Emilia Ferretti Viola (alias Emma)
La leggenda di Valfreda
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XIX.

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XIX.

Allorchè giunse in vicinanza del lago, vide da lontano parecchie barche sull'acqua, e in una di esse riconobbe Jeronima e il conte Ottone. Sua madre non c'era.

Egli entrò subito nel castello per andare in cerca di lei.

Nel vestibolo, la cameriera della contessa gli corse incontro.

– Ah! conte Gualberto, venga, venga dalla signora contessa! – disse.

– Dov'è? – domandò Gualberto.

– È... è... – rispose a stento la donna – nella camera del povero conte Ermanno. –

Gualberto salì a corsa la scala che metteva nell'appartamento di Ermanno.

Attraversò rapidamente, senza incontrarvi alcuno, le due prime sale e il salottino di Jeronima, ed aprì l'uscio della camera di suo fratello.

La contessa Beatrice, dalla finestra, guardava intenta di sotto, chiedendo ansiosa, alle persone che stavano nelle barche, notizie; ora dando degli ordini, ora supplicandoli di ritrovare suo figlio, ora esclamandò che non era possibile che Ermanno fosse caduto nel lago, che sarebbe tornato, che egli era altrove.

Gualberto, fermo sulla soglia, ascoltò per un istante le parole confuse, incoerenti, che pronunciava sua madre nell'angoscia di quell'ora. Le si avvicinò, non visto, e disse piano:

Mamma! – la contessa si volse, gettò un piccolo grido e gli mise le braccia intorno al collo esclamando:

Gualberto, ho perduto Ermanno! – Poi pianse per la prima volta; pianse lagrime di quella materna disperazione che non ha riscontro in qualsiasi altra angoscia, in qualsiasi altro strazio del cuore umano.

Gualberto ammutolì dinanzi a quel dolore, e lasciò che la poveretta sfogasse il suo pianto sul suo petto.

Poi cercò tranquillarla; ma non sapendo ancor bene che cosa fosse avvenuto, non ardiva darle speranze che potevano riuscire vane, confortarla, quasi fosse irrevocabilmente avvenuta una sventura.

Dopo aver pianto con Gualberto, e aver ascoltate le sue parole affettuose, che la esortavano a tranquillarsi, la contessa volle di nuovo affacciarsi alla finestra. Ma era notte, un vento freddo increspava la superficie delle acque e minacciava, anche per questa sera, un tempo cattivo; le barchette tornavano alla riva, e, ultima fra tutte, quella di Jeronima e del conte.

– Non l'hanno trovato, – disse la contessa con un raggio di speranza negli occhi; – se egli fosse altrove? – Gualberto non ardì rispondere, ma volle indurla invano ad allontanarsi di ; essa non volle muoversi da quella camera, e guardava tutti gli oggetti sopra i tavolini, sulle seggiole, il letto ove egli aveva riposato, e gli occhi le s'empirono di nuovo di lagrime. – Non tornerà più! – disse dopo un momento, crollando il capo.

In quel mentre la porta si aprì, e Jeronima entrò seguíta dal conte.

Essa portava ancora alla cintura i fiori appassiti che le avea dati Ermanno, era senza cappello, pallida, colle labbra scolorite.

– Non v'ha traccia alcuna di lui qua sotto, – disse Jeronima, chinandosi con amore verso la contessa Beatrice. – Ho mandato della gente nel bosco, ho detto che stessero pronti colle barche sulla riva, ho mandato a cercare perfino nei sotterranei del castello; quanto è possibile è stato fatto, sarà fatto. – Poi aggiunse con voce tremante: – Speriamo ancora, mamma. – ma la contessa crollò il capo.

– Non tornerà più! –

Jeronima ne era sicura, pur tuttavia voleva preparare a poco a poco la madre alla triste certezza che suo figlio era perduto.

Beatrice, – disse il conte, trovando un pretesto per allontanarla da quella camera, – ho incontrato per le scale il nostro medico, egli veniva... – qui s'interruppe non volendole dire che veniva per visitare Ermanno uscito appena di convalescenza... – voleva forse sentire tue nuove. Vuoi riceverlo, interrogarlo; forse... ha parlato coi contadini e barcaioli...

– Dov'è? – chiese premurosamente la contessa alzandosi, – sì, voglio interrogarlo; voglio chiedergli se è possibile che... Ma dov'è? – aggiunse interrompendosi.

– È qui, nel salotto di Jeronima, – disse il conte, aprendo l'uscio a sua moglie, e dopo un momento d'esitazione la seguì anch'esso.

Jeronima e Gualberto restarono soli.

Jeronima si lasciò andare sopra una seggiola, e fissò con uno sguardo mestissimo la finestra.

– Com'è stato? – disse finalmente piano Gualberto.

– Non si è potuto ancora sapere... – rispose Jeronima, fissando sempre la finestra e guardando un pezzetto di trina bianca che svolazzava da un uncinello presso alla persiana sul muro di fuori.

– Ma come è possibile che egli sia caduto nel lago? – domandò ancora Gualberto, guardando l'alto parapetto delle finestre e quello della terrazza.

– Non è caduto, – rispose Jeronima con voce tremante.

– Non è caduto? – domandò con maraviglia Gualberto.

– No, – replicò molto commossa Jeronima, – egli si è buttato di sotto. Ne sono convinta. – Tacquero entrambi. Quella risposta inattesa aveva fatto ammutolire Gualberto.

Perchè? – domandò quasi sottovoce.

Perchè? – disse Jeronima, e due grosse lagrime le caddero dagli occhi. – Perchè sotto quella rozza scorza vibrava un cuore delicato, e perchè un sentimento forte e gentile ha eccitato sino alla follìa quel povero e debole cervello. Egli s'è ucciso. Lo sapevo, – esclamò con dolore, – lo sentivo che gli sovrastava una sventura, non avrei dovuto lasciarlo solo un momento! – Jeronima si coprì il viso con le mani.

Vi fu un lungo silenzio.

Dal salotto si udiva la contessa che piangeva e la voce del vecchio dottore e del conte che le parlavano.

Intendo, –– disse dopo un momento Gualberto, chinando il capo, – egli amava profondamente e sentiva che non poteva essere riamato. – Si alzò e si accostò alla finestra. Jeronima teneva sempre il viso nascosto fra le mani.

Gualberto vide anch'esso quel pezzo lacero di trina che svolazzava in alto, presso la persiana; lo osservò lungamente.

– Che cos'è quella trina bianca lassù? disse Gualberto.

Jeronima alzò il capo, e quasi obbedisse ad un ordine senza sapere che cosa facesse, s'accostò alla finestra, guardò come aveva guardato prima, ma non capì nulla; poi, a un tratto, mentre il vento spiegava interamente quel sottile tessuto, lo riconobbe.

– È la trina del mio velo! –– disse, fissando con spavento quel cencio che svolazzava sempre sulla parte esterna della finestra; quindi si voltò guardando ansiosa per tutta la camera, ma non vide ciò che cercava. Stette un momento perplessa.

– L'ha portato seco! – disse piano con voce fioca.

Gualberto che l'aveva seguita non rispose. Staccò quella povera memoria dal muro, la prese con riverenza e la porse senza dir parola a Jeronima.

Jeronima la prese con mano tremante.

Perchè la mamma non veda.... – disse Gualberto.

– E perchè io ricordi, – rispose dolcemente Jeronima, baciando l'ultima memoria di quel fanciullo, il quale senza uscire dall'infanzia non aveva imparato altra cosa a questo mondo fuor che l'amore.


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