Emilia Ferretti Viola (alias Emma)
La leggenda di Valfreda
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XIII.

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XIII.

In quel giorno il conte di Ardenberg passeggiò nelle ore del meriggio su e giù nella sua biblioteca, fumando un sigaro dietro l'altro, fermandosi ora dinanzi uno scaffale, ora dinanzi alla finestra, con un viso talvolta serio e pensoso, talvolta ilare, ma di quella ilarità ironica che era il solo modo col quale gli riusciva di mostrarsi lieto.

Gualberto non s'era visto in quella mattina all'ora della colazione; si era presentato a sua madre per dirle addio come soleva fare quando si assentava per qualche ora dal castello; l'avevano cercato, ma con maraviglia di tutti non s'era potuto sapere dove egli fosse andato. Chi l'aveva cercato era, s'intende bene, la contessa Beatrice, che da tanti giorni spiava sul volto del figlio ogni traccia di affanno e di dolore, e studiava invano nascondere le proprie angosce a fine di non dar esca al maligno contento del conte.

Il conte però non era contento. In questo triste dramma che si svolgeva per opera sua sotto ai suoi occhi, non coglieva il frutto della sua vendetta se non che nelle angosce della contessa; l'antipatia che gli aveva ispirato Gualberto da bambino era scemata, e col tempo non solo era diventata indifferenza, ma quasi, a momenti, il giovane côlto, intelligente, che prometteva tanto per l'avvenire, aveagli ispirato un sentimento di simpatia, bensì breve e fugace, ma pure sincero. Questo giovane, destinato a portare il nome degli Ardenberg, che sarebbe salito forse alle più alte dignità ecclesiastiche, gl'ispirava, per una di quelle contradizioni che non si spiegano facilmente, ma che sono però comuni, un sentimento di deferenza che traeva origine soltanto dalla sua vanità.

In questo giorno, durante l'assenza prolungata di Gualberto, il conte l'aveva atteso con impazienza; temeva che fosse avvenuta una disgrazia e n'era turbato.

Verso le tre e mezzo il viso sparuto della contessa Beatrice si affacciò all'uscio della biblioteca.

– Avanti, avanti, contessadisse con fare premuroso ed ironico il marito, cui non pareva vero gli si offrisse lo spettacolo delle inquietudini di quella povera donna.

– Nulla... nulla... – balbettò confusa Beatrice, credendo che il conte chiedesse che cosa voleva.

– Posso servirla in qualche cosa, – continuò a dire il conte tutto sorridente e scherzevole – vuole un trattato di scienza, un libro di filosofia, un dramma del Dumas? V'ha di tutto in casa mia. – aggiunse ironicamente. La contessa non era in quel momento pronta a sostenere una lotta di parole col conte. Era tanto angustiata, che non le importava più di nascondere la sua angoscia.

Cercavo Gualbertodisse risolutamente, e si ritrasse di .

– Chi sa dov'è andato Gualberto, e chi sa se tornerà! – le rispose duramente il conte.

La contessa Beatrice udì queste parole e sentì una trafitta al cuore, ma non replicò sillaba; chiuse l'uscio della biblioteca e tornò nella sua camera.

Alle quattro un domestico venne ad avvisare il conte che il cacciatore ed i cani lo attendevano sul piazzale dinanzi al castello.

Egli alzò le spalle e disse con impazienza: – Che aspettino. Ora non ho voglia d'escire. – Poi richiamò il servo che se ne andava ed aggiunse: – Appena torna il conte Gualberto, avvisatemi.

Ricominciò a passeggiare su e giù nella biblioteca. Dopo scorsa una mezz'ora si fermò dinanzi alla finestra e guardò il lago che rifletteva quei colori variati e belli del cielo che precedono di qualche ora il tramonto. Era un giorno chiaro e sereno.

Il conte si rammentò improvvisamente gli anni della sua infanzia, il vecchio e severo precettore, i giuochi vietati dal rigido prete, la gioia del disubbidirlo, e quelle memorie gli fecero morire sulle labbra il suo sardonico riso.

Suonarono le cinque.

Il conte si scosse. – Se Gualberto non tornasse più? – pensò fra . In quel momento l'uscio della biblioteca s'aprì di nuovo ed il medesimo servo di prima entrò dicendo:

– Il conte Gualberto è giunto in questo momento ed è salito nella sua camera. –

– Sta benedisse il conte come fosse sollevato da un gran peso. – Dite pure al cacciatore che vengo subito. –

E mentre Gualberto mutava rapidamente le sue vesti malconce, egli udì l'abbaiare dei cani e la voce imperiosa del conte che imponeva loro di star cheti.

Allora Gualberto trasse un sospiro di consolazione. – È partito! – disse fra .

Non aveva ancora finita mentalmente questa esclamazione, che udì picchiare sommessamente all'uscio di camera sua. Un leggiero fruscio di seta gli rivelò subito chi fosse.

Corse ad aprire ed abbracciò sua madre. La povera contessa Beatrice aveva le lagrime agli occhi.

– T'ho aspettato tanto... – disse dolcemente.

Gualberto le chiese perdono d'essere stato la cagione di tante inquietudini; a lui pareva di chiederle perdono di tutte le angosce, delle quali egli era stato la cagione nel passato. Le disse che aveva smarrito la via in quella mattina, le narrò la prima favola che gli si affacciò alla mente, quella che meglio poteva tranquillarla, le disse che stava bene, che era lieto, che non aveva affanni. La fece sedere accanto a e la confortò, la rassicurò, poi, allorchè finalmente fu tranquilla, la guardò in silenzio con dolorosa attenzione.

Non l'amava meno dacchè il Campaldi gli aveva rivelato la sua origine, ma gli sembrava che anch'essa, come gli angioli e i martiri della sua fede, fosse stata profanata, fosse scesa dal suo piedistallo, fosse più lontana dalle regioni ideali e più vicina alla terra. Il suo affetto per essa non scemava, ma si sentiva di nuovo alle prese con un pregiudizio che avrebbe dovuto vincere. E sua madre adesso gli appariva mutata quasi fosse un'altra.

Quest'altra era la donna che aveva amato il Campaldi, che aveva dato con l'imprevidenza dell'entusiasmo, per pochi giorni di gioia, anni di dolore.

Per lui non era più la contessa d'Ardenberg, quella creatura ideale, soave, dolcissima, simile ad un essere che non appartiene alla terra, quella madre che egli credeva unica al mondo per tutte le gentili qualità materne; no; era una donna più donna delle altre, perchè aveva voluto l'amore ed aveva subìto risolutamente, senza lamenti, le lunghe sofferenze inflitte da esso.

L'amore? Mille idee confuse si agitavano nel suo cervello, nel pronunciare fra quella parola. E dacchè il Campaldi l'aveva proferita, egli ci avea sempre pensato; dacchè conosceva la sua origine, gli sembrava di appartenere più da vicino agli affetti ed ai sentimenti terreni: quasi vi fosse una congiura contro di lui, sentivasi chiamare in ogni modo dalla realtà che lo strappava al suo mondo ideale.

Ed ora sapeva che anche questa madre adorata aveva provato la sua parte di gioia e di dolore, e di quelle gioie erale rimasto lui solo.

Non si sentì umiliato da quella rivelazione; nella condizione sua, e con una mente fatta come la sua, gli parve anzi d'essere cosa migliore, dacchè seppe che egli non era più il frutto di un'unione convenzionale, infelice, quale egli l'aveva riconosciuta da un pezzo, ma che era nato invece da un affetto forte e spontaneo. In un momento di ribellione e di trasformazione del suo spirito, questo fatto non poteva umiliarlo.

Era altero di un padre, del quale aveva ammirate le opere tante volte; il freddo sarcastico conte Ardenberg che lo trattava con tanta durezza, era un pigmeo accanto a quel grande artista. V'erano dei momenti, nei quali avrebbe voluto ringraziare sua madre; altri, ne' quali la guardava mestamente, gli sembrava che nel fare un bene a lui avesse scapitato per , che avesse perduto un'aureola per cingere invece una veste comune.

Perchè mi guardi così, Gualberto? – disse finalmente la contessa.

Penso... – rispose dopo un momento di esitazionepenso alle lagrime che t'ho costato. –

La contessa lo guardò con tenerezza.

– Non ricordi le gioie e i conforti che ebbi da te? – Gualberto le strinse la mano e chinò la testa quasi fosse umiliato.

– Ho sprezzato per molto tempo l'intensità dei sentimenti che tengono stretti gli uomini fra di loro; mi pareva che nelle regioni più alte soltanto vi fossero esseri degni di tutto il nostro affetto. M'ingannai. La terra è più bella di quanto credevo, ed è bella perchè c'è l'amore. –

La contessa fissò incerta il volto del figlio dopo che egli aveva pronunciato queste parole. La povera madre non aveva mai ardito interrogare il figliuolo sulle sue credenze religiose. L'aveva osservato trepidante, e il suo cuore batteva ogni qualvolta egli scendeva nella biblioteca del conte. Essa aveva indovinato che suo marito continuava così la sua opera di vendetta, che colà tormentava Gualberto con tutte le torture morali delle quali poteva disporre, e invano la contessa aveva cercato allora d'indurre sommessamente il figliuolo a seguire gli studi e le letture di prima. In altri tempi l'aveva visto felice ed ora vedeva bene che non lo era più. Ma in quel momento si fece animo e domandò piano:

– Tu credi ancora, Gualberto? –

Il giovane sorrise mestamente e guardò sua madre con pietà.

Credo a tutto, – rispose, – credo alla più elevata parola del Vangelo ed alla più umile superstizione di una nostra contadina; credo nella religione e credo nell'incredulità. Credo in Dio, perchè è il prodotto della mente umana e perchè l'idea di esso è l'opera del nostro cervello. – La contessa non rispose subito. Le parole pronte e piene di convinzione di Gualberto sembravano tranquillarla, ma il senso di esse era oscuro. – Non ti affannare, mammacontinuò a dire Gualberto. – Lo spirito mio è in pace ormai; la lotta è finita. Sono tranquillo e voglio continuare con sicurezza ed energia per la via che è stata scelta per me. –

A queste ultime parole la contessa rialzò il capo con maraviglia. A chi era diretta l'accusa? Era la prima volta che Gualberto faceva così indirettamente un allusione al passato. Ma egli non le lasciò tempo a riflettere, si alzò, cercò alcuni oggetti sul tavolino, assestò delle carte che vi erano sparse, e disse, troncando il discorso di prima:

– Come sta Ermanno?

Meglio, anzi bene, è uscito di casa e lo vedrai adesso a pranzo. Jeronima invece mi sembra sofferente; forse si è affaticata troppo per assisterlo; Ermanno, lo sai, è esigente come un bambino quand'è malato, e Jeronima ha per esso una pazienza inesauribile. Avrebbe bisogno di distrarsiaggiunse la contessa – mi sembra stanca e accorata. –

Gualberto ascoltò senza perdere una sola parola quanto gli diceva sua madre, e pensò con egoistica gioia che essendo guarito Ermanno, Jeronima sarebbe forse scesa quella stessa sera nella biblioteca. Aveva tante cose da dirle!

In quel mentre suonò la campana del desinare, e la contessa alzossi anch'essa, e più lieta che non fosse da molti giorni prese il braccio di Gualberto e s'avviò con lui alla sala da pranzo.

Gualberto s'era però ingannato nelle sue previsioni.

Egli attese invano Jeronima nella biblioteca dopo pranzo.

Essa non venne.


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