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Era una bella sera ed egli sedette presso alla finestra guardando il lago; non aprì un libro, non desiderò di leggere; quel quadro sereno e animato, cui faceva cornice l'ampia finestra, gli presentava una scena tanto bella, che il suo pensiero involontariamente la popolava d'immagini nuove, intorno alle quali s'animavano le sue idee con vigore e spontaneità. Guardava la notte stellata e pensava alle vicende del giorno.
Mentre assorto nella meditazione se ne stava silenzioso appoggiato al davanzale della finestra, udì dei passi leggieri ed il fruscio d'una veste sulla terrazza soprastante.
Tese l'orecchio e s'accertò che quello era il passo di Jeronima. Essa non parlava e per quanto ascoltasse non udiva che il fruscìo dell'abito ed il rumore dei passi.
Gualberto senza rendersi conto della sua impazienza, uscì rapidamente dalla biblioteca, e salì per la scala che metteva alla terrazza.
Egli aveva indovinato. Jeronima era sola.
– Posso venire? – domandò piano Gualberto.
Jeronima si volse rapidamente, lo guardò maravigliata e gli stese subito la mano.
– Venga. Pensavo a lei in questo momento. Volevo parlarle, e mi dispiaceva di non poter scendere nella biblioteca – disse con affetto e semplicità.
Senza intenderne la cagione, Gualberto si sentiva felice accanto a lei. Si sentiva sicuro di avere da lei aiuto e conforto, e desiderava tanto di aprirle l'animo suo!
– Perchè non poteva scendere nella biblioteca? – domandò.
– Ermanno dopo il pranzo è stato inquieto ed ha voluto coricarsi presto. Aveva mal di capo, ed io temeva che la congestione alla testa lo minacciasse di nuovo. Ora dorme, ma prima di addormentarsi ha voluto che io gli promettessi di non allontanarmi, per essergli vicina se chiamava.
– Posso restar qui? – chiese ancora Gualberto.
– Ma sicuro. E sono contenta che ella sia qui. Anch'io oggi sentivo il bisogno di... – si arrestò incerta – di una buona parola, ero angustiata per lei e non potevo chiederne conto a nessuno. A pranzo ho visto che s'era operato in lei un mutamento. Mi sono forse ingannata?
– No – rispose con vivacità Gualberto – le cose che m'ha detto hanno portato buoni frutti. Ho mutato; non come volevo io allora, ma come volle lei.
– Davvero!... – disse Jeronima con un sorriso; poi lo guardò un momento pensosa, appoggiandosi al parapetto della terrazza. – Quando, come è stato? – aggiunse con quella sua voce bassa e melodica che lo animava a confidarle i più segreti pensieri.
– Oggi – rispose Gualberto, facendosele vicino e appoggiandosi, come lei, al parapetto. – Oggi ho vissuto tanti giorni in poche ore! – Vi fu un breve silenzio. Jeronima guardava il viso intelligente e animato di Gualberto, in questo momento tutto illuminato dalla luna che lo faceva parere pallidissimo. – Oggi ho deciso – disse con voce ferma – resto prete per sempre! –
Jeronima si scosse, si rialzò e lo guardò turbata da quelle parole.
– Proprio? È deciso? – disse piano.
– Si maraviglia, Jeronima? – domandò Gualberto. – Non ho fatto bene?
– Sì, ha fatto bene, – rispose ella prontamente con la consueta energia.
– Ma perchè m'ha parlato adesso a questo modo? mi dica sinceramente perchè? Si pentì di quanto mi disse allora? – domandò con impazienza Gualberto.
– No. Non mi pentii di quello che le dissi – replicò Jeronima. – Vi pensai molto, e più vi penso e sempre più mi convinco d'averle detto ciò che avrei fatto io stessa nel caso suo. Ma oggi, non so perchè, credetti per un momento che la sua tranquillità e serenità d'animo nascessero in lei appunto dall'aver presa la decisione contraria.
– E non le dispiaceva... – domandò con insistenza Gualberto.
– Disapprovavo, ma non sentivo dispiacere, – rispose ella con franchezza. Gualberto non replicò. Pensava con doloroso scontento quanta indifferenza rivelavano le sue parole, e senza indagarne il motivo si sentì umiliato. Ma poi gli venne una nuova idea.
– Ed ora, – domandò – le dispiace quello che ho detto?
Jeronima si volse maravigliata, lo fissò con quel suo limpido sguardo, che in alcuni momenti aveva tutta l'ingenuità di uno sguardo infantile.
Era imbarazzata. Doveva dire i suoi pensieri, spiegare le sue impressioni senza averle prima spiegate a sè stessa? Che ragione poteva egli avere nel cercare di soddisfare queste piccole curiosità?
– Se mi dispiacque? – rispose incerta. – Sì! Mi dispiacque. Non so perchè, eppure son certa che ha fatto bene. –
Gualberto provò un sentimento di soddisfazione.
– Feci bene e lei provò dispiacere che io facessi il mio dovere? – chiese ancora.
– Fu un sentimento stolto e piccino d'egoismo, – rispose Jeronima con maggiore franchezza, – per un momento lei s'era avvicinata a noi, ora di nuovo si allontana... –
Gli occhi di Gualberto brillarono a quelle parole.
Aveva capito.
– No, Jeronima. Sono qui, più vicino che mai al soave fascino degli affetti umani. Non ho scelto la via lunga e distante che percorre gli spazi interminabili del mondo ideale, popolati come i vasti deserti da una fata morgana ingannatrice: ho scelto un modesto sentiero che rasenta la terra... vuol sentire la storia dei miei dubbi e della mia decisione? – domandò Gualberto.
– Sì, – rispose con vivacità Jeronima, – mi dica tutto. –
Allora con voce bassa, poggiato al parapetto della terrazza, le narrò l'istoria di quel giorno, le disse della sua breve gioia, della sua disperazione, della lotta che lo aveva straziato e della vittoria riportata; tutto disse, tranne l'incontro col Campaldi.
Jeronima ascoltava in silenzio, non veduta da Gualberto. Teneva i suoi grandi occhi fissi sul volto di lui che le parlava talora con voce tremante, talora animato dalla foga dei suoi pensieri; la brezza notturna increspava i suoi capelli castagni intorno alla candida fronte, e con la bella persona mollemente inclinata sul parapetto di marmo, pareva spirare attenzione da ogni movenza, sembrava ascoltare con rispetto pietoso.
Gualberto le diceva tutto, le rivelava i più segreti pensieri. Quei grandi occhi, mentre si fissavano sopra di lui, gli avrebbero strappate le più umilianti confessioni, se egli avesse avuto argomento a farne. Ma erano giovani entrambi. La moglie di quel fanciullo che moralmente non sarebbe mai divenuto uomo, quel giovane sacerdote che aveva in sè ben altri istinti, ben altre tendenze che quelle che egli era chiamato a manifestare nella sua vita, côlto nel trasporto più ardente di una fede illimitata, dal gelo del dubbio, erano puri entrambi, avevano quel candore morale che nelle nature forti ed energiche prende talvolta la forma severa dell'austerità.
Jeronima era certamente così. Imparava a conoscere quei sacrifizi che s'impongono gli eletti di questo mondo, allorchè sono infelici e sdegnano venire a patto colle più umili gioie della vita per trarne conforto. Gualberto invece aveva ancora dinanzi a sè molte ore di lotta prima di poterle rassomigliare; era nell'indole sua la necessità di ricercare continuamente cose che la parte più forte e migliore di sè gli doveva vietare. E la lotta doveva durare un pezzo.
Sul finire della sera, la luna sparve dietro un fitto velo di nebbia, e dei nuvoloni s'accavallarono intorno alle vette dei monti, avvolgendoli quasi sino alle falde. Le onde si infrangevano con insistente rumorìo contro le mura del castello, e la brezza leggiera che aveva dapprima scossi leggermente i capelli di Jeronima, cambiatasi in un vento freddo e violento, fischiava sinistramente fra le gole dei monti.
Ma essi non l'avvertirono. Gualberto parlava ancora, Jeronima ascoltava.
Si sentiva tanto felice di poterle aprire l'animo suo, lo confortava tanto il sapersi ascoltato da lei, il deporre ai suoi piedi la confessione dei suoi dolori!
Di tratto in tratto Jeronima rispondeva dolcemente, a voce bassa, e quella voce sembrava a Gualberto un incanto, una melodia nuova che esercitava un fascino strano e potente sopra di lui.
– Jeronima, – disse finalmente, – ho rinunciato a molte cose che ancora non conosco... se un giorno me ne venisse il desiderio potente, irresistibile?
– Si soffre e si lotta... ma poi si vince. – rispose ella, guardandolo con pietà ed affetto.
– E se non avrò nessuno allora che mi aiuti, se lei Jeronima non mi sarà vicina? –
Jeronima lo guardò un momento perplessa.
– Ma io sarò certamente lontana, – rispose mestamente, – le nostre vie giaciono discoste l'una dall'altra. La sua volontà e la sua energia la sapranno aiutare più efficacemente di me. –
Gualberto crollò il capo e disse:
– No, no, la volontà e l'energia non bastano, sono aride, infeconde, ci vuole una mano amica, un affetto che mi sorregga nelle ore tristi.
– Vi sono persone che darebbero tutta la potenza del pensiero, tutte le gioie dello spirito per un affetto, – continuò a dire Gualberto quasi parlasse fra sè; – tutto il mondo è pieno di una grande, misteriosa parola che lo empie di sorrisi e di dolore; tutti ne parlano; la sa il povero, la sa il ricco, la sanno gli alberi, i fiori, gli uccelli che volano per l'aria; quella parola è amore! Jeronima, – disse vivamente, – che cosa sarà l'amore? –
Jeronima guardò il cielo oscuro, il lago in burrasca, e, côlta da un brivido, strinse la mantellina intorno alla sua persona. – Speriamo, – rispose lentamente, mentre un lampo rischiarava il suo viso commosso e pensoso, – speriamo di non saperlo mai!
– E se un giorno lo indovinassi, lo sapessi? – chiese ancora vivamente Gualberto.
– Allora bisognerebbe chinare la testa e soffrire, bisognerebbe accogliere l'amore non come nemico, ma come dolore benefico che ci ritempra l'animo. L'amore feconda ogni cosa, potrà fecondare anche lo spirito e farlo più grande.
– Jeronima, – domandò Gualberto commosso, senza saperne il perchè, – Jeronima, non ha mai amato?
– No – rispose ella con semplicità.
– E... – ma Gualberto non finì la sua interrogazione.
– Che cosa chiede? – diss'ella un poco severamente.
– Perdoni, – rispose Gualberto, – sono indiscreto come un fanciullo. –
Dopo queste parole tacquero entrambi, e ascoltarono insieme il vento che sibilava negli anditi e fra gli alberi, il lago che s'infrangeva contro il castello, il cupo e lontano brontolìo del tuono. Erano commossi entrambi, agitati come la natura che li circondava.
– Presto dovrò partire, – disse dopo quel silenzio Gualberto, – torno a Roma.
– Partire? – esclamò dolorosamente Jeronima.
Un lampo li rischiarò in quell'istante, e lo sguardo di Jeronima incontrò quello ardente di Gualberto: – Partire? – ripetè, e pensò a lui, a sè, a tutta quella sua triste esistenza.
– Non potrò tornar qui, – disse ancora Gualberto, – ne dirò in altri tempi la cagione; e non posso neppure starmene laggiù sempre solo, senza cercare un consiglio, senza dirle le lotte e gli sconforti del mio spirito. –
Jeronima non rispose, teneva gli occhi fissi sul marmo del parapetto e stringeva le mani con moto convulso.
Anche lei rimaneva sola, e mai non le era parsa orribile come in quest'ora la tetra immagine del suo avvenire.
– Jeronima, non posso, – continuò a dire piano, con accento commosso, Gualberto. – Non mi regge il cuore a partire di qua. – Poi aggiunse con impazienza: – A lei, Jeronima, non importa; lei ha la forza di viver sola, la sua volontà è più potente d'ogni altra cosa.
– No, – disse piano e lentamente Jeronima. – non so perchè, adesso ho paura di restar sola, l'energia mi vien meno e mi si stringe il cuore pensando che...
– Che io parto? – interruppe con violenza Gualberto, e le prese una mano e cercò di vedere il suo viso in quella oscurità. Un lampo la rischiarò anche questa volta, ma i loro sguardi non s'incontrarono. Jeronima teneva gli occhi bassi. Era sorpresa in questo momento da un tumulto di sentimenti e di pensieri, di gioie e di paure che le invadevano l'animo e che le erano sconosciuti.
Il cuore di Gualberto batteva con violenza, quella piccola mano fra le sue pareva gli facesse correre più rapidamente il sangue nelle vene, suscitasse anche in lui, ma più violenta assai, una tempesta di sensazioni e di pensieri che cresceva ad ogni momento e che egli cercava invano di domare.
– Che cos'è stato? – disse con voce soffocata dalla commozione. Jeronima cercò di svincolare la sua mano da quella di Gualberto, ma non potette.
– Jeronima, – disse piano, – se quello che chiedeva di sapere pochi momenti or sono, adesso lo sapessi già?... –
Essa alzò gli occhi e lo fissò atterrita.
– Gualberto!... – mormorò, quasi indovinasse ciò che egli stava per dire e gl'imponesse di tacere.
– Se questo che provo ora fosse amore? Se... se... Jeronima, io ti volessi bene? Se non avessi confessato tutto e mi restasse a dire ancor questo? – Gualberto parlava presto, agitato, fissandola con degli sguardi ardenti. Le prese le mani, si chinò verso di lei, e, come fosse colto da vertigine, non vedendo più nulla, non sapendo più niente fuorchè il desiderio insensato che lo dominava, la gioia indicibile che gli faceva battere il cuore, posò le labbra sulla sua fronte, sopra i suoi capelli, avrebbe voluto aprire le braccia e stringerla al petto, coprirla di baci e di carezze; ma anche in quel turbine lo trattenne un sentimento puro e gentile, una volontà elevata, e le sue labbra ardenti si fermarono su quella bianca fronte con rispetto in mezzo a quel primo delirio d'amore. Fu l'opera di un momento.
Jeronima si scostò da lui e disse con voce tremante:
– Gualberto, non volevamo lasciarci, ed ora dovremo dividerci per sempre. Sarà una triste verità imparata a caro prezzo. – Parlava coll'ingenua semplicità e con la dignitosa fermezza che le era abituale.
Gualberto ancora agitato, confuso per le sue parole, vergognoso di quell'impeto subitaneo, le rispose umilmente:
– T'amo, Jeronima, ti amavo anche prima, ma non lo sapevo. Non so chi di noi lo disse or ora all'altro; forse tu non ne sai niente, ma io non lo scorderò più. – Jeronima si volse come volesse lasciarlo, ma egli la trattenne. – Non fu lei che mi disse che l'amore convien trattarlo come un dolore che feconda lo spirito e lo fa diventar grande? Che cosa possiamo chiedere noi che egli non ci possa dare? Siamo poveri in confronto degl'altri.
– Siamo onesti, – rispose severamente Jeronima – ed abbiamo fatto entrambi delle promesse.
– Lo so, – rispose con impazienza e severità Gualberto; poi la guardò, velata com'era dall'ombra di quella notte tempestosa, e gli parve sentire tutto l'animo suo giovanile chinarsi riverente dinanzi a quella forma adorata. Che cosa non le avrebbe detto per trattenerla? Che cosa non le avrebbe giurato per essere certo che essa non lo dimenticava, che non si sarebbe allontanata da lui? – E le nostre promesse – continuò egli a dire – che cosa hanno di comune con ciò che io ti chiedo, Jeronima?
Jeronima chinò il capo quasi fosse umiliata d'aver potuto pensare ad una colpa. – A chi hai promesso i tuoi pensieri, a chi le immagini della tua fantasia, le speranze e i dubbi della tua mente? Chi le può ricevere, valutare?... Quei pensieri, quelle speranze, quei dubbi, io li voglio per me, Jeronima, – disse Gualberto con forza, prendendole di nuovo la mano; – voglio tutta quella parte di te che non è posseduta da nessuno, perchè non v'ha chi sia capace di possederla, ed io ti do in cambio tutti i miei affetti, tutta la vita del mio spirito, tutte le adorazioni, di cui è ancora capace il mio cuore.... Perchè tremi, Jeronima? Tu così forte nella sventura, così altera e sicura di te stessa, tremi?
– Sì, tremo, – proruppe con voce commossa Jeronima; – perchè il mio cuore batte di gioia, perchè mi sento felice, perchè tutti i desideri, le speranze della mia prima giovinezza mi si affollano come per incanto alla mente in quest'ora.... e questa gioia, Gualberto, mi fa paura come dovesse fare del male ad altri...
– Ti adoro, – disse piano Gualberto, chinando il suo capo e baciando la mano di Jeronima. – Non so come, non so perchè, ma sento che in questo momento un legame indissolubile si stringe per sempre intorno ai nostri pensieri e ai nostri affetti. La mia parte nel mondo mi sembra facile ora che tu sei con me... No, Jeronima, non ci lasceremo; non so spiegarti in qual modo, ma sento che non saremo mai più divisi. Che v'ha di male in questa gioia? Non s'amarono così, fra gli orrori e le angosce dei primi secoli cristiani, altere e virtuose matrone, credenti alti d'ingegno e grandi per virtù, che si narrarono a vicenda le gioie della loro fede? Tale è l'amore che fa grandi i pensieri, come dicevi tu; è il nostro, Jeronima;... mi farai buono, mi farai felice, mi sento capace di tanto ora che ti porto nel cuore. –
Un colpo rabbioso di vento scosse tutte le porte e le finestre del castello, passò sibilando fra i tetti e le torri, mentre il tuono rispondeva minaccioso accompagnato da lampi continui. Jeronima fece un movimento improvviso.
– Ermanno chiama! – disse impaurita.
– Non ho sentito nulla. È il vento, – rispose Gualberto.
– Mi par di sentire delle voci... – disse Jeronima.
– Non sento che la tua, e il temporale che infuria accanto a noi. Che importa di lui! Nella tua voce, Jeronima, sento tutta l'armonia, la tranquillità di un giorno sereno, e questo giorno che sorge adesso nel mio cuore splenderà di luce e di sole, finchè vivo. Quante cose intendo ed indovino ora, che prima non sapevo! Perchè non mi parli, perchè non mi dici tu? perchè lo dici a tuo padre, a tua madre, ai tuoi fratelli e non a me? – domandò con passione ed impazienza Gualberto.
– Perchè ho paura del tumulto insolito dei miei pensieri, perchè non ho ancora avuto il tempo di rendermene conto, perchè le sole cose che potrei dire sono tali, che mi sembrano come un'offesa ad altri, come se le parole fossero cose reali che potessero far male a chi non ne ha colpa... Eppure... – disse dopo un momento di riflessione con ingenua spontaneità – eppure mi sento felice, mi pare che dopo tanti mesi d'isolamento, di uno sforzo continuo per tollerare l'esistenza, ora mi accolga finalmente un affetto... mi sorregga un forte pensiero... Mi pare... – aggiunse piano quasi temesse che il vento portasse seco il suono delle sue parole – mi pare, Gualberto, di doverti ringraziare con tutta la forza dell'animo mio. – A quei detti un turbine colse di nuovo tutti i pensieri, tutti i sentimenti di Gualberto, ma si trattenne; strinse forte forte le mani di Jeronima e vi posò le labbra.
– Mi dono a te per sempre, – disse. – È un altro voto questo, non meno puro e più sincero di tutti gli altri. La sola, l'unica vera promessa che mi esca spontanea dal cuore. – Ma Jeronima si scostò di nuovo improvvisamente da lui.
– Vuoi lasciarmi? – domandò dolcemente Gualberto.
– No, – rispose con fermezza Jeronima. – Ma ora voglio rientrare in casa; temo che questo temporale non mi permetta di udire la voce di Ermanno. Ho bisogno di raccogliermi, di riflettere, di pensare al turbine che mi ha travolta in quest'ora.
– Va... – disse mestamente Gualberto – che i tuoi pensieri sieno buoni, che ti parlino in favor mio, che ti dicano ciò che direi io stesso... Addio, Jeronima, – aggiunse, quasi dovessero lasciarsi per un pezzo. Ti ho dato l'anima mia come il Faust donò la sua a Mefistofele, ma tu che sei pura come Margherita, portamela in cielo e non lasciarla trascinare fra gli stenti ed il fango della terra; ricordati che io non l'ho più, perchè l'ho data a te. Ciò che mi resta non è mio, ma è tuo. Son tutto assorto nell'immagine tua, n'è piena la notte, ne sarà pieno domani ogni luogo ove io vada. –
– Addio, – disse; – è una notte buia, procellosa, e mi sento impaurita dalle tenebre, mentre a momenti un raggio di gioia mi scuote, e m'illumina come un lampo ogni cosa. Addio, Gualberto... dico anch'io questa sera come tu mi dicevi altre volte... vorrei pregare, adorare... – Si guardarono un momento in silenzio, si strinsero le mani e poi si lasciarono senza dir altro. Ciò che avevano in cuore era tanto da non dirsi con un saluto.
Jeronima entrò nel suo salotto e di là passò nella camera di Ermanno, la quale aveva pure una porta con vetri che metteva alla terrazza, che in quella sera era stata chiusa per tempo. Non erano però state calate le tende nè chiuse le persiane, e i lampi rischiaravano di quando in quando tutta la camera.
Jeronima entrò piano piano, senza lume, e stette in orecchio. Il respiro di Ermanno le parve irregolare; ma egli non si moveva, e dopo qualche istante, credendo che dormisse, tornò nel salotto, e, senza farsi portare la lampada, sedette al buio in una poltrona, appoggiò il viso alle mani e pensò.
La porta che metteva alla camera da letto era rimasta aperta. Dal letto ove giaceva lo scemo, potevasi vedere la graziosa figura di Jeronima, ogniqualvolta il lampo l'illuminava.
I suoi piccoli occhi aperti, pieni di lagrime, fissavano nell'oscurità quel punto ove ella sedeva, e pareva che egli volesse squarciare, coll'intensità di quello sguardo fisso, l'oscurità della notte e il denso velo che avvolgeva la sua mente.
Voleva pensare e non poteva.
Voleva ricordare una cosa e poi un'altra, con ordine, e non gli riusciva. Aveva bisogno di rammentare e commentare dei fatti; ma gli accadeva come a chi volesse rammentare i vari capitoli di un libro, e che ogni volta che fosse giunto a saperne uno, dimenticasse poi tutti gli altri o quando cercasse sovvenirsi del primo, non gli venisse fatto che di sapere l'ultimo.
S'era destato quando Jeronima e Gualberto avevano incominciato a discorrere sulla terrazza e li aveva guardati sempre.
S'era messo a piangere allora, e aveva guardato e pianto alternativamente, senza sapere perchè piangesse.
Gli pareva a momenti d'essere tornato piccino; e che Gualberto, il quale era il minore, fosse invece maggiore di lui, e in quell'agitazione febbrile della sua povera fantasia, parevagli che entrasse nella camera dei suoi balocchi e gli portasse via il più bello.
Egli aveva dormito qualche minuto, mentre essi discorrevano e aveva fatto allora quel sogno.
Il viso mesto e severo di Jeronima sorrideva nell'oscurità, ed Ermanno la vedeva sorridere ogniqualvolta appariva illuminata dai lampi. Non l'aveva mai veduta sorridere a quel modo. Essa gli sembrava un'altra. Dei grossi goccioloni gli cadevano dagli occhi, e nella sua semplicità gli venne un'idea fanciullesca. Volle provare a chiamarla. Forse chiamandola col solito nome sarebbe riapparso il medesimo viso, la medesima donna.
Jeronima si scosse, si alzò, corse nell'altra camera.
– Voglio il lume, – balbettò Ermanno.
Jeronima accese il lume e guardò, maravigliata, il viso bagnato di lagrime di Ermanno.
– Hai pianto? – domandò premurosamente. – Ti senti male? –
Egli non rispose, la guardava e non poteva vederla bene, aveva gli occhi gonfi e la luce quasi improvvisa del lume lo acciecava.
– Perchè piangi, Ermanno? – tornò a dire amorevolmente Jeronima.
– Non so, – rispose. – Vieni più vicino, – disse dopo un momento di silenzio. – Voglio vederti.
Jeronima si avvicinò al letto e gli accostò il lume al viso; poi sorrise, perchè sapeva che egli le chiedeva sempre di sorridere.
– Non ridere, non ridere così, – gridò con impazienza, e volse il capo dall'altra parte.
– Che cos'hai, Ermanno? – disse amorevolmente Jeronima. – Sei ammalato? Hai qualche dispiacere?
– Non ho nulla. Non so che cos'ho, – gridava impaziente, tenendo sempre il viso nascosto nei guanciali, come un bambino che fa le bizze.
–Ma che cosa vuoi? Che cosa posso fare per te? – chiese Jeronima, maravigliata di quell'insolito capriccio.
– Voglio... voglio... – balbettò lo scemo, volgendo un poco il viso verso il lume – voglio che tu pianga come me.
– Piangere? Ma perchè? – rispose Jeronima.
– Perchè piango io, – disse quel poveretto.
– Non è cosa che si possa fare senza motivo, per capriccio, – replicò dolcemente.
– Non puoi piangere ora?... – disse, fissandola con quel suo viso stravolto e con quell'espressione speciale che aveva quando cercava di afferrare un'idea. – Io piango e tu non puoi? io provo tanto dolore, non so perchè, e tu ridi?... è come se io fossi solo solo in mezzo al lago – ed egli sentì un brivido, perchè l'acqua gli metteva tanta paura – e che tu fossi lontana, di là dai monti, in un bel paese, ove io non potessi seguirti...
– Tranquillati, Ermanno, – disse lei amorevolmente; – che inutili pensieri sono questi? Provati a dormire. Io resto qui. – E posò il lume in terra e sedette in una poltrona, come si fa coi bambini che non vogliono addormentarsi.
Lo scemo non rispose. Vi fu un breve silenzio, e Jeronima credette che egli seguisse il suo consiglio; ma poi, a un tratto, egli ricominciò a parlare.
– T'ho vista piangere tante volte, – disse coll'insistenza indiscreta di un fanciullo, – e ora perchè non puoi? Che cosa importa essere due, stare nella stessa casa, alla stessa tavola, discorrere, guardarsi, essere vicini, chiamarsi sempre, vivere gli stessi giorni, e poi che uno dei due sia solo a piangere... e l'altro rida? – Ermanno balbettò a stento e ci mise un pezzo a proferire queste parole.
Jeronima sentì profonda compassione per lui.
– Ma, Ermanno, perchè dici queste cose? Non sai che qui tutti ti vogliono bene, e se tu avessi un vero dolore, tutti piangerebbero con te? – replicò con affetto.
Egli non le rispose. Si voltò e rivoltò inquieto nel letto; poi stette un pezzo immobile, leggermente assopito.
Jeronima, sempre seduta nella poltrona, lo vegliava; era impensierita da quelle insolite parole e dalla sua irrequietezza. Temeva che fosse di nuovo ammalato.
Improvvisamente egli balzò nel sonno e la chiamò.
– Sono qui. – rispose ella prontamente facendoglisi più vicina per chinarsi sopra di lui. – Che cos'hai?
– Nulla... nulla... – disse con respiro affannoso. – Sei qui... grazie... Sognavo... – poi ristette un istante, perchè l'argomento del suo sogno si dileguava dalla sua debole memoria – sognavo... – guardò di nuovo Jeronima, perchè rammentava che il sogno trattava di lei e voleva narrarlo. Ma fu impossibile. Non poteva ricordarsene. Aveva sonno e ricadde sopra il guanciale per dormire ancora.
– Non andar via, Jeronima, – disse, quasi supplicando, come avesse paura.
– No, non vado via; dormi che io sono qui, vicina a te, – rispose sollecitamente.
Prima di dormire Ermanno aprì ancora una volta gli occhi e guardò, a caso, dalla parte della finestra; vide, traverso i vetri, la terrazza, la torre oscura del castello, che sorgeva come un fantasma dietro ad esso nelle tenebre di quella notte burrascosa, e si risovvenne, a un tratto, del sogno che gli aveva dato tanto sgomento.
– Jeronima, – disse vivamente, – adesso lo ricordo.
– Che? – domandò ella con maraviglia.
– Il sogno di dianzi, – rispose. – Sognai che Gualberto ti portava via! –
Jeronima si scosse tutta a quelle parole. Le facevan paura, le facevan pietà, la empirono di uno sgomento nuovo per essa, di uno sgomento vago, incerto, che rassomigliava a grida della coscienza contro una colpa che sapeva non avere commessa. Le pareva di aver colpito un essere senza difesa, più debole di lei; le pareva di aver fatto, volontariamente, soffrire un altro buono e innocente.
Non rispose, non si mosse; non un gesto non una sillaba, rivelarono il violento fluttuare dei suoi pensieri in quell'ora.
Lo scemo si addormentò profondamente, e Jeronima, seduta accanto al letto, vegliava e pensava immobile e silenziosa.
Suonarono le due dopo la mezzanotte. Il tempo cattivo durava sempre, e il lago sbatteva, infuriato, le onde contro quelle vecchie mura.
Jeronima, allorchè sentì battere le ore, si alzò, ed accostatasi ad una finestra nel fondo della camera che prospettava la valle, l'aprì piano piano e guardò nella notte buia e fredda. Le cime dei monti erano coperte da neri e densi nuvoloni, la valle era tutta una macchia buia, nella quale non era possibile discernere il contorno di alcuna cosa; ma più giù, dov'era il bosco degli abeti, Jeronima vide uno strano lucicchìo come di fiaccole o di un lontano incendio. I tronchi degli abeti staccavansi sopra un fondo velato di luce rossastra, come fossero fantasime magre e lunghe, deformi e grottesche, e i rami mossi furiosamente dal vento, sembravamo le vesti disciolte e lacere di quegli spettri.
Provò, suo malgrado, un sentimento di timore. Era una notte orribile, e l'animo suo era turbato, commosso; e mentre si affacciava a quella finestra, e guardava la scena tetra e fantastica che le si presentava alla vista, ebbe un presentimento di sciagura.
Stette un pezzo intenta ad osservare la luce misteriosa nel bosco; poi venne uno scroscio d'acqua violento che velò ogni cosa, e battendole nel viso, l'obbligò a richiudere la finestra.
Allorchè la pioggia diminuì e che potè riaffacciarsi, quel chiarore nel bosco si era dileguato.
– Sarà stato un abete che ardeva, colpito dal fulmine, – pensò Jeronima, richiudendo una seconda volta la finestra. Ma non le riuscì di cacciare i tristi pensieri che si presentavano alla sua mente dopo gli avvenimenti della sera e la tetra vista di quella notte tempestosa. Pensava anch'essa, come l'avranno fatto, nella medesima ora, molte povere contadine nelle loro capanne, alla leggenda della contessa Valfreda, alle disgrazie che essa annunciava. E in quella notte, mentre Jeronima dormiva nel suo letto parato con gravi cortine di damasco, le sembrava che il vento muovesse quelle tende, e che le dolci melodie di un liuto lontano, tanto lontano, che in sogno non sapeva se la distanza fosse di spazio o di tempo, arrivassero sino a lei e le narrassero la storia, vecchia come il mondo, eppur sempre nuova come la prima luce dell'alba, di un amore grande, eterno, che viveva da secoli; istoria raccolta pietosamente dalla leggenda, perchè non fosse dimenticata mai. E in sogno sentiva piangere Ermanno e riudiva le ardenti parole di Gualberto, e provava un dolore acuto e nascosto, per il quale lo spirito suo sembrava dovesse lacerarsi, dividersi, farsi in due parti, e quel dolore non finiva mai, perchè le parti non erano mai uguali.