Emilia Ferretti Viola (alias Emma)
La leggenda di Valfreda
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XVI.

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XVI.

Allorchè furono tornati nel loro appartamento, Ermanno volle andare sulla terrazza, e insistè perchè si mettessero a sedere proprio nel punto ove aveva veduto, la sera innanzi, Gualberto e Jeronima che discorrevano insieme.

Rivedendo quella terrazza, ove era stata con Gualberto, Jeronima si turbò, si fe' seria e volle rientrare nel salotto. Ma Ermanno con la sua ostinata fanciullesca insistenza, ottenne che rimanessero ove erano.

Perchè, Jeronima, sei adesso così seria, e non parli più? – domandò Ermanno.

– Non si può sempre discorrere, – rispose con tranquillità.

– Ma ieri sera, allorchè tu discorrevi qui con Gualberto, avevi tante cose da dire... – replicò Ermanno: Jeronima si scosse, lo guardò intimidita e confusa – e a me, – continuò egli, – a me non parli neppure. – Le prese la mano e volle baciarla.

Jeronima fece un movimento quasi di paura senza avvedersene, e lo respinse. Ermanno ammutolì e la guardò addolorato.

Allorchè Gualberto ti baciò la mano, ieri sera, non hai fatto così, – disse mestamente.

Jeronima indietreggiò spaventata.

Fin dove giungeva l'intuizione di questo poveretto? Era quello un atroce rimprovero, che doveva scuotere tutta la delicata coscienza di Jeronima, come fosse in presenza di un giudice, era un'ingenuità ardita, ignara di colpe, inconsapevole di quanto avesse espresso con quelle parole?

Jeronima guardava umiliata il viso di Ermanno che non esprimeva niente. Egli le aveva parlato con mesta tranquillità.

– È un rimprovero che mi fai? – diss'ella finalmente.

– Un rimprovero? – ripetè maravigliato Ermanno. – Un rimprovero a te, Jeronima? Io dire a te una parola cattiva? Ma sarebbe peggio che offendere Dio, sarebbe dire che i fiori sono brutti, che la mamma non mi vuol bene... – Qui si fermò e disse poi: – Ha ragione la mamma, Gualberto è tanto bello, sa tante cose, e in chiesa forse le grandi figure degli altari gli narrano delle istorie e gl'insegnano a farsi voler bene. –

Jeronima si accostò di nuovo ad Ermanno e volle indurlo a parlare d'altro.

– I quadri sugli altari non discorrono; tu sei buono, eppure essi non ti dissero mai nulla. – Ermanno sorrise con furberia.

–Tu non lo sai. Il giorno stanno zitti; ma la sera, allorchè si accendono i lumi dinanzi a loro, si svegliano, e intanto che gli altri pregano, parlano piano piano; anche a me hanno parlato. –

Jeronima ascoltava con maraviglia le parole strane dello scemo, che da poche ore sembrava mutato e parlava in un modo che le faceva stupore e paura ad un tempo.

Colto dal sonno, avrai sognato, Ermanno, mentre eri al buio e udivi le preci de' contadini, – rispose, cercando di persuaderlo. – E in sogno che cosa ti dissero?

– Non sognavo, lo so, – ribattè egli con impazienza; poi aggiunse dolcemente: – Parlavano sempre di te. Avranno parlato di te a Gualberto, sì, gli avranno parlato di te. La chiesa è cosa sua, egli è il loro padrone; quelle figure gli crescono d'attorno come a me i miei fiori, vorranno più bene a lui che a me. Non voglio che tu vada in chiesa; tutto è suo , le panche, i marmi, Dio e gli Angioli; lui ha tutto quello che vuole, lui sa ogni cosa, io non so nulla. Resta con me, Jeronima.

– Non sono qui, – rispose essa con infinita dolcezza; – e non ci starò sempre? – aggiunse con fermezza, mentre lo guardava mestamente.

– Ci stai perchè sei buona, non perchè ti piaccia, – rispose con insolita prontezza; – adesso che sei qui non sorridi più, pensi a loro, non a me, hai un altro viso: – e la guardava; guardava e muoveva le labbra, cercando di manifestare ciò che pensava, mentre teneva gli occhi fissi sopra di lei; ma erano pensieri che egli non sapeva rivestire colla parola. Aveva il viso rosso, gli occhi splendenti, come avesse la febbre.

– Non stai bene, Ermanno, – gli disse Jeronima; – temo che tu abbia la febbre.

– No, no, – rispose prontamente, – sto bene, benissimo; – e si alzò e si mise a guardare i suoi fiori, che ricominciavano a sbocciare. Jeronima sperò che egli fosse tornato nella quiete abituale e tacque; ma presto egli le si avvicinò: – Se ti perdessi? Se un giorno io fossi qua e tu non ci fossi più? – disse coll'insistenza con la quale soleva sempre tornare sopra i medesimi argomenti, quando questi gli piacevano.

– Ma che motivo hai per credere che io non possa sempre stare con te? – gli rispose Jeronima, cercando di tranquillarlo. – Perchè pensi a queste cose?

– Non so perchè, – disse egli. – Ma da qualche tempo ci penso sempre, e dacchè non stai più tutto il giorno con me e vai a leggere nella biblioteca di mio padre, ci ho sempre pensato. Ho paura di perderti; ho paura che tu mi accompagni un giorno nella chiesa di Gualberto, e che mentre io prego, tu vada via; che poi ti cerchi e non ti ritrovi.

– Ma la chiesa è piccina, – rispose con un sorriso Jeronima, come avrebbe risposto ad un bambino, – e sarebbe facile ritrovarmi.

– È vero, – replicò Ermanno; ma poi se ne stette un poco pensoso; indi aggiunse: – È piccola, ma ci può stare tanta gente; mi pare che nella chiesa più piccola ci potrebbero stare tutte le genti e tutti i fiori e tutta la luce di questo mondo, e sono sicuro che la chiesa diventerebbe grande grande e coprirebbe ogni cosa colla sua ombra, e che le figure sugli altari scenderebbero per far posto, e gli angioli di marmo alzerebbero su su la cupola, per farla diventare più grande se la gente volesse. Non voglio che tu vada in chiesa.

Jeronima non rispose, ascoltava trepidante quelle parole. Che il poveretto diventasse pazzo?

Procurò nuovamente mutare discorso; andò nella sua camera e gli portò certe fotografie che egli non aveva ancora vedute; gli parlò d'alcune piante rare, che dovevano giungere da Trento per lui; cercò in ogni modo di fissare la sua attenzione sopra altri argomenti, ma non vi riuscì. A lei pareva che avesse la febbre e che il colorito insolito del suo viso, lo sguardo più vivace, indicassero che il male, che aveva già minacciato il suo povero cervello, stésse per tornare. Ma egli persisteva nel dire che si sentiva bene. Finalmente le domandò che ore erano.

Jeronima glielo disse.

– È tardi, molto tardi, è l'ora in cui tu scendi a leggere; è un pezzo che sei qua, hai il viso serio, pallido, solito, non come l'avevi ieri sera e stamane... Se io non ci fossi, – disse lentamente, – avresti sempre quell'altro viso contento, sorridente e questo non l'avresti più. Ne sono certo, – aggiunse, come afferrasse rapidamente un'idea che gli apparisse con insolita chiarezza, – saresti un'altra se io non ci fossi... Sono cattivo, sono sciocco io, ma non voglio che tu diventi un'altra, mentre ci sono io, dopo... non importa... La mia Jeronima resta con me così come è adesso... agli altri resta l'altra che non voglio vedere, che non mi vuol bene. –

Le prese le mani e gliele baciò; le colse dei fiori e glieli posò in mezzo a' suoi folti capelli castagni, poi li tornò a levare, se li mise all'occhiello, e gliene dètte altri. Andò nella sua camera per un momento e tornò con una boccetta piena di profumo, e gliene versò sulle mani, sul collo, sui capelli, poi sopra i piedi; si chinò, si mise in ginocchio e baciò la fibbia d'acciaio della sua scarpetta. – È freddo il tuo piede, – disse, e lo prese in una mano. La guardò tutta e le aggiustò le pieghe dell'abito, il fiocco che aveva al collo, le trine ai polsi e sulle spalle.

Perchè mi fai tanto bella? – domandò essa, con un sorriso stentato. Tutto quanto faceva Ermanno in quel momento, le metteva paura, senza spiegarsene il motivo.

Perchè ti voglio tanto tanto tanto bene, – disse, e le baciò i capelli, le trine, i nastri dell'abito. – Ora sta bene, – aggiunse – ti ho veduta, mi ricordo... basta. Va pure a leggere nella biblioteca. Ora non voglio più parlare, non voglio veder altro, voglio soltanto ricordarmi... –

Jeronima non sapeva spiegarsi il contegno di Ermanno, altrimenti che col crederlo malato.

– Non ho voglia di leggere oggi, – risposeresterò con te.

– Ma io, – disse Ermanno, dopo un momento di riflessione, – io voglio... dormire.

– Ebbene, rimarrò nel salotto, e quando ti sveglierai, ti sarò vicina, – replicò Jeronima alzandosi ed avviandosi alle sue camere.

Ermanno la guardò un momento, confuso come un bambino che ha commesso un errore.

Jeronima, – disse, – non ho detto il vero e non voglio dormire; ma vorrei esser solo.

Perchè? – domandò essa.

– Ti prego, lasciami solo, – rispose dolcemente Ermanno, e la guardò con un'espressione di dolore e di affetto, che ella non aveva mai visto su quella figura apatica e immobile. – Voglio restar solo e pensare a te. Ti preparerò una sorpresa... voglio pensare al modo di farti sempre sorridere, come stamane. – La guardò ancora un momento, poi entrò nella sua camera. Jeronima non ardì contraddirlo; ma entrò nel salottino accanto alla camera di lui, e sedette vicino alla porta.

Aveva un timore vago, un'inquietudine indefinibile, come se ad Ermanno sovrastasse una disgrazia o se egli fosse in pericolo.

Lo sentiva camminare nella sua camera. Ora l'udiva aprire un armadio, ora un cassettone, ora le sembrava si fosse messo a sedere, ora che si fermasse dinanzi alla finestra. I suoi movimenti erano regolari, tranquilli, come al solito.

Jeronima prese un libro e si mise a leggere; le sue paure, a poco a poco, cessarono.

Sebbene avesse dinanzi agli occhi pagine stampate, non leggeva; pensava, e il suo pensiero tornava alla sola sorgente di conforto che fosse scaturita da un anno nell'arida sua esistenza; pensava a Gualberto. In quel momento picchiarono all'uscio del salotto. Il servitore della contessa Beatrice venne a pregarla di scendere nella sala terrena, ove la contessa l'attendeva, per ricevere alcune visite giunte in quel momento.

Jeronima non rispose subito, guardò, incerta, l'uscio che metteva alla camera di Ermanno, e pareva che una segreta ispirazione le consigliasse di restare. Ma qual serio motivo addurre? Alla contessa Beatrice sarebbe parsa scortese, se non avesse aderito all'invito. I suoi suoceri vedevano di buon occhio quei visitatori e l'avrebbero avuto a male, se ella non fosse stata gentile con loro; e poi Ermanno era , al sicuro, stava bene, e infine le sue paure le parvero fanciullaggini.

Dite alla contessa che scendo subito, – rispose finalmente al servitore; poi si alzò e picchiò sommessamente all'uscio di Ermanno. Egli venne da ad aprire.

– Sei ancora qui, Jeronima? – le disse, e la guardò; – perchè vieni?

– Tua madre mi prega di scendere. Non vorresti venire con me?

– No, – diss'egli, – voglio restar qui. Come sono belli quei fiori nei tuoi capelli! – soggiunse, guardando con ammirazione il tralcio che le avea messo sulla testa.

Jeronima vi posò rapidamente la mano.

– Ah! – disse, – aveva dimenticato che c'erano sempre, e scendevo così!

– Non levarli, lasciali, te ne prego, – replicò lo scemo tutto sgomento. Ma Jeronima li aveva già levati.

– Te li ho dati oggi e tu li getti via! – esclamò mestamente.

– Non li getterò via, ma li metterò altrove, – e mise quei fiori, già quasi appassiti, nella cintura della veste. – Va bene così?

– Sì, – rispose ancora afflitto il poveretto, – va bene come vuoi tu. Addio. – Jeronima si avviava per uscire, ma egli la richiamò.

Addio, – disse ancora, e la guardò.

Jeronima esitò un momento prima di lasciarlo; provava un timore irragionevole, puerile. Si fece animo, lo salutò amorevolmente e uscì.


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