Emilia Ferretti Viola (alias Emma)
La leggenda di Valfreda
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XV.

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XV.

Gualberto si destò alla mattina del giorno seguente, quando il sole splendeva già nella sua camera da un pezzo, e si destò riposato e tranquillo dal sonno profondo della notte. Ripensò ad una ad una le vicende del giorno scorso, e gli sembrò d'essere un uomo nuovo.

Si sentì più forte, perchè gli parve dovere quella tranquillità a stesso e all'opera vigorosa del proprio intelletto, che gli avea tracciato una via che avrebbe seguìta irrevocabilmente. Poi pensò con tenerezza al Campaldi, a sua madre, a Jeronima. La gentile immagine di lei stette lungamente presente ai suoi pensieri. Al primo affacciarsi di essa alla sua memoria fu turbato, e una commozione violenta, sconosciuta, lo agitò; poi si sovvenne che presto doveva partire.

Come vivere più lungamente sotto allo stesso tetto col conte di Ardenberg, che non era suo padre, e che gli aveva amareggiata tutta l'esistenza colla sua spietata vendetta? Come rammentare senza tradirsi tutti i tristi episodi della sua infanzia, e l'ipocrisia con cui lo avea trattato in questi ultimi tempi? Era necessario partire, tornare a Roma.

Tornare a Roma?

Gualberto sostò nelle sue riflessioni, allorchè ripensò improvvisamente alla sua vita di prima. Per un momento, con una chiarezza subitanea, si rivide quale era stato una volta; riebbe sott'occhio tutti i minuti particolari della sua vita in Roma; rivide la sua camera, i suoi mobili, i suoi quadri, i suoi libri; e gli parve d'essere un vecchio che ricorda i giorni lieti della giovinezza.

Evocò la dolce immagine di Jeronima per scacciare quei pensieri; ma quell'evocazione non bastò.

Quanto egli aveva sognato laggiù fra le pompe artistiche e religiose della Roma cattolica, era stato così smisuratamente grande, era stata cosa tanto bella, che non v'era affetto terreno, incanto di sorriso di donna che la potesse pareggiare. Gualberto chinò mestamente il capo.

Egli sapeva che ormai non avrebbe più trovato al mondo cosa che gli bastasse. Alla sua sete la realtà non poteva dare che delle scarse goccie di acqua, mentre le illusioni ora perdute, la fede irremissibilmente spenta, in altri tempi lo avevano dissetato, inebbriandolo di speranze sempre nuove.

Il prete è l'albero svelto dalla terra, destinato a vivere artificialmente. Invano si studia, allorchè altre covinzioni lo traggono a vivere diversamente, di rimettere salde radici nel terreno; le fibre scosse e lacere non possono più aderirvi come prima, e non potendo alimentarsi compiutamente nella realtà, e mancandogli d'altra parte il nutrimento artificiale, rimane vivo a stento in mezzo agli altri, col desiderio del passato e l'impotenza di gustare il presente in tutte le sue forme.

Gualberto sentiva che egli era destinato a scontare questa pena, e pensava con amarezza alla sua partenza.

E Jeronima?

Come vivere a Roma senza di lei? senza vederla, senza farla partecipare a tutti i suoi pensieri, senza chiederle consiglio, come fosse un essere superiore, più buono, più giusto di lui?

La sua parte era ardua, richiedeva abnegazione e forza di volontà continua. Doveva amare gli uomini, eppure giudicarli con sì fredda imparzialità da poter loro insegnare, a poco a poco il vero, sotto la maschera dell'errore, quasi fossero fanciulli; doveva combattere cauto e insistente l'istituzione cui apparteneva; doveva farsi d'orecchio sottile e d'intuizione pronta, per sentire o indovinare l'ora opportuna e appropriare l'opera sua alle necessità di quell'ora; doveva, dopo aver percorso lungo e arduo cammino, tornare addietro, prendere gli uomini al punto ove li avea lasciati, e senza rivelare improvvisamente la mèta, indirizzarli sulla sua via.

E in tutti questi disegni per l'avvenire, Jeronima aveva la parte maggiore; a lei sempre pensava, riordinando nella mente la sua futura esistenza. In quella mattina vi pensava, non solo con insistenza, ma il pensiero di lei lo turbava, gli faceva battere il cuore, e a momenti la sua severa mestizia si dileguava dinanzi a nuovi inconsueti impeti di gioia, che il ricordo di una sua parola, di un gesto, di uno sguardo evocava a un tratto in mezzo alle più tristi meditazioni.

A colazione si rividero.

Si salutarono come vecchi amici; ma in fondo al cuore entrambi erano turbati, come non si fossero mai veduti prima d'allora.

Presso a lei egli ridivenne lieto. La contessa Beatrice lo guardava con tenerezza; avrebbe voluto ringraziarlo di farla felice con quel sorriso giovanile, con quello sguardo vivace, che da un pezzo la povera madre aveva desiderato invano di rivedere.

Il conte d'Ardenberg non c'era, e verso la fine della colazione anche Jeronima discorreva e sorrideva come da un anno non aveva mai sorriso o discorso.

La contessa Beatrice era felice di questa breve ora di lieta espansione in mezzo ai suoi figliuoli.

Ermanno, come al solito quand'erano tutti riuniti, non parlava; gli si faceva capire a stento e difficilmente afferrava il senso dei discorsi che non erano fatti per lui e adattati alla sua intelligenza; nessuno quindi si maravigliò del suo silenziò in quella mattina.

Ma se lo scemo non parlava, stava attento attento ai discorsi degli altri, e guardava, maravigliato e impermalito, l'insolita vivacità, il lieto discorrere di Jeronima.

Essa aveva un viso nuovo per lui. Egli non era mai stato capace di evocare per solo quella espressione lieta. Era Gualberto che la faceva discorrere; a lui rispondeva sorridendo; questo mutamento era opera di lui; lo scemo lo sapeva, come se glielo avesse detto sua madre stessa, la persona cui prestava maggior fede.

In quella mattina non poteva soffrire suo fratello, non poteva più vedere il viso sorridente di Jeronima. Si sentiva avvilito, rabbioso e umiliato ad un tempo.

Ma le sue impressioni, appena sbozzate, gli svanivano dalla mente, e le sensazioni in lui, erano quasi sempre esaurite prima che divenissero percezioni, non poteva quindi meditare intorno a ciò che provava.

Si alzò da tavola appena ebbero finito, e volle tornare nel suo appartamento, pregando Jeronima di accompagnarlo.

Sua madre lo rimproverò dolcemente di non trattenersi, poi gli disse che Jeronima rimaneva più volontieri con loro.

Veramente... – domandò Ermanno – non vuoi venire con me?

– Sì, se ti fa piacere. Ma perchè vuoi oggi lasciare tua madre prima del solito? – replicò Jeronima. Lo scemo insistè perchè ella venisse, ed essa rammentando la notte inquieta che egli aveva passato e le parole della sera innanzi, non ardì contraddirlo, e si alzò per seguirlo.

La contessa Beatrice disse allora un poco severamente, che egli non doveva abusare a questo modo della grande bontà e pazienza che Jeronima aveva per lui, ed invitò la nuora a restare; ma essa, intenerita dallo sguardo supplichevole del poveretto, non volle affliggerlo con una negativa, e lo seguì.

Grazie Jeronima! – disse affettuosamente; poi chinò il capo, tutto addolorato, e disse fra : – Anche la mamma mi ha sgridato... vuol più bene a Gualberto, che è bello e sa tante cose e intende tutto così presto!


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