrice.

Dov'era quest'uomo, pensava tra Gualberto, allorchè l'avevano strappato dalle braccia della madre desolata per compiere l'atto iniquo che doveva farlo prete?

Gualberto ti duole ora ciò che sai. Non negarlo, lo vedo, lo sentodisse finalmente il Campaldi addolorato da quel silenzio – ma credi tu che questa audace rivelazione ti sia stata fatta senza che vi fosse un motivo urgente, un motivo che non mi permetteva di aspettare? –

Perdonirispose Gualberto confuso – sono ancora troppo turbato, troppo sbalordito per risponderle... Un motivo? Quale? –

– Quello di proteggerti, di trarti da questa disperazione che è il tormento di tua madre e forse la trista gioia di... – Ma non finì il suo discorso, mutò tuono e ricominciò a parlare. – Sono venuto per dirti che sono libero, che sono ricco, chè ti posso finalmente proteggere. Sei l'unico mio figlio, vieni con me, anderemo ove tu vuoi, anderemo in una terra nuova ove tu pure ricomincerai una nuova vita. –

Gualberto gli rispose con un mesto sorriso.

Graziedisse – ho già scelto. Ho risolto oggi stesso quello che debbo fare. Non muterò più.

– Non vuoi che io ti aiuti? – chiese il Campaldi dolcemente.

– Non ho più bisogno di aiuto e debbo saper vivere solo – rispose Gualberto commosso nel vedere la mestizia con la quale il Campaldi accoglieva le sue parole. – E in qual modo potrei, anche lo volessi, accomunare la mia vita alla sua? – aggiunse il giovane dopo un breve silenzio. – Che cosa so io di... – Ma in questo punto il Campaldi l'interruppe con vivacità.

– Hai ragionedisse – tu non sai nulla di me. Io vissi vent'anni col pensiero di te mentre tu non mi conosci che da pochi minuti e mi conosci per una triste e dolorosa rivelazione. Vengo da paesi lontani che dovetti abitare lungamente in ossequio alla volontà di tua madre e per adempire ad una promessa fatta quando...

Ma qui tacque e la memoria parve gli presentasse una tormentosa riminiscenza. – In quegli anni, che molti chiamerebbero d'esilio, mi consolava la dolce memoria di tua madre e il mio pensiero ti visitava nella culla invocando per te nell'avvenire le glorie dell'arte. L'arte, Gualberto, – esclamò con entusiasmo – essa è la mia Divinità, la padrona del mio intelletto; essa mi ha dato la fede, la felicità, essa ha popolato la mia vita di immagini immortali e laddove gli altri credono esservi isolamento e abbandono, nelle terre disabitate del nuovo mondo, nei mari deserti, più che mai, s'affollarono intorno a me le raggianti figure della mia fantasia. L'arte mi ha dato tutto quello che gli uomini si chiedono tante volte l'un l'altro invano: serenità e speranza. Non ho casa e non ho patria, ma dove più splende il sole, dove la natura è più prodiga, dove la forma umana è più bella, è la mia patria, la mia casa; allora nel riposo, le immagini della mia mente prendono forma, diventano realtà per opera mia. L'esilio per me incomincia laddove finisce per gli altri. La dimora fissa mi è insopportabile. Lo spazio, il movimento mi attraggono e mi allettano incessantemente... Ti ho detto tuttociò perchè tu mi conosca meglio. La mia vita, il mio avvenire debbono d'ora innanzi servire a te. Anderemo ove tu vorrai. –

– Mio padre! – esclamò Gualberto con uno slancio sincero di affetto, e lo abbracciò senza esitazioni e senza scrupoli.

In questo punto una mano si posò di nuovo sul braccio di Campaldi.

Signore, per carità, se ci vedessero... –

Buona Vaninadisse il Campaldi. – Hai ragione – e le prese la mano stringendola fra le sue. – Gualberto, – aggiunse volgendosi a suo figliodebbo al coraggio e all'affetto devoto di questa donna e di sua madre, la gioia dell'averti ritrovato, debbo a loro le notizie che con molta difficoltà mi facevano pervenire in paesi lontani durante la tua infanzia e la tua adolescenza; esse mi narravano delle lagrime segrete di tua madre... – Qui s'interruppe e chinò la testa. – Ma le ultime lettere giunsero tardi e non venni... in tempo. –

Gualberto non rispose. Sì, era venuto tardi, nessuno era più in grado d'aiutarlo, di toglierlo al suo stato.

La Vanina commossa per le parole del Campaldi era in preda ad una grande agitazione. Volgeva gli occhi ora a destra, ora a sinistra.

– Per carità signore, non si trattenga qui... può passare della gente...

– Sì, Vanina, faremo come tu vuoi. Vieni, Gualberto, vieni sino alla casa dove sono alloggiato. Nessuno deve sapere che mi ritrovo in queste valli, nessuno... neppur lei. –

Ma la Vanina non era contenta.

– Oh signor Guido non possiamo andare a casa insieme, saremmo visti...

– Anche questa volta hai ragione. Ci separeremo allo sbocco della valle. –

Separarci?... – disse con voce bassa Gualberto.

– Per orarispose con vivacità l'artista. –

Domani verso il tramonto ti aspetterò nella casa di Rosalìa ove alloggio, o meglio, dove mi nascondo. Riparleremo del tuo, del nostro avvenire... risponderai meglio che non lo potresti fare qui, alle mie proposte. – Gualberto si fe' più serio e non rispose. – Ne parleremo domaniaggiunse il Campaldi.

– Sì... domani... – replicò Gualberto che non voleva offenderlo con un diniego.

S'avviarono verso lo sbocco della valle.

– E... a casa... a... a tua madredisse dopo fatti alcuni passi l'artista con imbarazzo – non dirai nulla, ma, se lo puoi, cerca di farle credere che sei più contento. –

Gualberto alzò gli occhi e guardò il Campaldi con riconoscenza.

– Lo farò – disse.

Camminarono ancora un poco in silenzio, poi a un tratto, la valle si aprì dinanzi a loro. Campaldi si fermò. Stese le mani a suo figlio e disse:

– Qui dobbiamo lasciarci. Addio per oggi, ma promettimi che ora dopo esserci ritrovati tanto faticosamente, non ci perderemo mai più.

– Te lo giuro! – rispose Gualberto con fermezza stringendogli forte forte le mani. Poi si allontanarono rapidamente a fine di nascondersi a vicenda le proprie emozioni.


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