Emilia Ferretti Viola (alias Emma)
La leggenda di Valfreda
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XXI.

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XXI.

Il conte di Ardenberg restò solo con Gualberto. Egli accostò alla finestra un seggiolone ricoperto di pelle, a intagli, antico e grave, che pareva avesse assistito a tutte le vicende della famiglia dei castellani, e fece cenno a Gualberto che se ne prendesse un altro per . Ma Gualberto non si mosse.

Siedi, – disse allora imperiosamente il conte, – dovremo discorrere lungamente.

Gualberto accostò allora anche lui una seggiola alla finestra, piuttosto lontano dal conte, e sedette in silenzio; sentiva di essere guardato con insistenza dal suo interlocutore, sentiva vicina una crisi e cercava di domare le sue ire.

– Non è scorso molto tempo, – prese a dire il contedacchè seguì in questo stesso luogo fra noi, un dialogo che trattava un argomento delicato e doloroso.

– Lo ricordo, – rispose Gualberto, interrompendo il conte.

Dissi allora delle cose, azzardai dei giudizicontinuò a dire l'altro, – che poi, riflettendo, non mi parvero giusti.

– Non importa, non se ne parli più, – replicò vivamente Gualberto, interrompendo di nuovo il discorso. Non gli pareva credibile, ora che sapeva che il conte non era suo padre, che egli azzardasse ancora di parlare intorno a ciò che era avvenuto.

Il conte guardò maravigliato Gualberto.

– Ma è appunto per discorrere di questo, che ti ho chiamato! È per dirti che allora tu avevi ragione e che io ebbi torto!

– Ah! – esclamò Gualberto. – Io avevo ragione? –

Il conte non capiva, perchè Gualberto parlasse con lui in modo differente dal solito, capiva dove stava la differenza. Era nella voce? nello sguardo? nelle parole?

– Sì, avevi ragione, – replicò –– ed eccomi disposto ad aiutarti efficacemente, perchè tu possa seguire la tua volontà e uscire da uno stato che più non ti conviene. –

Gualberto alzò gli occhi, e fissò il suo sguardo franco e vivace in viso al conte.

– Abbiamo mutato pensiero entrambi, – rispose; – ho meditato le parole di quella sera, e adesso, anzichè trovarle ingiuste, le credo buone, e vorrei rammentarle tutte per ripeterle ora come fossero mie.

Il conte ammutolì maravigliato.

– Non credi, e vuoi restar prete? – domandò.

– Sì, – rispose Gualberto con fermezza, – l'ho deciso.

– Ti pentirai, – replicò con voce persuasiva il conte; – sei giovane, sei forte, sei bello; l'avvenire più splendido si apre dinanzi a te, sei il solo erede degli Ardenberg.

– Io? – disse con un tuono di voce che colpì il conte e lo fece sostare un momento nel discorso.

– Tu, sì, – rispose, – e ne sei degno; – aggiunse, guardando con compiacenza la bella persona e l'ampia fronte di Gualberto; – porterai con orgoglio e intelligenza quel nome. –

Gualberto non capiva le intenzioni del conte, si sentiva offeso, irritato, pronto a dare sfogo a tutta l'amarezza dell'animo suo lungamente repressa.

– E perchè dirmelo adesso e non prima? – chiese con tranquillità. – Ora è troppo tardi.

Perchè? – aggiunse il conte amorevolmente, quasi non avesse udito la prima parte della risposta di Gualberto. – Il tuo nome, la tua alta condizione in società, le tue ricchezze copriranno ampiamente tutte le memorie del passato, e in breve tempo, allorchè il giovane e brillante conte di Ardenberg sarà il prediletto delle dame, l'esempio dei cavalieri, nessuno rammenterà che l'elegante e invidiato gentiluomo vestì in altri tempi l'abito del prete.

– Lo ricorderei io – disse coi denti stretti, mentre i suoi occhi brillavano in modo strano e insolito. – Perchè questo non pensarlo prima? – tornò a dire con insistenza.

Ma il conte non rispose neppure questa volta alla sua interrogazione.

– Sarai pienamente felice allora – continuò a dire; – i tuoi dubbi, le tue opinioni le manifesterai apertamente; il tuo forte ingegno potrà rivelarsi senza paure e senza esitazioni; il giovane conte di Ardenberg potrà rappresentare le idee più liberali, potrà brillare fra tutti per intelligenza e cultura, potrà essere annoverato fra i gentiluomini più illuminati del suo tempo; e nulla davvero ti manca per essere primo fra tutti i tuoi compagni.

– A che serve dirmi queste cose? – replicò sempre tranquillo Gualberto. – È troppo tardi.

– La famiglia degli Ardenberg sta per estinguersi, e attende da te eredi che ti rassomiglino. – Il conte si fermò un momento, perchè vide un freddo ed ironico sorriso sfiorare le labbra pallide di Gualberto. Egli aveva capito ora il motivo delle profferte del conte; ma quegli continuò a dire: – Libero di fare tuttociò che vorrai, di disporre delle tue rendite, perchè a te confiderò la direzione d'ogni cosa, potrai scegliere quella compagna che più ti aggrada: potrai anche, – e qui luccicò nello sguardo del conte un lampo di malizia, – potrai forse, seguendo i desideri dei tuoi genitori, prendere presso la giovane vedova del tuo povero fratello, quel posto che...

Ma a questo punto fu interrotto da Gualberto:

Basta, basta, – disse con voce tremante; – ho capito! – Il cuore gli batteva forte forte. Sprezzava in cuor suo quest'uomo che così lo tentava dopo averlo fatto tanto soffrire, ma la tentazione era grande, era la maggiore che gli si potesse offrire.

Il conte taceva e lo guardava,

– Ebbene, Gualberto? – disse.

Gualberto non rispose. Vedeva cogli occhi della mente, Jeromina; si figurava un'esistenza libera, felice; sognava viaggi, sognava lunghe ore di gioia e di solitudine con lei. Fu una rapida fantasmagoria che passò dinanzi alla sua imaginazione, disegnando ad una ad una le più belle e seducenti figure, facendogli battere il cuore, esaltando la sua fantasia.

Il conte l'osservava con aria soddisfatta, e attendeva senza impazienza la sua risposta. Credeva che il giovane non avrebbe saputo resistere a questa ultima tentazione.

Gualberto alzò gli occhi e guardò in viso al conte. La bella fantasmagoria sparì a un tratto.

Gli parve di vedere la pallida e altera Jeronima che lo guardava severamente. Si sentì forte del proprio orgoglio.

Si era dedicato alle grandi lotte dello spirito, non alle piccole gioie della vita lieta, spensierata, ai piaceri della giovinezza. Aveva incominciato a discernere la sua via nell'avvenire, e questa gli pareva degna del suo vigore e del suo intelletto. Su quella via lo accompagnava la pura e bella imagine di Jeronima, ma in modo diverso che non fra le anguste pareti della vita domestica.

– No, – rispose Gualberto severo e tranquillo. – Non accetto, – e si alzò.

Il conte aggrottò le ciglia e sentì ribollire in un'ira ancor nascosta, contro questo temerario, questo bastardo che osava contraddirlo dopo che gli avea fatte sì belle e seducenti proposte.

– Ah! non vuoi?... – disse.

– Non voglio. – rispose alteramente Gualberto. – Queste offerte non bastano; ciò che otterrei mutando stato, ciò che allora si chiederebbe da me non mi potrebbe appagare; e non mi piace che mi si chieda poco, allorquando so che posso dare di più. M'hanno educato a sprezzare e fuggire le piccole gioie del mondo e della famiglia, mi è stato sempre additato un campo più vasto e più lontano; non sprezzo, ma non amo più quanto m'offrite ora; ho preso l'abitudine di guardare più in alto.

Resta, – gridò il conte, vedendo che egli stava per allontanarsi. – E il desiderio dei tuoi parenti, e l'interesse della famiglia, del nome che porti, non conta? –

Gualberto lo guardò perplesso.

– No, – rispose con tranquillità, – per me non conta.

– È un egoismo mostruoso! – esclamò il conte.

– Non dovevasi farmi educare dai preti, per chiedermi poi il contrario, – disse pacatamente e ironico Gualberto.

– L'osservazione è giusta, – replicò con maggior tranquillità il conte; – ma un'intelligenza e un cuore come il tuo possono svincolarsi dalla influenza nociva dell'educazione avuta; la volontà dei genitori, l'avvenire della famiglia, l'autorità paterna hanno il diritto d'essere ascoltate.

Ascolto, – rispose Gualberto – ma gli effetti di un'educazione come l'ebbi io, non si cancellano mai. Ho deciso, ed ormai è tardi per insistere.

Gualberto, – rispose il conte, alzandosi e battendo i piedi, – mi manchi di rispetto e di ubbidienza.

– Ah! – esclamò Gualberto; ma si trattenne.

– È mia volontàcontinuò a dire adirato il conte – che tu assuma la direzione dei miei affari, che tu svesta quell'abito e che tu abbia eredi che portino il mio nome. –

Gualberto sorrise. Il conte impallidì.

Oseresti contraddirmi? – domandò con violenza. – Bada di non affrontare il mio sdegno, bada che io sono capace di vendicarmi sopra di te e sopra altre persone che ti sono care.

– Ancora?... – disse Gualberto, e la sua voce tremava leggermente; ma il conte non badò a quella interruzione.

– L'autorità del conte di Ardenberg non è mai stata contrastata da alcuno; la mia volontà deve sempre essere fatta e la farai anche tu,

– No! – rispose energicamente Gualberto, e si volse per uscire dalla biblioteca; ma il conte gli posò una mano sul braccio e lo trattenne.

Resta, – gridò ancora, – e rispondi sì o no.

– No, – rispose di nuovo Gualberto, fissandolo alteramente. – Chi può avere autorità d'impormi la propria volontà? – disse sdegnato.

– Io, – replicò imperiosamente il conte, che ho l'autorità di padre.

– Ma nol siete! – disse finalmente Gualberto, dimenticando ogni ritegno.

Il conte ammutolì a un tratto; lo guardò con maraviglia, con diffidenza, e arrossì di vergogna e d'ira sino sotto alle folte ciocche dei suoi capelli bianchi.

– Ah lo sai! – disse, e lasciò cadere il braccio che teneva steso per trattenere Gualberto. Stettero entrambi muti; poi il conte domandò piano: – Te lo disse lei?

– No, – rispose Gualberto.

– Ah un altro! – esclamò vivamente il conte. – Chi lo sa il mio segreto? – Gualberto non rispose. – Chi è quell'altro? – gridò ancora con impazienza. Gualberto esitò un istante. Egli aveva detto troppo; ormai doveva dir tutto. Rialzò il capo e lo guardò in viso.

– Mio padre, – rispose alteramente.

– Sei audace, – replicò il conte dopo un breve silenzio, trattenendo a stento la sua ira, – e dimentichi il rispetto che mi devi.

– Io non vi devo che quest'abito, – rispose Gualberto.

Il conte non disse nulla, e un lungo silenzio seguì queste parole. Guardava il giovane che se ne stava dinanzi a lui in attitudine dignitosa, col viso animato e lo sguardo severo, e gli dispiaceva che questo giovane intelligente, tanto che egli l'aveva creduto degno di farlo suo erede e di trasmettere ad altri il proprio nome, sapesse ora di non essere suo figlio.

Al conte dispiaceva perderlo, perchè con esso perdeva tutte quante le sue speranze per la discendenza degli Ardenberg. Avrebbe bensì potuto adottarne un altro, ma era cosa diversa assai; questi creduto da tutti suo figlio, aveva le alte qualità dell'intelletto, le belle doti fisiche che il conte sapeva apprezzare e che difficilmente avrebbe riscontrato in altri. Poi, senza volerlo confessare a se stesso, sentiva pure che un legame erasi stretto fra loro dall'abitudine, da quella stessa triste insistenza del volerne fare un essere estraneo alla società, di rifarlo a modo suo per vendicarsi, e più di tutto perchè aveva ottenuto in questo il suo intento; e ora il vederselo dinanzi agli occhi anche bello, ardito, animato da nobili aspirazioni, tutto congiurava, affinchè il conte provasse a modo suo un sentimento d'affetto per lui, affetto che veniva colpito dolorosamente dal contegno di Gualberto.

Vorresti giudicarmi? – domandò finalmente il conte, fissandolo severamente.

– No, – rispose Gualberto, – non voglio altro, se non che dimenticare, che lo potrei.

– Ho risparmiato tua madre, – disse il conte vivamente, – ti lagni di aver sofferto per lei?

– No, – replicò Gualberto, – no, e forse non vi parlerei oggi così, se avessi sofferto solo; ma ci avete colpiti entrambi, il male che volevate fare a me, essa lo provava prima che lo sentissi io stesso. Avete voluto commettere un assassinio, – continuò a dire con voce concitata e con occhio scintillante di sdegno – il peggiore degli assassinii, quello che lascia viva ogni parte del corpo e uccide il pensiero; avete voluto avvelenare, far morire il mio spirito; avete voluto dopo averlo spinto irrevocabilmente per una via, dalla quale non s'esce che impotenti ed umiliati, mostrargli i sentieri fioriti ove spaziano le menti libere e grandi; avete con crudele raffinatezza cercato ogni mezzo per rendermi più amara la sventura. La mia ragione ha trionfato della vostra triste e stolta vendetta, la mia disperazione ha trovato conforto nelle parole di uno spirito eletto; ora mi sento sicuro e la vostra ira non giunge più sino a me.

– Sono parole temerarie le tue, – disse il conte, aggrottando di nuovo le ciglia con voce tremante; – che cosa vuoi da me?

– Da voi? Ormai non v'ha più nulla di comune fra noi. La riputazione di mia madre m'impone la necessità di tener segreta questa triste istoria, – replicò Gualberto – e lo farò se a voi piace così; diversamente, ella troverà sempre nella mia casa, amore, rispetto, protezione.

Gualberto, – disse dopo un breve silenzio il conte, muovendo verso di lui e guardandolo fisso, – sai tu che cosa avviene nel segreto di un cuore umano, allorchè una donna che si ama, che ha la nostra fede, che porta il nostro nome, che è la madre di un nostro figlio, ci tradisce con un altro? Sai tu che cosa vuol dire scoprire in un giorno, in un istante, all'improvviso, che essa è l'amante di un altro? Sai tu quanta ira, quanto sdegno, quanta amarezza si accumuli in un momento come quello, e ti maravigli che quello sdegno basti tanto tempo, che serva ad alimentare venti anni di vendetta?

– E l'amavi? – disse Gualberto, con tuono raddolcito e dandogli di nuovo del tu.

– L'amavo, – rispose a voce bassa il conte – ma essa non mi amava più da un pezzo. Essa era bella, ed io ero orgoglioso di possederla; ero altero di vederla portare il mio nome; provavo per lei rispetto, amore; andavo superbo di poterla chiamare mia, e un giorno... e quel giorno dura ancora per me...

Intendo, – disse Gualberto, quasi parlasse fra , e chinò il capo.

– E mi accusi d'essermi vendicato: – domandò vivamente.

Gualberto non rispose subito, ma poi disse:

– La gente che sa amare non si vendica, forse non ha neppure bisogno di vendetta.

– Ah! tollera in pace quelle torture? A che cosa somigliano le tue vendette? – ribattè il conte vivamente, – sai tu come si sentano simili ingiurie? L'hanno saputo ben altri in questo castello prima di me. Non rammenti la leggenda di Valfreda? –

Gualberto si scosse, quel nome gli rammentò la vecchia Rosalìa, suo padre e la disgrazia del povero Ermanno. Quest'istoria s'intrecciava con ogni avvenimento della sua vita.

– La rammento, – disse; – fu quella una vendetta più degna di una passione forte e sincera.

– Ah! – esclamò il conte, guardando con insistenza Gualberto. – Avresti trovato più giusto che avessi ucciso tua madre?

Vi fu un momento di silenzio. Il conte teneva fissi gli occhi nel viso pallido e severo di suo figlio.

– Sì, – rispose finalmente Gualberto.

– Un assassinio? –– disse il conte.

– Sì, – replicò Gualberto, – meglio è, essendo incapace di domare la propria ira, lasciarla divampare sino all'ultimo eccesso; ma allorchè si ha potere di domarla una volta, si deve essere più forti della propria passione e perdonare.

Perdonare? – ripetè il conte con ironia. – Perdonare? – disse ancora, guardando Gualberto. – Mi perdoneresti tu?

– Io? – rispose Gualberto. – Che v'ha possibilità di fare un raffronto fra quello che m'avete preso, e ciò che a voi rapiva un altro? un'intelligenza sciupata, avvelenata, allorchè nasceva, e un cuore di donna traviato? Che cos'è questo paragonato a quella?

Parli così di tua madre? – disse il conte con tuono pacato e con un lampo di soddisfazione nei suoi occhietti bigi e vivaci.

Parlo del sentimento senza ricordare la persona che lo provò; il sentimento ha un valore, il pensiero ne ha un altro – rispose Gualberto; – voi avete preso dell'oro per pagare ciò che meritava una moneta di rame. Potevate vendicarvi, nel momento che i vostri sentimenti d'ira e di sdegno divamparono, di quanto vi facevano patire i sentimenti altrui. Ma poi rivolgere i vostri pensieri, il vostro raziocinio per anni interi, voi uomo colto e intelligente, per punire ingiustamente il figlio di una donna che ha amato un uomo migliore di voi, è stato come un voler sprecare l'esistenza dietro un errore provocato dall'ebbrezza o dalla follia; è una colpa che va punita valutandola quanto merita. Credete che anche voi, l'offeso, non abbiate patito della vendetta?

– M'è stata un confortorispose energicamente il conte.

Davvero! vivere qui dentro degli anni, fra le opere più insigni della mente umana, col pensiero infastidito da un bacio di donna, da un'ora d'amore, dimenticata forse da tutti fuorchè da voi. Dovevate ucciderli o perdonare.

– E se perdonavo, chi me ne avrebbe compensato, chi avrebbe saputo valutare la mia generosità? – disse il conte ironicamente.

– Io, – rispose Gualberto vivamente, – io sarei cresciuto accanto a voi quale m'avreste desiderato, avrei potuto apprezzare le belle qualità del vostro intelletto, prendere parte ai vostri studi, abbandonati per quella triste opera di vendetta; farmi quale mi vorreste ora che non è più tempo. Ed io avrei riconosciuta quella grande e salda paternità dell'intelletto, più forte assai per me, dell'altra, frutto del caso o della leggerezza. Vi avrei compensato delle vostre fatiche, mi sarei conquistato presso di voi, col mio ingegno ed il mio affetto, il nome che per generosità vostra m'avevate concesso.

Il sorriso sardonico del conte moriva sulle sue labbra via via che Gualberto gli parlava, e una espressione melanconica sostituiva quella di maligna ironia che aveva prima. Non rispose, e si mise a camminare su e giù nella biblioteca; poi si fermò dinanzi alla finestra e guardò il lago. – La mia ava Valfreda riposa qui sotto, – disse piano. – Hai ragione, Gualberto, meglio era gettarveli entrambi allora... Il lago non rende i suoi morti... non ha reso Ermanno; l'avrebbero preceduto, – aggiunse pensoso. Indi rialzò la testa e guardò Gualberto. Lo guardò lungamente in silenzio; e via via che lo guardava gli appariva nello sguardo un'espressione insolita, amorevole, umile, quasi addolorata.

– È vero, – disse, – mi sono punito da me.

Gli si avvicinò e gli stese la mano. Era un po' curvo in quel momento, aveva il viso pallido, e le mani gli tremavano leggermente. – Mi perdoni, Gualberto? – disse. Pronunciò queste parole con un accento strano; a Gualberto parve d'udire una voce sconosciuta, d'aver dinanzi a un estraneo, tanto erano insoliti in quell'uomo l'umiltà del concetto, la parola commossa, il gesto che rivelava vergogna e confusione.

Gualberto esitò un momento, provò un sentimento d'orgoglio e di ripugnanza; ma lo vinse.

– Sì, – disse, e mise la sua mano in quella del conte di Ardenberg, ma volse il capo dall'altra parte.

Il conte la strinse con affetto, con gioia.

– Mi lascerai riconquistare quella paternità intellettuale, della quale parlasti or ora? Mi lascerai prendere nel tuo affetto quel posto che rimase deserto sino adesso? – domandò con espansione insolita, precipitosamente, come temesse che Gualberto gli dovesse sfuggire per sempre.

– No, – rispose dolcemente questi, – è troppo tardi anche per ciò. Ho già rivolto il mio pensiero al padre che offrì di soccorrermi in una triste ora di disperazione, e i grandi affetti non si dividono. Non si amano due patrie, non si amano due madri, non due amanti. Ed io ho già trovato mio padre. –

Il conte tacque dopo che Gualberto gli aveva detto quelle parole; poi lo fissò alteramente.

– Non voglio dividere per la seconda volta cosa alcuna con quell'uomo. Hai detto bene. Dei grandi affetti non si può fare due parti. Va, – disse mesto e severocontinuerai a portare il mio nome per rispetto alla reputazione di tua madre e di questa casa; ed io sono contento che tu lo porti, perchè so che ne sei degno. Va, – disse con impazienza, – ci rivedremo più tardi. Ora ho bisogno di esser solo. –

Gualberto chinò la testa, e guardò quel vecchio, affranto per la prima volta sotto al peso di un dolore, di un disinganno, di un fatto più potente della sua volontà, e provò un sentimento di pietà per esso; ma senza dir altro salutò col capo e uscì in silenzio dalla sala. Mentre egli usciva, il conte lo seguiva cogli occhi, e una grossa lacrima gli spuntò fra le ciglia.

Guardò mestamente l'ampia biblioteca, gli scaffali pieni di libri, gli stemmi e le corone sculte in rilievo al di sopra degli usci, guardò verso il lago quella parte del suo castello che egli di vedeva sorgere altera dalle acque, e si lasciò andare nel suo vecchio seggiolone, affranto, umiliato.

– Solo! – disse fra , e piegò il capo giù giù sul petto.

Il domestico che venne, più tardi, ad accendere la lampada della biblioteca, vide con maraviglia il conte, seduto nella sua poltrona, accasciato e immobile.

Egli non si mosse vedendo il chiarore della lampada, ma ordinò che gli portassero dei sigari e che gli andassero a prendere i giornali, come soleva fare le altre sere.

Rimase dov'era, muto e pensoso. Non contava il tempo, non si rendeva conto dei propri pensieri. Gli pareva di essere giunto al fine di una lunga fatica senza frutto, di aver dedicato la sua vita a compiere un'opera che all'ultima ora si dileguava in nebbia. Sentiva quel vuoto, quella stanchezza irreparabile che lascia la certezza d'aver sprecato la propria esistenza. La biblioteca, il castello di fuori, gli sembravano smisuratamente grandi, deserti, smobigliati; a lui pareva d'esser solo ad abitarvi e gli sembrava che tutti gli altri fossero partiti da un pezzo.

Verso le dieci la porta si aprì piano piano, ed egli udì un passo leggiero sul pavimento.

Alzò il capo e stese la mano.

– Vieni, Jeronima, – disse, – vieni. – Jeronima si accostò a lui e vide con stupore il volto addolorato, le ciglia umide del conte.

Jeronima, – continuò a dire – non ho saputo farmi amare da nessuno, ho perduto un figlio, l'altro... mi lascia. Anche tu Jeromina, mi lascerai? –

Jeronima tacque un momento. Qual mutamento era avvenuto in quel cuore tanto fiero? Qual dolore l'avea colpito? Perchè in poche ore il conte di Ardenberg sembrava invecchiato di parecchi anni?

Essa prese uno sgabello e l'accostò al seggiolone ove sedeva il conte, e mettendo la sua mano sopra quella di lui lo guardò con occhio franco e serio.

– Io resto col padre di Ermanno, – disse come facesse una solenne promessa.

Il conte prese fra le sue mani la testa di Jeronima, che sembrava inginocchiata accanto a lui, tanto era basso lo sgabello ove sedeva, e la baciò in fronte.

Figlia mia! – mormorò.


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