Emilia Ferretti Viola (alias Emma)
La leggenda di Valfreda
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XXII.

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XXII.

Pochi giorni dopo, una carrozza da viaggio attendeva nel cortile del castello la contessa Beatrice e suo figlio; Gualberto accompagnava la madre, indebolita dagli affanni e dispiaceri patiti, in una villa presso al mare, in vicinanza di Roma, affinchè ella potesse ritemprarsi colà dalle angoscie sofferte, e ritrovare fra genti e cose nuove la perduta tranquillità dell'animo.

Il conte attendeva nel cortile che scendessero. S'era riavuto dalle commozioni dei giorni precedenti. Era tranquillo, benchè il volto cadente e le spalle più curve del solito, rivelassero che il suo vigore era scemato e che una fiera tempesta dell'animo l'avea abbattuto rapidamente. Jeronima restava con lui.

Mezz'ora dopo, la contessa Beatrice scese lo scalone appoggiata al braccio di Jeronima. Gualberto la seguiva.

Giunta nel cortile, la contessa salutò ad una ad una le persone di servizio ivi riunite, e Jeronima e Gualberto rimasero ad attenderla presso allo scalone.

Addio, – disse allora Gualberto alla cognata. – Chi sa quando ci rivedremo! La via che percorrerò sarà ardua, severa, piena di abnegazioni e difficoltà; la sua, Jeronima, è diversa assai... Temo che il tempo ci separi.

Separarci? – disse Jeronima piano.

– Alla sua giovinezza si affacceranno nuove e liete speranze per l'avvenire... – rispose Gualberto mestamente, guardandola.

– Le aspirazioni della mia giovinezza, quelle che il mondo chiama così, giacciono per sempre sepolte in fondo al lago con quel poveretto che mi amò. È un voto alla memoria sua, un'offerta alla nostra amicizia, – diss'ella con dolce mestizia, – alla quale intendo dedicare tutti i miei affetti e le mie aspirazioni.

Jeronima, – replicò allora Gualberto con voce tremante di commozionericambio con intraducibile gratitudine questa cara promessa. D'ora in avanti ci stringono i vincoli più alti e più belli del pensiero. Basterà a te la memoria di Ermanno, a me il dovere che ho saputo impormi, per conservarci degni entrambi di restare uniti così. – Le stese la mano. – Ora m'è facile partire, Jeronima, e mi sembra di portarti meco! –

Jeronima gli strinse la mano, ma non fece a tempo di rispondere perchè la contessa la chiamava.

Lo guardò soltanto, e in quello sguardo egli lesse un'irrevocabile promessa per l'avvenire.

Il conte depose un freddo bacio sulla fronte di Beatrice. La contessa invece lo lasciava piangendo. Nel suo cuore di donna ricordava che egli era padre del povero Ermanno e che a lui non rimanevano altri figli, mentre a lei restava ancora Gualberto. E dopo aver patito tanto per opera sua, ora sentiva pietà di lui; e le sembrava commettere un'ingiustizia lasciandolo solo per quei mesi.

Pianse maggiormente accomiatandosi da Jeronima, perchè l'amava, e perchè più di tutti gli altri, essa le rammentava il povero Ermanno.

La contessa mise ancora una volta il capo fuori dello sportello e salutò il marito; poi guardò il lago, quella parte del lago che giaceva sotto la torre abitata una volta da Ermanno, e non tolse più gli occhi da quel punto, finchè lo potè vedere.

Il conte rispose con indifferenza all'ultimo saluto della contessa.

– Non rivedrò più quei due, – disse volgendosi a Jeronima.

Jeronima appoggiò amorevolmente il suo braccio su quello del conte, e cercò d'indovinare se le sue parole erano una minaccia o un triste presentimento.

Cercò distrarlo, lo accompagnò alla passeggiata, gli fece compagnia durante tutta la sera; ma il conte era mesto, indifferente, e Jeronima non riuscì che a mezzo nel suo pietoso intento.

Vissero così dei mesi l'uno accanto all'altro. La contessa scriveva discrete notizie di , e Gualberto mandava a Jeronima delle lunghe lettere, ora piene di affetto, di passione giovanile, indomabile, ardente; ora facendole parte dei suoi disegni, descrivendole i particolari della sua vita in Roma, gli avvenimenti politici, lo stato del clero e le speranze che aveva per l'avvenire.

Jeronima rispondeva; e le sue lettere portavano sempre l'impronta del suo spirito elevato, energico, mentre manifestavano pure sentimenti veri e soavissimi.

Tutta l'attività del suo spirito era rivolta a tener viva quella corrispondenza, mentre dedicava cure e tempo nel distrarre il vecchio conte e tenergli compagnia.

Essa lo pregava invano di fare delle partite di caccia o delle gite con lei nei dintorni del castello.

I cavalli se ne stavano ad impigrire nelle scuderie, i cani non uscivano che per passeggiare coi servi, i fucili giacevano inoperosi accanto agli attrezzi da caccia.

La forza, l'energia del conte erano esaurite.

Egli decadeva ogni giorno.

Jeronima lo consigliò di chiamare un medico; ma egli non acconsentì, dicendo che non si sentiva male.

Un giorno i contadini di Ardenberg non videro più il conte uscire per fare la consueta passeggiata del dopo pranzo colla contessina.

Si sentiva tanto sfinito da non poter più uscire di casa.

Jeronima s'inquietò di questa debolezza e lo pregò di nuovo a mandare per il medico.

– No, – rispose con impazienza; – mi sento svogliato, ma sto bene.

– Ma questa svogliatezza può essere indizio di malattia, – disse Jeronima insistendo.

– No, – replicò il conte con uno dei suoi vecchi sorrisi sardonici. – Ho avuto sinora un còmpito nella vita, e l'ho finito; finito male assai – disseora sento che non ho più nulla da fare e divento pigro. –

In quella sera fu più lieto del solito; ebbe qualche lampo del suo sarcasmo mordace d'altri tempi, le narrò degli aneddoti della sua giovinezza e fece con lei il disegno d'un viaggio in Germania. Jeronima, confortata nel vederlo così, s'accomiatò da lui con animo tranquillo.

Poche ore dopo, mentre tutti dormivano, un colpo apoplettico metteva in pericolo la vita del vecchio conte.

Jeronima, chiamata improvvisamente nel cuor della notte, corse al suo letto, e s'avvide con spavento che egli non le poteva più parlare.

Mandò per il medico di casa, ne mandò a prendere un altro, nel quale il conte aveva pure fiducia. Ma nel giorno seguente, mentre Jeronima si accingeva a richiamare, con un telegramma, la contessa Beatrice, l'ammalato soccombeva improvvisamente, per un nuovo assalto apoplettico.

Jeronima era rimasta sola nel castello di Ardenberg.

Due giorni dopo, un lungo corteo di servi ed alcune carrozze, accompagnavano alla cappella di famiglia la salma del conte Ottone.

Jeronima, seguiva abbrunata, il feretro del suocero.

Per via, essi incontrarono un altro ben più modesto convoglio funebre, seguìto da pochi montanari.

Era il funerale della vecchia Rosalìa, che poteva ben chiamarsi anche quello della leggenda di Valfreda, morta e sepolta con essa nel modesto cimitero di Ardenberg. La vecchia Rosalìa avea detto prima di morire che Valfreda non sarebbe più apparsa a nessuno dopo di lei. E i contadini, creduli e riverenti, le prestarono fede; ma una paura superstiziosa circondò ancora per qualche tempo, l'umile sua tomba.


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