Emilia Ferretti Viola (alias Emma)
La leggenda di Valfreda
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XVIII.

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XVIII.

Mentre Ermanno se ne stava così sospeso sopra le acque profonde del lago, colla testa che ora chinandosi verso l'interno della camera, ora sporgendo invece fuori dalla finestra, faceva traballare la sua persona, come dovesse cadere da un momento all'altro, Gualberto usciva solo dal castello e si avviava alla casa della Rosalìa.

Il cammino era lungo, e Gualberto desiderava di giungervi non visto. La via che egli doveva percorrere era fra le più belle di quei monti. Il temporale della notte scorsa, che aveva svelto delle piante, smosso il terreno e arruffate tutte le fronde degli alberi nella valle, vi aveva lasciato quel disordine pieno di vita, quelle spoglie ancor verdi dei tronchi caduti, quell'aspetto bizzarro e nello stesso tempo animato, che assume la campagna dopo un uragano. Il sole splendeva sopra quella scena, e Gualberto, camminando con passo concitato, guardava da ogni parte, respirando la fragranza del terreno umido, delle verdi borraccine ancora inzuppate d'acqua, e sentiva con piacere nel suo viso, quasi ne traesse vigore, la brezza vibrata e fredda. Quanto diverso era questo giorno da quello di ieri! Anch'egli aveva patito una violenta burrasca, e le forze vive del suo spirito giacevano tronche e sparse, come quei massi e quegli alberi svelti. Ma quanta luce di sole splendeva ora su quelle rovine, che aria forte e pura spiravagli vigore per l'avvenire!

Giunse un'ora prima del tramonto alla casuccia della Rosalìa.

Guido Campaldi l'aveva visto venire, l'aveva riconosciuto da lontano fra gli alberi, e gli aprì l'uscio appena che fu vicino alla casa.

Padre e figlio si abbracciarono; poi il Campaldi si scostò un pochino da Gualberto, e lo guardò in quella positura e con quel gesto comune agli artisti, allorchè osservano qualche cosa attentamente.

Oggi sì che ti ritrovo con un viso quale dovresti averlo sempre. Vieni con me; la vecchia Rosalìa vuol vederti, essa ti avrà già sentito. Non potremo discorrere tranquillamente che dopo averla salutata; poi, Gualberto, parleremo di molte cose serie che ci riguardano. – E dicendo questo, fece entrare il figliuolo in una modesta cameretta; la stessa ove riposò nella notte prima di salutare Beatrice e di baciare il suo piccolo Gualberto appena nato.

Da quella camera entrarono in una stanzuccia più bassa, ma ariosa e pulita, ove la vecchia Rosalìa giaceva inferma da forse due anni.

– Essa ha vaneggiato tutta la notte, – disse piano il Campaldi a Gualberto, – il temporale infuriò orribilmente in questo bosco, il fulmine colpì degli abeti che arsero, ed ella vedendo la luce rossastra delle fiamme dalle finestre mal chiuse, credeva fosse fuoco di spettri; – e con queste parole, entrambi si accostarono al letto.

La Rosalìa, che aveva tenuto sino allora gli occhi chiusi, mormorando a mezza voce delle preghiere, li aprì a un tratto e fissò Gualberto con un'espressione di gioia.

– Ah! È venuto! – esclamò; – pregavo il Signore e la Madonna santissima per lui. Lo tenga qui, signor Guido, non lo lasci tornare al castello, lo tenga qui nel bosco.

Tranquillati, Rosalìa, – rispose col suo bel sorriso franco e allegro l'artista, – è con me ed è sicuro.

– L'hanno fatto prete?... – disse la vecchia che non l'aveva più veduto dacchè era partito per Roma, guardandolo da capo a piedi. Era molto religiosa la vecchia Rosalìa; ma le dispiaceva che quel bel ragazzo, vivace, robusto, ardito sino alla temerità, fosse diventato un prete. – Perdoni signorino, disse poi, ravvedendosi, – ho detto male; ma pensavo che ci sono tanti uomini deboli, malaticci, poveri, che possono servire il Signore...

Meglio di me... – rispose con un sorriso Gualberto.

– Oh no! – esclamò Rosalìa; – ma certi bei frutti non si devono strappare dall'albero, devono restare per portarne altri.

Porterò i miei frutti anch'io, – rispose Gualberto, vedendo che suo padre spiava con attenzione nella sua fisonomia l'effetto di quelle parole; – saranno diversi da quelli che intendi tu, Rosalìa, ma saranno ugualmente utili.

– Che il Signore e la Madonna Santissima lo benedicano, conte Gualberto, e volgano in benedizione tutte le lagrime che la sua povera madre ha pianto per lei. La contessa dov'è? – chiese improvvisamente.

– Al castello, – rispose Gualberto.

Rosalìa chiuse di nuovo gli occhi e giunse le mani.

Avviene oggi al castello una grave disgrazia, – disse. Gualberto si scosse; ma il Campaldi ammiccò coll'occhio, per fargli intendere che la poveretta vaneggiava ancora.

– La contessa Valfredadisse lentamente la Rosalìa – mi è apparsa stanotte per l'ultima volta. «Non mi vedrai più, mentre sei ancor vivadisse, «domani ha termine la mia condanna; un conte di Ardenberg verrà a liberarmi e dormirà in pace al mio posto in fondo al lago. La lunga penitenza è finita, la vittima chiesta in vece mia è trovata. Addio, Rosalìa,» mi disse; e si tolse le alghe dalla cintura e l'erbe acquatiche dai bei capelli biondi; strizzò le lunghe trecce e le sgocciolò costì ov'ella ha i piedi, conte Gualberto, e scosse le vesti luciccanti per le gocciole d'acqua, quasi fossero sparse di brillanti; e fu come una pioggia luminosa in tutta la camera, e mi cadde sul viso, sul letto, e quelle gocciole avevano un profumo soave, che ricordava le acque chiare e i muschi lontani giù giù fra gli scogli sott'acqua. Poi s'accostò al fuoco dove io cuoceva una mia medicina, e sollevò l'abito, e alzò un piede piccino piccino, coperto con una calza verde tessuta d'erbe, e i suoi piedini fumavano per l'umido e tutta la sua veste fumava anch'essa, tanto che pareva ravvolta in una nuvola. Poi si accostò allo specchio, che è appeso a quella parete, e si guardò. «Sono belladisse, mirandosi dentro; «sono bella e i miei capelli non gocciolano più, le mie alghe sono secche, le mie calze tessute d'erbe scricchiolano e diventano polvere sotto al piede; non tornerò più nel lago, le mie labbra non saranno più umide che dei suoi baci, egli potrà accarezzarmi le trecce senza sentirle fredde e bagnate, potrà posarmi il liuto sulle ginocchia, senza che ne vadano guaste e mute le corde. Sono bella ed egli mi attendedisse; e mi si accostò al letto e mi sorrise e pareva raggiante di gioia e di bellezza. «Addio, Rosalìa, ci rivedremo e ti compenserò della tua fedele servitù, a cui debbo parte della mia liberazione;» e così dicendo sparì, mentre infuriava il temporale e che il fulmine colpiva la cima degli alberi e il vento li troncava; poi vidi luciccare le fiaccole nel bosco e udii il paggio che suonava dolcemente il liuto. Mai quella musica era stata tanto bella, pareva un inno di grazia al Signore; poi tutto tacque, si spensero le fiaccole e li vidi passare leggieri e sorridenti sotto alla mia finestra. La contessa Valfreda appoggiava il suo biondo capo e le sue lunghe trecce sulla spalla del paggio, ed egli teneva il viso chinato sulla fronte di lei. – La vecchia Rosalìa parlava lentamente, cogli occhi chiusi – Ho visto sventolare, in sogno, la bandiera nera sul castello di Ardenberg. – Stette un pezzo silenziosa. Gualberto e il Campaldi ascoltavano con attenzione la poetica visione della Rosalìa. Questa strana creatura sembrava nata per interpretare, nel suo modo semplice e credulo, la graziosa leggenda di Valfreda.

Vicina forse a morire, voleva che la leggenda morisse prima di lei.

L'inferma volse il capo dall'altra parte, mormorò ancora qualche parola indistinta, poi, vinta dalla stanchezza, si assopì; allora il Campaldi fece segno a Gualberto di seguirlo, e, piano piano, uscirono entrambi dalla camera della vecchia Rosalìa; chiusero l'uscio, e Gualberto si ritrovò nella stanza di suo padre.

Il sole tramontava, e gli ultimi suoi raggi passando traverso i rami degli abeti, rischiaravano tutta la cameretta; gli uccelli cantavano allegramente di fuori l'ultima canzone del giorno, posandosi sugli alberi, de' quali alcuni crescevano proprio a ridosso della casa, ricoprendone il tetto, e spingendo perfino dei rami indiscreti contro la finestra.

Un letticciuolo basso, una vecchia cassa di legno, intagliato grossolanamente, un tavolino, due seggiole di paglia, componevano tutta la mobilia di quella camera; sul tavolino un Shakespeare, un piccolo Virgilio, alcune litografie, giacevano sparse in disordine, mentre nel mezzo, sopra un foglio bianco, il Campaldi, aveva incominciato a disegnare una figura.

Siedi qua, – disse l'artista, offrendo una seggiola a suo figlio, – siedi e rispondi francamente. È vero ciò che hai detto alla vecchia Rosalìa? è vero che tu, che ieri gettasti rabbiosamente l'abito che porti in un burrone, che te lo strappasti di dosso con disperazione, è vero che vuoi restar prete?

– Sì, – rispose con fermezza Gualberto, – ho deciso irrevocabilmente di seguire questa via.

– Ma perchè? – chiese con impazienza l'artista.

Perchè non sono più a tempo per ricominciare a vivere sotto una forma migliore e diversa da questa; perchè è meglio che io sia compiutamente ciò che sono, in quel modo che l'intendo io, che non un'individualità incompiuta, che ha cominciato a vivere troppo tardi ed ha nel passato dieci anni di vita perduti e peggio che perduti, perchè destinati a produrre un altro essere che più tardi s'è dovuto rinnegare. Rinnegare dinanzi a tutti una parte di me! È impossibile, ho deciso; mi rimangono ugualmente molte buone ragioni per sperare d'essere utile alla società.

Gualberto, rispetto la tua volontà; ciò che non puoi fare oggi potrai farlo domani, e puoi, in ogni tempo e in ogni luogo contare sempre sopra di me, – rispose il Campaldi. – Certe ragioni sottili io non le intendo, perciò non insisto, voglio perorare una causa che non sarei forse in grado di sostenere. Lo spirito mio – disse con minore serietà – non è fatto per certe sottigliezze; intendo i misteri del chiaroscuro nelle forme, non nei concetti, posso ritrovare sulla dura superficie del marmo la morbidezza dei contorni più delicati, dell'epidermide più sottile; ma non fra la nebbia del pensiero, cercare l'incerto fluttuare dei concetti filosofici. Ho bisogno, per intendere le cose di questo mondo, di luce e di forme; come per lavorare nel mio studio, così per tutto ho bisogno di vedere e veder chiaro. Non ti capisco, Gualberto; ma non aggiungo una sola parola a queste già dette. Non vuoi? Basta.

Grazie, – rispose Gualberto con gratitudine, – spero che col tempo il motivo di questa mia risoluzione ti apparirà evidente e che tu l'approverai.

– Allora te lo dirò; per oggi non intendo ancor bene ciò che puoi sperare nell'avvenire. – Lo guardò con pietà ed affetto, quasi lo compiangesse profondamente; poi aggiunse più ilare, ma non senza una certa diffidenza nel suo sguardo: – Ho sempre diviso la gente in tre categorie: l'una, la più numerosa, quella della gente che non sa e che è tanto stolida che non intende ciò che le viene insegnato; l'altra, quella che legge e pasce lo spirito di parole scritte; e la terza, piccola e inquieta minoranza, che invece di studiare le lettere, studia le linee, che si trasmette le proprie idee colla figura delle cose che pensa, e che connette le sue idee con dei colori e le distende sulla tela o le scolpisce sul marmo, e non intende il pensiero senza forma. Tu fai parte della classe che vive di parole scritte, mentre io non ho che le mie figure, la mia matita ed il mio scalpello per combattere contro di te. Come vuoi che mi provi a lottare? –

Gualberto sorrise e gli stese la mano.

– Non ci conosciamo ancora, – disse; – forse col tempo non mi parlerai più così, forse vedrai che nato da quella piccola minoranza, della quale tu parli, fui soltanto educato a far parte di quella seconda categoria che in fondo all'animo tuo sprezzi profondamente.

– No, non la sprezzo, – ribattè vivamente il Campaldi, – soltanto non mi piace; è gente che non intendo e che forse sarà migliore di me. A me sembrano forme senza grazia ed eleganza, magre e stecchite, come fiori appassiti fra le pagine degli in-folio. Sbaglierò. Io non amo, non cerco, non servo che il bello, e il bello ha per me sempre un'imagine; e se un verso di Dante o una pagina dello Shakespeare me lo descrivano, gli so dare una forma, e l'alto concetto del poeta m'apparechiaro che par persona. – Gualberto lo ascoltava con riverenza e simpatia.

– Ho bisogno di vederti molte volte, ho bisogno di discorrere con te, – gli disse, – ho bisogno di farmi amare da te.

– Il tuo desiderio, Gualberto, è pressochè esaudito. Non solo ti voglio molto bene, ma sento che potrò volertene moltissimo, che fra te e me va stringendosi un legame ben più saldo e durevole di quello che strinse la natura. Presto ci rivedremo e staremo lungamente insieme.

Dove? – chiese Gualberto.

– A Roma. Voglio stabilirvi la mia dimora, – rispose il Campaldi. Gualberto balzò dalla seggiola e corse ad abbracciare suo padre.

– E non mi hai detto questo subito? – esclamò. – Aspetti a dirmelo ora, così pacatamente, come se nulla fosse!

Perchè, Gualberto, – rispose vivamente e commosso l'artista, e quasi fosse un poco confuso, – perchè... non dovrei dirtelo... ma è la verità, perchè non sapeva risolvermi a prendere una dimora fissa, perchè dal momento in cui cominciai ad essere libero non ne ebbi mai, e lo stare lungamente nel medesimo luogo, mi opprimeva la mente, mi rendeva inabile al lavoro, mesto, inoperoso. Ma ero solo allora, le fugaci gioie di quel tempo, troppo brevi per farmi amare i luoghi ove le provai, non servivano che ad ispirarmi qualche lavoro, come modelli viventi di un'opera futura, poi mi lasciavano il cuore deserto come la memoria; ma adesso che ti ho ritrovato, ora che ti vedo, mi pare che potrò dimorare per molto tempo ove tu sei, che se anche qualche impaziente desiderio d'altri cieli e d'altre genti mi spinge altrove, pure ritornerò sempre ove mi sarà dato rivederti: ora t'ho confessato anche la mia egoistica incertezza.

– Ti ringrazio d'averla vintarispose Gualberto – e l'intendo. Noi gente spregiata, che studiamo la lettera stampata, indoviniamo pure con astuzia molti segreti, – aggiunse Gualberto, sorridendo lietamente.

Temodisse dopo un breve silenzio il Campaldi, fissando con insistenza suo figlio – che ve ne sia uno che tu ancora ignori.

– Quale? – chiese leggermente turbato Gualberto.

– Quello che saprà far piegare le tue forti risoluzioni e che troverà ben altri argomenti che i miei, per esortarti a fare ciò che io ti chiedeva ieri ed oggi; quel segreto empirà l'anima tua di gioia e di dolori. – Gualberto arrossì vivamente, e suo padre si arrestò perplesso. – Ah! – esclamò quasi fra e lo guardò incerto, maravigliato. – Possibile! – Lo guardò ancora, poi gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla: – Gualberto, – disse piano: – lo sai? – V'era una certa diffidenza nel tuono di voce di suo padre mentre gli parlava così. Gualberto alzò il suo sguardo limpido, e guardò francamente in viso al Campaldi.

– Sì, – rispose. Vi fu un breve silenzio.

– È certo? – domandò ancora il Campaldi.

– Sì, – replicò colla stessa franchezza Gualberto.

Durerà?

– Sempre, – rispose ancora come pronunciasse un giuramento.

– E tu resti... così... come sei? – e guardò un poco severamente l'abito di suo figlio.

– Non mancherò alle mie promesse, – rispose con un'espressione di forza e dolore Gualberto, che colpì profondamente suo padre. Il Campaldi tacque ancora, ma non lo fissò più con diffidenza e severità, come l'aveva fatto prima.

– E se lei... ti tradisse! – domandò dopo un momento.

Gualberto sorrise, un sorriso d'orgoglio, di certezza e di compassione ad un tempo, per quella mostruosa, strana, inconcepibile supposizione del Campaldi.

Perchè? – domandò, allorchè ebbe finito di sorridere a quel modo.

Perchè tutte le donne... – ma poi si sovvenne e si corresseperchè quasi tutte le donne lo fanno, lo fanno con noi che siamo liberi, che possiamo dar loro un nome, che possiamo riconoscerle...

Basta, basta, – replicò, reprimendo la sua impazienza, Gualberto; – che m'importa ciò che fanno, ciò che sono le altre? Non lo chiederò mai. La mia strada giace lontana dalla loro. –

In questo punto si udì picchiare alla porta e la figlia della Rosalìa chiamò ad alta voce il Campaldi.

Questi, maravigliato dell'inattesa interruzione, corse ad aprire.

– Sei tu, Vanina? – disse; ma poi si fermò a mezz'aria, e chiese impaziente: – Che cos'è stato?

C'è il conte Gualberto? – domandò la donna ansante, trafelata.

Gualberto, che era seduto quasi dietro l'uscio, si fece avanti.

– Sono qui; che cosa vuoi? –

– Tutto il castello è sossopra; sono venuta a corsa. La signora contessa la cerca, anche il signor conte ha chiesto di lei. Non si ritrova più... si teme... – Qui la donna si arrestò nella sua narrazione, tronca ad ogni momento, perchè la voce ed il respiro le venivano meno dopo quella lunga corsa; poi la vista del pallore di Gualberto la turbò. Essa era stata la sua balia e lo amava teneramente. Temeva che l'improvviso annunzio di una disgrazia gli potesse far male.

– Per carità, Vanina, parla, dimmi che cos'è stato, la contessa Jeronima forse?... Che cos'è avvenuto, dimmi tutto? – Il Campaldi scrutava la fisonomia pallida e agitata di Gualberto.

– Si calmi, non si sa ancora niente, può essere un timore infondato, – rispose la donna per tranquillarlo.

– Ma che disgrazia è avvenuta? a chi? è la contessina? – chiese con impazienza Gualberto, facendo un movimento per uscire.

– No, aspetti, non è la contessina, non è neppure la contessa. – Gualberto si frenò e si tranquillò a un tratto. Il Campaldi lo guardava sempre, sebbene ascoltasse anch'egli, palpitando, le parole della Vanina.

Il segreto di Gualberto ora lo sapeva; in mezzo all'inquietudine di quel momento, provò una dolorosa maraviglia per quella scoperta.

Vanina, non tenerci in questa incertezza, narra che cos'è stato, – disse con voce autorevole l'artista.

– Non si ritrova più il conte Ermanno, – disse finalmente, – l'hanno cercato da due ore. Poco dopo che il conte Gualberto era uscito dal castello, la contessina lo cercava ansiosa, inquieta; essa dispera di ritrovarlo, si teme, si crede che egli si sia... – Qui la donna si mise a piangere e guardò incerta Gualberto.

Vanina, ti prego, presto, debbo andar subito al castello, dimmi tutto, – domandò trepidante Gualberto.

– Si crededisse la donna piangendo – che egli sia caduto nel lago! –

Gualberto e il Campaldi a quelle parole si guardarono e impallidirono.

Va da tua madre, – disse con voce commossa il Campaldi.

– E tu?... – domandò Gualberto sulla soglia, stringendo forte forte la mano che suo padre gli stendeva.

Resto qui fin che non abbia altre nuove. Se non mi riesce rivederti, lascerò il mio indirizzo a Vanina, e andrò ad attenderti a Roma. Addio...

Addio, – ripetè Gualberto mestamente, e si avviò, quasi correndo, per la via d'onde era venuto.


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