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Passarono dei tristi giorni per gli abitanti del castello di Ardenberg dopo che Ermanno era sparito per sempre. Tutte le ricerche per trovare il suo cadavere riuscirono vane. Un contadino, affermando di aver veduto da lontano un corpo che cadeva dalla finestra della torre abitata da Ermanno, proprio nell'ora in cui egli era rimasto solo nella sua camera, aveva tolto ogni dubbio sulla fine che aveva fatto quel poveretto. Il contadino trovavasi a grande distanza dal castello, e sebbene fosse corso subito alla riva, pure allorchè vi giunse non ritrovò più traccia alcuna nell'acqua, colà profondissima, di persona o cosa che vi fosse caduta. Nel castello l'allarme era stato dato più tardi, dopo la partenza dei visitatori e dopo aver cercato Ermanno lungamente in tutte le camere e le sale della casa.
La povera madre era inconsolabile. A lei quel figliuolo povero di mente, disgraziato fin dalla nascita, era stato tanto caro come avesse avute da esso tutte le maggiori soddisfazioni dell'orgoglio materno.
Lo aveva amato con quella intensità, con quella pazienza devota, colla quale sanno amare le madri, ed ora lo piangeva con un'amarezza, cui non potea recare qualche conforto che la presenza di Gualberto. Ma Gualberto le apparteneva così poco! Le era stato portato via, era stato sacrificato per vendicarsi di una sua colpa; l'esistenza di lui potevasi ben chiamare un'esistenza annullata. Lo sapeva anche infelice, dacchè la vendetta del conte non soddisfatta dell'averglielo rapito, d'averlo costretto a vestir quell'abito, voleva anche le dèsse il triste spettacolo del prete infelice, tormentato dai dubbi, derisore della religione. Essa non avrebbe mai potuto accarezzare i figli del suo Gualberto, partecipare alle loro gioie, ma doveva invece assistere all'isolamento cui era condannato, senza poterlo aiutare, senza ardire di chiedergli conto dei suoi dolori, perchè sapeva che erano di quelli che non si possono confortare.
La perdita di Ermanno non faceva che accrescere in quella povera donna il dolore per la sorte dell'altro suo figlio.
Il conte non fu molto addolorato di quel fatto luttuoso; ne fu commosso, turbato, ma non provò vero dolore. Ermanno avevagli sempre dimostrato poco affetto, nè il padre erasi curato di lui. Il conte era intollerante verso tutti coloro che erano privi d'ingegno, semplici, anche nel senso meno esteso della parola, ignoranti e incolti. Suo figlio, che era purtroppo indubitatamente nel numero di questi, non aveva potuto acquistare se non una debole parte del suo amore paterno. Ermanno umiliava suo padre colla sua presenza. Il poveretto se n'era accorto, e perciò aveva rivolto con maggior fiducia tutto il suo amore, prima alla madre, poi a Jeronima, che non avevano mai mostrato di vergognarsi di lui.
Il conte aveva però fondata ancora una speranza sopra il figliuolo. Sperava che egli avesse degli eredi, e che ciò che non aveva potuto ottenere dal figlio l'otterrebbe da un nipote.
Ma fu deluso anche in questa speranza.
La famiglia degli Ardenberg si spegneva.
Allorchè per lunghe ore il conte se ne stava abbattuto e silenzioso, senza prendere più parte ai suoi divertimenti favoriti, senza andare neppure nella sua biblioteca, la contessa Beatrice lo guardava di soppiatto, e credendo che egli piangesse il povero Ermanno, quasi sentiva di potergli perdonare mercè quel dolore, le sue crudeli ingiustizie verso Gualberto.
Ma il conte non pensava che all'avvenire della casa degli Ardenberg, e come nessuno dopo di lui avrebbe trasmesso ad altri il suo nome.
Gualberto non aveva ardito discorrere della sua partenza dopo la morte del fratello, per non abbandonare sua madre in quei primi momenti d'angoscia; aveva cercato per altro di non restar mai solo col conte di Ardenberg, la condotta del quale non trovava scusa veruna nel giudizio implacabile, severo, del giovane offeso.
Ma una sera, dopo il pranzo, il conte lo pregò di seguirlo nella biblioteca.
Non v'era modo di scusarsi, sua madre era presente, ed egli dovette aderire a quell'invito.
Jeronima sedeva già nella biblioteca, quando essi vi entrarono. Dopo la morte di Ermanno egli non la vedeva che di rado e non l'incontrava che al pranzo o alla colazione; un giorno avendole chiesto con affetto perchè non stèsse con lui e con sua madre, essa avevagli risposto dolcemente:
– Non ancora; ho bisogno di esser sola! –
Appena il conte e Gualberto entrarono quella sera nella biblioteca, essa si alzò.
– Jeronima, – dissele il conte, – vorrei discorrere con Gualberto di cose serie. Le saprai a suo tempo – aggiunse con l'amorevolezza che sempre le dimostrava: – ma ora vorrei essere solo con mio figlio. –
Jeronima lo guardò un po' maravigliata da questo esordio solenne, e guardò anche Gualberto con que' suoi begli occhi mesti, che parevano più grandi ora che il suo volto era diventato più pallido e magro.
– Salgo dalla mamma, – rispose: così soleva chiamare la contessa Beatrice; e uscì dalla biblioteca.