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Un'intervista. - Divagazioni. Altre interviste.
Appena ebbi messo piede in New-York, il direttore di teatro che mi aveva chiamato in America, mi fece avvertito che la sera stessa sarebbero venuti ad intervistarmi i redattori teatrali dei maggiori giornali. Già al mio passaggio in Parigi un corrispondente del N. Y. Herald, mi aveva minutamente richiesto di notizie biografiche e del mio modo di pensare intorno al teatro moderno. Richiesto, sul secondo punto, non con domande categoriche, ma per via di una conversazione ch'egli dirigeva con grazia volubile ed esperta, mettendoci molto del suo e mostrandosi colto ed arguto conoscitore della letteratura drammatica d'ogni paese. Mi era rimasto di quel colloquio una impressione graditissima, quantunque mi fossi più volte accorto di non farci la prima figura, perchè dell'arte, chi la pratica, non sa parlare con quella larghezza generalizzatrice che riesce tanto bene a quelli che la considerano fuori di sè e sono avvezzi a classificarne i modi e le tendenze.
Mi era sopratutto piaciuto il fare sciolto e spregiudicato di quell'americano che per lunga abitudine aveva preso dai parigini la prontezza delle sintesi sentenziose nelle quali però, a differenza dei francesi, non si rinchiudeva, ma che andava invece enunciando con un accento leggermente canzonatorio, adoperandole come una sorta di linguaggio abbreviativo da doversi usare ed intendere con molte restrizioni mentali. Nel suo ragionare e nell'uso che faceva della copiosa e diversa coltura, c'era una gioviale ironia, e nei suoi giudizi, sotto la veste dei modi condiscendenti, quasi uno smalto di generale irriverenza. Non che fosse irriverente a parole, ma si capiva che nessun nome, per quanto glorioso, lo abbagliasse, e come anche rispetto alle opere più celebrate e che egli stesso lodava in più larga misura, la sua ammirazione fosse sempre vigilante e veggente. E di ciò pareva contento ed inorgoglito.
La cecità ammirativa, da non confondersi colla ostinazione orgogliosa e coll'esclusivismo settario, è una gioia generosa conceduta a pochi; essa appartiene agli spiriti contemplativi, solitari, amanti del sacro eroico silenzio, come lo chiama il Carlyle, e non agli industri spiriti stimolati ed indoloriti dal continuo contatto colle moltitudini. Ho trovato di poi negli Stati Uniti, nei non pochi uomini di molta e varia coltura che mi avvenne di avvicinare, una grande affinità d'ingegno col mio intervistatore parigino. Quanta originalità nel giudicare le cose dell'arte e della vita! E a differenza della gran maggioranza dei loro concittadini, quanta arguzia, quanta inattesa e delicata tenuità nelle loro osservazioni! Una tenuità non frivola e non superficiale, fatta di acume penetrante e non so quale freddezza astinente. Una ironia diffusa su tutte le cose, uno spirito d'esame tranquillo ed inesorabile, una facondia precisa e gioviale, una leggera diffidenza reticente più spesso tradita dall'occhio e dalle pause che dalla parola, danno ai loro discorsi un sapore intellettuale veramente gustoso. Parlo, s'intende, degli uomini colti oltre il comune, in qual sia ramo di coltura e dati alle applicazioni scientifiche e letterarie, delle quali non fanno nessunissima mostra, scevri come sono di quel fare professionale o professorale, che un poco anche presso di noi e più in Francia ed in Germania, tradisce il carattere e si mostra al tema dei discorsi, al frasario, al tono, all'accento, al gesto e perfino al vestire. Quanti conobbi in America, letterati e scienziati, tutti mi parvero gente del comun vivere, colla quale, a non conoscerla, potreste discorrere più ore e più giorni senza nemmeno sospettarne le occupazioni e la notorietà.
Ricordo una sera deliziosa passata all'Italian Home (Istituto italiano di beneficenza), in New-York. A questa benefica istituzione assiste gratuitamente un collegio medico italiano assai numeroso, al quale nei casi gravi e complicati, soccorre con volonteroso e gratuito concorso un collegio consultivo composto delle più celebrate sommità cliniche della metropoli. Ogni anno i fondatori, i direttori ed il collegio medico dell'Italian Home, offrono ai professori americani componenti il collegio consultivo, un modesto e cordiale ricevimento nelle sale a terreno dell'Istituto. Il ricevimento termina in cena e la cena in discorsi. Ma questi non sono, come avviene di solito presso di noi, compassati, solenni e retorici, bensì sciolti, arguti, conversanti e piacevoli oltre ogni dire. La sera ch'io assistetti alla bellissima festa, al primo saluto e benvenuto officiale di un direttore italiano, risposero uno dopo l'altro quasi tutti i convitati americani. Non mi avvenne mai di notare a banchetti europei una così generale prontezza, chiarezza, precisione e semplicità di parola.
Presso di noi la facoltà di esprimersi in pubblico in modo dilettevole è tanto rara che attribuisce a chi la possiede una speciale ed invidiata notorietà. In America essa è si può dire universale fondamento del vivere sociale. Le prime scuole la sviluppano e l'educano nei fanciulli con frequenti esercizi di esposizione orale e di letture ad alta voce. Presso di noi, la vita pubblica considerata nella sua azione comunicativa e persuasiva è privilegio di pochi e prende ben presto una veste professionale. In America essa è di tutti ed è esercitata di continuo, non ostante la differenza delle condizioni, in una perfetta e reale eguaglianza di diritti e di relazioni. La molteplicità degli uffici elettivi, la critica liberissima di tutti i poteri, le formidabili concorrenze che inducono formidabili associazioni di forze continuamente scosse e rinnovate, il bisogno continuo di attirare l'attenzione dei più e di accaparrarsene il consenso fanno della parola persuasiva e del ragionare chiaro e ponderoso, un istrumento indispensabile di riuscita in ogni ramo dell'attività umana. Perciò ivi l'azione non va scompagnata dalla parola ed anzi la parola è principio, modo e spesso argomento di azione.
Nei paesi dove il parlare in pubblico è di pochi, gli oratori sono tenuti in pregio più per le qualità formali che per le sostanziali. La facilità, la continuità imperterrita, l'abbondanza dell'eloquio e perfino la rotondità enfatica del fraseggiare, meravigliano gli ascoltatori incapaci di mettere insieme in pubblico quattro proposizioni continuate. Noi siamo facilmente indotti ad ammirare quello che non sapremmo fare, per il solo fatto di non lo saper fare. Quante volte non ci avviene, nelle assemblee, nei circoli, ai banchetti, ascoltando un facile oratore, di sussurrare nell'orecchio di un vicino fidato: come parla bene quell'imbecille! E in fondo in fondo, ed in quel momento, la proposizione contiene più elogio che censura. Non voglio già dire che in America il numero degli imbecilli sia minore che in casa nostra: certo è maggiore quello degli imbecilli che parlano bene, ma perchè il parlar bene è qualità comunissima, nessuno li loda di ciò che ognuno saprebbe fare al pari di essi.
Eliminata per lunga abitudine la preoccupazione della parola, la concentrazione intellettuale è intesa tutta al pensare, all'argomentare. In generale, la facondia degli americani non è un'arte, è uno strumento; essa è assai più dialettica che oratoria. Non mancano neanche là, gli oratori sbracciati, pomposi, reboanti e congestionati. Mi parrebbe ingratitudine non menzionarne uno che fra le innumerevoli eccentricità ond'ebbe fama in quel paese dove gli uomini eccentrici si contano a migliaia, possiede anche quella di essere amantissimo dell'Italia. Dico possiede, ma non so s'egli viva ancora. Io lo conobbi vecchio ed ho come una oscura reminiscenza d'aver letto che è poco, la notizia della sua morte. Nel dubbio mi è caro darlo per vivo, tanto più che al mondo non vive certo il compagno. Mister Francis Train, geografo, come egli scrive nelle sue carte di visita, ha fatto tre volte il giro della terra, il tempo in cui non che in ottanta giorni, non lo si compiva a suo modo in ottanta settimane. Fu una volta candidato alla presidenza degli Stati Uniti, è creatore di città, scopritore di terre, fondatore di religioni e profeta. Ha, dice un suo manifesto, il cervello di venti uomini, l'energia di cento, il magnetismo di un Dio. Lo stesso manifesto enumera le azioni pratiche e positive ch'egli ha compiute. «Legò insieme i continenti, colla prima linea di piroscafi fra Boston e Liverpool e fra San Francisco e l'Australia. Inaugurò il sistema delle tramvie in Londra. Diede all'America la prima linea ferroviaria fra l'Atlantico ed il Pacifico. Aprì alla civiltà milioni di acri del più fertile verde tappeto di Dio e dove scorazzavano tribù selvaggie, insediò popoli operosi e civili.» Visse dieci anni in volontario silenzio, nel Central Park di New-York, vestito di bianco, mite e carezzevole ai fanciulli ed agli animali, non avverso agli adulti, ma ricusando con essi ogni sorta di commercio e di contatto. La gente accorreva a vederlo ad ogni ora del giorno passeggiare lungo i viali o sedere sull'erba, solitario, pensieroso, muto e sorridente. Vecchio, fece ritorno alle vie popolose, riprese la vita frammezzo alle genti e si diede a prediche e conferenze morali, sociologiche, scientifiche, umanitarie, ma rifatto inesauribile discorritore, una sua religione gli inibisce di toccare mai corpo umano, e di essere toccato. Di questa sua astensione, che non è ripugnanza, non dà avviso nè motivo. Quando io lo conobbi e gli porsi la mano, egli portò con rapido moto le sue due mani dietro la schiena ed alla mia meraviglia non rispose altrimenti che con un sorriso illuminato di bontà e di cortesia. Parla, a credergli, tutte le lingue ed i dialetti del genere umano, e non parla ch'io sappia, ma intende tutte le lingue degli uccelli. I suoi ritratti giovanili, arieggiano, ma con più energiche fattezze, quelle di Giuseppe Giusti; vecchio, ricorda il buon Pietro Cossa, se non che i bianchi baffi incerati, il vestire sportivo e l'immancabile e vistoso ciuffo di fiori all'occhiello gli danno, e Dio sa che non gli conviene, un'aria posticcia di seduttore impenitente.
Questo meraviglioso uomo è, astrazion fatta dal senso dei suoi discorsi, il più grande oratore ch'io abbia mai inteso e ch'io possa imaginare; un magico vocalizzatore di suoni articolati, di accenti, di inflessioni espressive, sostenute e fatte più intense da magnifici gesti, da accensioni fulminanti e da carezzevoli soavità dello sguardo, dalla mobilità dei lineamenti, da subitanei pallori e rossori, da pause intenzionali, da sorrisi maliziosi, da un lume d'anima effuso su tutta la persona. Un sordo a vederlo parlare, un cieco a sentirlo, intenderebbero del suo discorso quanto ne intendono quelli che ci vedono e ci sentono, e la conoscenza della lingua diventa in tanta magniloquenza di suoni, un mezzo d'intendimento affatto superfluo. Io pensai più volte che se il Poë lo avesse inteso, ne avrebbe tratto uno dei suoi più misteriosi racconti. È un demoniaco dell'oratoria. Non c'è ascoltatore così refrattario che gli resista, non c'è così acuto spirito che lo segua. È vuoto il suo discorso o troppo pieno? A sentirlo viene fatto di domandarsi se egli non dica forse troppe più cose e più alte di quante la nostra mente possa concepire e contenere. Quando è invasato e arroventato dal démone, egli coglie i nessi fra qualità ed essenze disparatissime e trova ed esprime analogie che a nessuno avvenne mai di avvertire. Il fondamento dell'ideazione non consiste forse nell'afferrare le relazioni delle cose? Ed il migliore ideatore, non è forse quello che scopre le più remote ed in apparenza inafferrabili? La parola: «assurdo» non ha valore permanente fuorchè nelle matematiche pure; fuori di queste essa esprime solamente il grado attuale della nostra ignoranza. A tale stregua tutti gli ascoltatori di Francis Train non possono a meno di riconoscersi grossamente ignoranti in tutte le cose umane e divine. Ma non sarebbe giusto farne carico proprio a lui, che solo forse, ci vede addentro e lontano. D'altronde fino a che dura il turbine delle sue parole, chi lo ascolta, sale con lui oltre i miseri termini del ragionevole e del razionale. Il moto vorticoso ch'egli induce nel nostro intelletto sembra spiazzare un lume non mai prima raggiato sull'universo sensibile e sull'ultrasensibile. Peccato che sia lume fatuo più presto svanito che balenato. Chi dura al suo discorso prova una deliziosa crescente sensazione di leggierezza volante. Si direbbe che gittate via come inutile ingombro tutte le nozioni positive e con esse la ragione, l'esperienza, la senzazione delle cose reali, il senso pratico ed il senso comune, la mente vuota e quasi imbiancata a nuovo, possa finalmente compiere la sua naturale funzione, accogliendo e rimulinando un pulviscolo caotico d'idee.
Oratori energumeni hanno pure in America le società di propaganda religiosa, fuori delle confessioni universalmente riconosciute e quelle di propaganda igienico-morali intese a diffondere l'uso dei cibi vegetali ed a combattere l'alcoolismo. Ma la loro grossa e plateale verbosità si riscontra tanto spesso, benchè con diverse applicazioni in Europa, che proprio non torna il conto di parlarne. Quel buono e pudibondo santone di Francis Train mi ha allontanato dal cenacolo dell'Italian Home, dove forse qualche psichiatra avrebbe fatto al suo caso, ma bisognava pure parlare anche di lui, perchè è altrettanto insolito all'Europa il suo sproloquio a grande orchestra, quando vi è insolita l'arguzia penetrante e casalinga dei dottori miei commensali.
I francesi possiedono per lunga tradizione accademica e mondana una facondia misurata ed incisiva, che li rende gustosissimi parlatori a commemorazioni, a cerimonie inaugurali, a dissertazioni letterarie ed a discorsi in fine di tavola. Ma le loro improvvisazioni hanno sempre un leggiero sapore di formulario e perfino la grazia vi è spesso metodica. Finchè discorrono da stare a sedere ed a mezza voce, il loro fraseggiare ha la schietta fragranza dell'impensato e dell'inatteso: ma non appena sorgono in piedi ed elevano il tono vocale, il loro eloquio, anche se estemporaneo, tradisce le reminiscenze letterarie e si informa ai buoni modelli.
Già in generale tutti quanti abbiamo più spirito a bassa che ad alta voce, e seduti che in piedi, e l'originalità degli americani di cui sto parlando, consiste appunto nel non fare differenza nessuna dal conversare alternato in crocchio, al parlare solo e ritto ad ascoltatori seduti ed attenti. Li vedo ancora e mi par di sentirli gli oratori propizianti alla cena dell'Italian Home. Si alzavano risoluti, mettevano le mani in saccoccia come per inibirsi ogni gesto e prendevano a discorrere dondolandosi leggermente sulle gambe. La varietà del loro accento non erano mai di accrescimento tonico, ma di attenuazioni. Fino dalle prime parole si capiva che le idee si porgevano loro nette e chiare, perchè sono nette e chiare la loro mente e le loro nozioni, ma affatto impreparate così rispetto all'ordine come rispetto all'espressione. Nessuno mai di quegli artifizi sviatori che piegano il discorso verso una arguzia preconcetta. L'arguzia usciva dal naturale svolgimento del pensiero spontanea e necessaria ma schioppettante in motti, ma connaturata coll'idea, e circolante, come sangue vivace, per tutte le membra del discorso. Ogni oratore, tranne il primo, prendeva lo spunto da qualche proposizione dell'oratore precedente, per modo che correva dall'uno all'altro una concatenazione di argomenti, cui davano varietà e rilievo le osservazioni individuali. Come nelle nostre campagne usano alle merende mandare in giro, d'uno in altro commensale la coppa colma del vino paesano, così andava in giro a quella cena, quasi una coppa colma d'idee, dove ognuno pescava quelle più confacenti alla sua indole e le tingeva poi del proprio colore.
Questo procedimento, dà alla serie dei discorsi un piccante carattere di giostra intellettuale e rimuove la possibilità ed il sospetto delle improvvisazioni mandate a memoria. L'uditore assiste per così dire al lavorìo mentale onde ognuno dalle idee che gli sono proposte, è costretto a trarre di subito il migliore partito. Le idee già ordinate e formulate nella nostra mente, non hanno altro organo espressivo che la parola, mentre invece quelle che vi si vanno ordinando e formulando associano a sè tutto l'essere nostro, ragiano dallo sguardo, illuminano il sorriso, ed esitando brevemente nella urgente ricerca del vocabolo istesso una intensità ed una precisione singolare di significati. Fra i godimenti intellettuali nessuno è più delicato e vibrante del vedere nella mente degli altri l'idea affacciarsi, misurare il campo che le è concesso e poi affidarsi con giovanile baldanza alla parola. Nei discorsi premeditati le giunture delle idee sono ad arte levigate e rese invisibili. Ma come nei tram elettrici, l'asta che deriva la forza scorrendo liscia sul filo conduttore, quando intoppa nei giunti del filo, ne fa sprizzare una scintilla, così nel pensare e nel parlare veramente estemporaneo avviene che ad ogni nuovo incontro d'idee, la proposizione già avviata riceva quasi una scossa che balena nell'occhio e trema nella voce dell'oratore. E allora la compiacenza del nuovo sussidio e l'energia intesa a giovarsene si palesano in lui a mille segni accrescitori ed anticipatori della parola.
Ma questi sono pregi universali del parlare improvvisato, che si riscontrano in tutti i paesi della terra; mi sono lasciato andare a notarli discorrendo di oratori americani, perchè in America non mi avvenne di sentirne pur uno, e ne intesi molti, che non mostrasse ad indubbi segni una schietta e fresca estemporaneità di parola. Caratteristico mi parve invece in essi, il modo di quella loro incredulità cui ho accennato fin da principio. Ma la parola incredulità dice troppo o poco. Meglio che incredulità attuale, vorrei chiamarla: previsione generica di doversi un giorno ricredere su tutte le cose attualmente credute. Non si tratta di uno scetticismo che attenui in essi il consenso e la fede in quanto è oggi tenuto in conto di verità, no; la verità attuale, rifletta essa le scienze sperimentali o le politiche, od i modi artistici e letterari (lascio da parte la metafisica perchè non mi occorse mai di parlarne), la verità attuale prende nelle loro menti un carattere di tranquilla certezza e le move a praticarla con sicura energia. Solo sanno, che la verità d'oggi, non è quella di ieri e non sarà quella di domani, quantunque destinata a cedere il posto ad una successiva. Alle prime questo pare un linguaggio anfibologico, ma non è. Non è indifferente pensare che lo spirito umano proceda per via di successive verità, piuttosto che di successivi errori. In sostanza la cosa viene a dire che i concetti di verità e di errore non sono assoluti, ma relativi e negli effetti pratici se ne induce la conclusione che ognuno deve aver fede nel tempo in cui vive e prenderlo sul serio ed agire in esso con sicurezza. Ogni verità anche se transitoria è una forza. I dubitosi non producono bene perchè agiscono tepidamente. Chi crede che l'azione che egli va compiendo corrisponda al vero, ci spende attorno la massima somma di energia ed opera senza esitazioni e senza mollezze. D'altra parte il sapere che il vero non è eterno nè immutabile, rimove il pericolo degli acciecamenti ostinati e dell'intolleranza. E perchè la sicurezza è rasserenante e giocondatrice, quegli spiriti hanno una gaia contentezza del presente ed una gaia aspettazione del futuro e la loro ironia, scevra affatto di amarezza, si esercita tanto a spese delle fedi immobili, quanto del dubbio permanente.
In un punto poi l'ironia di quegli elettissimi fra gli americani, mi parve singolarmente gustosa. Nella consapevolezza che essi hanno del concetto in cui noi europei li teniamo, e nel bonario compatimento che ne fanno. Qui proprio, ho trovato nel loro spirito il segno di una tranquilla e signorile superiorità ed ho provato più volte al loro cospetto quella mortificazione che si prova nel riconoscere d'aver male giudicato di una persona che non si risente del nostro giudizio, ed anzi con pacata saggezza, se lo spiega e lo perdona.
Un certo, non dirò maligno, ma arguto piacere lo provano a metterci in discorsi d'arte, nei quali sanno che presumiamo di noi in modo eccessivo come di cosa che ci appartenga. Ci danno corda, ci stimolano con ingenue domande e con sorrisi di compiacenza; non vorrei che non si dilettino del nostro discorso, ma più si dilettano di vederci mordere all'amo e tener cattedra aperta. È così facile cascarci, anche gli uomini meno verbosi e meno presuntuosi, viene così naturale a chi si trova in paesi lontani, di soddisfare minutamente alle curiosità che i forestieri hanno del nostro paese, e si obbedisce ciò facendo ad un sentimento, dove entrano in dose tanto eguale, la vanità patria e la cortesia, se pure quest'ultima non prevale, che proprio c'è poco merito a tendere la trappola ed a far presa. Ma bisogna anche dire che i trappolatori mostrano del piccolo e facile trionfo, una compiacenza così misurata e deferente e la mostrano a così tenui segni, che non c'è modo, anche chi se n'accorge, d'aversene a male. Tanto più che in fondo, di quella curiosità e di quella malizia, c'è il riconoscimento di una nostra singolare perizia e quasi la confessione di una loro inferiorità. Questo è certo ad ogni modo, che se ai nostri discorsi d'arte fanno la tara, dimostrano però colla pratica verso la produzione artistica europea, una predilezione che li rende spesso ingiusti a quella del loro paese. Ho notato, con molta maraviglia, anche in persone coltissime, una inesplicabile indifferenza rispetto alla loro arte nazionale, della quale ignorano o poco apprezzano, gli stessi più celebrati prodotti a noi ben noti, mentre conoscono ed esaltano molti europei di pari valore.
Il Pöe ed il Bret Harte hanno più larga fama in Europa che in America, e vi sono assai più stimati. Gente che conosce ed ammira il Père Goriot, les Contes Drolatiques, Consuelo e Lelia, non serba nessuna memoria del Corvo, dello Scarabeo d'oro, del Romanzo della Mummia e degli indimenticabili Racconti Californesi. Ciò fa assai più meraviglia degli ammiratori del Balzac e della Sand che di quelli dell'Ohnet e del Gaboriau. Che la gente di palato grosso, prediliga i cibi grossolani e non curi dei delicati, si capisce, ma non riesco a concepire come gli americani colti e riflessivi possano tenere in poco pregio le opere squisite e sincerissime del Pöe e del Bret Harte, solo perchè non provengono d'oltre oceano, ma sono nate e fiorite nel loro paese.
Nelle classi poi di media coltura, questo esotismo letterario ed artistico, è davvero stupefacente. Gli uomini eleganti, gli uomini d'affari anche se politi e curiosi a sfoggio di raffinatezze, di ogni cosa appartenente all'arte, si mostrano rispetto alla importazione artistica europea, creduli e magnificanti oltre misura. I nomi che in alcun modo ottennero fama di qua dell'Atlantico e giunsero a risonare anche di là, vi sono profferiti con accento di sacro ossequio e magnificati senza far differenza di qualità nè di gradi. Si discorra di una celebre mima, di un trasformista di caffè concerto o di Vittor Hugo, di Giuseppe Verdi o di Alessandro Dumas, sono le identiche esclamazioni ammirative. E l'ammirazione per questi ultimi è affatto indipendente dalla conoscenza, nemmeno nominale, delle opere loro. Anche di queste conoscono, se non altro il titolo, ma non saprebbero a chi attribuirle. Ho inteso molte persone di conto e perfino dei giornalisti adibiti alla cronaca ed alla critica19 teatrale, esaltare il Dumas ed il Sardou e la Signora dalle Camelie e la Tosca, ignorando che quelli ne fossero gli autori. La Signora dalle Camelie, sia detto fra parentesi, non è nota in America sotto il suo vero titolo. Il pubblico ed il manifesto la chiamano: Camille. Il fiore caro a Margherita Gauthier suona in inglese Camellia. Camille non designa dunque il fiore: e non la protagonista che seguita a chiamarsi Margherita. Perchè quel titolo? E come avvenne che il pubblico non cercò mai le sue relazioni col dramma? E non trovandole, come avviene che se ne appaghi? Ho inteso dire che lo stesso segue anche a Londra. Singolare vicenda del dramma più popolare del nostro secolo! Oramai nei teatri della razza anglo-sassone, che sono circa la metà dei teatri del mondo, il nome Camille è legato per sempre ad una nazione drammatica colla quale non ha nulla ha che fare. Un segno grafico, un numero, le converrebbero del pari: il titolo è diventato una mera designazione convenzionale.
Ma ben altro argomento di maraviglia mi furono le rappresentazioni teatrali in lingua francese cui assistetti negli Stati Uniti. E devo dire che anche a ripensarci dopo che il tempo e la riflessione mi hanno fatto capace di tante cose sulle prime inesplicabili, non mi riesce di darmene ragione. Come mai le famose attrici europee, quali la Sarah Bernhard e la Duse, possano conseguire in America quel costante, universale e fruttifero consenso di pubblico che ve le richiama tanto spesso con immancabile fortuna. Gli americani non sono poliglotti. Al più le numerose colonie tedesche primeggianti in alcuni Stati del centro, conoscono e parlano colla propria anche la lingua inglese. Ma la francese vi è in scarso uso ed in più scarso l'italiana, se ne togliamo le numerose schiere operaie che non frequentano di certo i teatri a caro prezzo. E quei rari americani che studiarono il francese e quei rarissimi che studiarono l'italiano, ne appresero bensì le forme grammaticali ed impararono a leggere stentatamente qualche libro dallo stile piano e scorrevole, ma non riescono a parlarlo nè ad intenderlo parlato. Al mio primo giungere in America, io masticavo a mala pena qualche parola d'inglese; sempre quando, mi occorreva di conversare con un americano, lanciavo invariabilmente questa domanda iniziale:
- Do you speak20 French21 sir?
Di venti volte, diciannove mi sentivo rispondere un: Ohh noo, con tante h all'Oh e tante o al No, da centuplicare la negazione. Quando capitava la ventesima che mi ribatteva un yes sir (timido, per vero), io mi ringalluzzivo tutto e mi disponevo a versare sul malcapitato fiumi di parole, per risarcirmi della parsimonia verbale usata cogli altri. Ma fin dalle prime, seguiva che il mio interlocutore non interloquisse o lo facesse con sì penoso sforzo mentale, labiale e gutturale che mi metteva in pensiero della sua salute. Ed il francese mozzicato che esalava dalla sua bocca contratta ed a lungo spalancata, mi tornava assai meno comprensibile che non l'inglese arrotondato di quegli altri, onde gli proponevo a modo di amichevole componimento che egli parlasse inglese ed io avrei parlato francese. Ma sì! Il mio francese, e non per mia colpa ve lo assicuro, riusciva a lui tanto ostico quanto a me il suo e più ostico assai del poco inglese suggeritomi dagli antichi studi interrotti e dai recenti frettolosi. Prova e riprova si finiva là dove s'avrebbe dovuto cominciare, coll'intenderci male nella lingua del paese, quando pure non si seguitava a non intenderci affatto, e qui il torto era mio perchè paese che vai lingua che trovi.
Dico dunque che il pubblico americano non intende verbo alle lingue che la Bernhardt e la Duse parlano e cantano in modo tanto delizioso. Della Duse questo segue benchè in minore proporzioni anche in Europa, quando viaggia e recita in Germania, in Russia, in Francia ed in Inghilterra; ed anche alla Bernhardt è somma grazia se, dalla Russia e forse dall'Italia in fuori, di mille spettatori, cinquecento intendono a modo tutte le sue parole. Ma qui esse portano intorno commedie e drammi già noti in ogni città per via di traduzioni cento volte rappresentate dagli attori locali. Il pubblico che sa la commedia e ne ricorda i punti salienti può seguire e gustare la interpretazione dell'attrice, s'anco questa parli una lingua ch'esso non conosce o poco.
In America, la Bernhardt ad ogni nuovo giro suol portare uno o più drammi nuovi ed il repertorio della Duse, salvo la Signora delle Camelie, vi era, quando essa vi andò la prima volta, affatto sconosciuto e si può ben dire che sconosciuto rimane. Come fa il pubblico a seguire l'azione scenica, a misurare l'efficacia espressiva dell'attrice, a coordinarla ai movimenti drammatici? Gli impresari curano che insieme col biglietto d'ingresso ogni spettatore riceva, mediante un prezzo supplementare, un sunto della commedia22 o del dramma, esposto in forma narrativa colla divisione in atti ed in scene. Ma questo è per lo più redatto bestialmente in modo inintelligibile. Di tutte le scene dove la protagonista non interviene, l'esposizione è scarna ed arruffata; di quelle dove essa primeggia, son minuziosamente descritti, non i movimenti intrinseci, ma i modi interpretativi dell'attrice ai quali è profuso lo sproloquio laudativo proprio degli infimi giornali23 teatrali. Vi si legge ad esempio: «Qui la Tosca (o Cleopatra o Giovanna d'Arco che si voglia) fa quel famoso gesto, esce in quel celebrato scatto di voce, cade, sorge, traversa il palco scenico nel tal modo, col tale atteggiamento che mossero il pubblico europeo ad irrefrenabili applausi e furono lodati dai sommi oracoli della critica parigina.» Ma il perchè di quel gesto, di quel grido, di quella caduta e di quella mossa, non è detto, nè accennato, nè dalla confusa narrazione del soggetto si potrebbe altrimenti indovinare.
Ho assistito in una piccola città di cui non ricordo il nome, tra Cincinnati ed i laghi centrali, ad una stupefacente rappresentazione della Tosca in lingua francese. Una città nata appena, anzi sul primo nascere, e nata e nascente, non da un nucleo centrale che vada via via allargandosi e sviluppandosi e salendo di villaggio in borgata e di borgata in città, ma invece a pezzetti sparsi ed interi, frammezzati anche nei quartieri centrali da larghe distese di terreni coltivi. Uno schietto prodotto americano ultra incivilito ed ultra primitivo: un tratto di via sontuosa con palazzoni mirabolanti e botteghe metropolitane e tram e telefoni, poi un campo seminato oltre il quale la via ripigliava imperterrita le sue urbane gradigie. Sotto le finestre del mio fastoso albergo una banda di pellirossi cenciosi, pennuti e magnifici suonava delle arie di operette. Dietro le invetriate del Window sporgenti si vedevano rosicchiar confetti le stesse eleganti signore che oziano in quotidiana mostra dietro le verande di New-York e di Chicago. Per le vie passano attillati nel soprabito a doppio petto e col cappello a staio, uomini membruti capaci di spezzare uno scudo coi denti e colle dita e di sollevare un peso di cinque quintali. Una processione massonica spiegava al vento stendardi e labari a immagini24 simboliche e sfoggiava sul petto degli iconoclasti repubblicani croci e medaglie da disgradarne i diplomatici peruviani delle farse. Un numeroso stato maggiore di generali in grande parata, con elmi a pennacchio, spallini ed alamari d'oro lucente, sbatacchiando lunghi e curvi sciaboloni e soffiando come mantici entro inverosimili trombe dorate, precedeva un'insegna dove era magnificato non so quale estratto di carne della ditta X, Y and Company. Da tutti gli aspetti, da tutte le azioni, da tutti i suoni, si rivelava nella sua macchinosa impazienza l'America milionaria, brutale ed incompiuta.
La compagnia della Sarah Bernhardt vi dava una recita sola. Giunta sul mezzodì da Cincinnati, doveva ripartire per Détroit in treno speciale, non appena terminato lo spettacolo. Ho fatto anch'io durante quindici giorni quella vita di zingaro principesco. Accompagnavo la compagnia per assistere alle prove di un mio dramma. Si viaggiava dalla mezzanotte fino a giorno inoltrato, a volte fino al mezzodì. La Bernhardt colla famiglia, aveva un vagone regale con due o tre cabine, un salone, una cucina ed un delizioso terrazzino a invetriate. M.r Abbey l'impresario occupava un altro vagone poco dissimile, del quale cedeva a me un minuscolo quartierino composto di una cameretta col suo bravo letto, di uno studiolo e di un gabinetto di toelette. Al resto della compagnia erano dati due vagoni Pullman. Quando si dimorava due giorni nella stessa città il convoglio fermo in stazione su qualche binario appartato era il nostro albergo. Al primo giungere si correva in teatro per le prove: lo spettacolo cominciava alle otto di sera e terminava verso le undici.
Quella sera dunque, gli attori stavano vestendosi per la Tosca, quando l'impresario venne ad avvertire si sollecitasse la recita dovendosi partire alle undici precise. Bisognava quindi che lo spettacolo terminasse poco dopo le dieci. Cominciare subito non si poteva perchè ancora mancava il pubblico, gli intermezzi bastavano a stento ai mutamenti di scena e di arredi; unico rimedio sfrondare il dramma senza pietà, cucire insieme a dispetto del senso artistico e letterale tutte le scene dove interviene la protagonista, menar di forbici in tutte le altre e parecchie sopprimerle addirittura. A queste amputazioni i comici, i suggeritori ed i régisseurs hanno una grande destrezza e sono parati ad ogni momento. Ci si piega di mala voglia la Sarah Bernhardt, dotata com'è di una rigorosa coscienza artistica e rispettosissima del testo letterario. Ma questa volta l'urgenza imperiosa ne vinse gli scrupoli ed anzi il disgusto dello sconcio inevitabile, la indusse in una rabbia demolitrice che non conobbe più freno nè legge. Poichè profanazione doveva essere, avesse almeno una artistica enormezza. Così una virago poichè vide la sua casa demolita da una banda di facinorosi, impotente alla difesa, nel furore disperato mette di sue mani il fuoco alle travi perchè meno duri l'orrore della distruzione.
Non posso ridire lo scempio che si fece di quella povera Tosca. Gli atti erano presi d'assalto come una fortezza smantellata e da ogni parte rovinavano come massi smossi o come tese di muraglie rovesciate, brani di dialogo e scene intere. I personaggi scorazzavano pazzi attraverso un dramma insensato. A mezzo d'una scena, per saltare di un colpo nella successiva se il personaggio che vi doveva agire non era presente, uno degli attori che stavano recitando, si faceva sulle quinte e lo chiamava per nome ad alta voce. E quello accorreva ed usciva a casaccio in un dialogo improvvisato a soggetto, finchè non gli riuscisse di afferrare un capo del filo drammatico mille volte spezzato e mille volte riannodato a nodi grossi e lenti. Io stavo in poltrona godendomi il delirio frenetico dei comici e più la bevuta larga degli spettatori. Quando fummo alla scena famosa della tortura, dove la Tosca smania ed urla alle grida ed ai gemiti del suo Mario, la Bernhardt dimenandosi e contorcendosi come un'ossesso, in luogo di profferire le parole angosciose del testo, prese a nominare strepitando i personaggi del mio dramma, finito di provare poco innanzi che cominciasse la recita. Dovetti fuggire per non smascellarmi dalle risa, mentre il pubblico rapito e commosso non si ristava dagli applausi e dalle acclamazioni. E tutti quanti, tenevano in mano e leggevano negli intermezzi il loro bravo sunto sceneggiato nel quale non era cosa che discordasse dall'azione che andava scatenandosi sul palcoscenico, e concordavano invece nella assoluta e fondamentale assurdità dell'uno e dell'altra.
S'intende bene che un tale massacro artistico non potrebbe impunemente seguire nelle grandi città colte e civili dove i teatri accolgono insieme col grosso dell'indigena, anche il fiore della popolazione forestiera ed i pochissimi americani poliglotti. New-York, Boston, Filadelfia e più ancora Washington, mandano alla prima rappresentazione di un dramma francese, un pubblico intenditore ed esigente. Ma alle seconde e alle successive occorre il sussidio della traccia riassuntiva che fa incomprensibile a tutti quello che era solamente incompreso dai più.
Un vago sospetto di queste cose ce l'avevo innanzi di recarmi in America. A bordo poi della Bretagne m'era venuto per le mani uno di quei sunti, quello appunto della Tosca e n'ero rimasto atterrito. Non appena l'impresario m'ebbe annunziato le interviste di tanti redattori teatrali, pensai tosto di giovarmene, interrogandoli a mia volta, ed ammonendoli del barbaro scempio che si fa in America delle opere drammatiche importate d'Europa. In massima, non ho nessun gusto per le interviste. Esse25 non servono per lo più che a far dire o ad attribuire cose scempie ad uomini che saprebbero a scriverne ed operarne delle sensate. Ammetto e comprendo le interviste politiche provocate ad arte dall'intervistato ed intese a propalare quella dose di verità o di falsità che giova al momento ed a promuovere le smentite autorevoli sul punto più vero. Ma se l'equivoco può giovare qualche volta alla politica, all'arte nuoce sempre e quello che un artista pensa dell'arte, deve apparire dalle sue opere e non risultare dal processo verbale di un interrogatorio. Di solito poi le interviste letterarie ed artistiche, hanno una applicazione ad hominem del tutto sconveniente. Un signore che non conoscete, viene di punto in bianco a domandarvi per mandarlo alle stampe, che ne pensiate del tale autore e della tale opera; cose che è tanto facile argomentare a priori: si pensa male dell'uno e peggio dell'altro, onde l'intervista non fa che distillare veleno zuccherato. Nulla è più indiscreto del costringere un galantuomo ad essere o finto o scortese e quello che da sè non direbbe, farglielo gridare dai tetti a comodo professionale di un giornalista. Senza contare che quando non diffama una terza persona, l'intervista riesce troppo spesso diffamatoria all'intervistato, se pure non cumula le sue diffamazioni. In questa sorta d'inchieste a me non avvenne mai di trovar poi stampato quello che veramente avevo detto. Non è molto, un valoroso critico francese, poichè m'ebbe oltre un'ora tempestato di domande categoriche, mi fece annoverare fra i romanzieri italiani viventi Cesare Cantù, ch'io non avevo neppur nominato e che era morto due anni addietro.
Non ostante questa avversione fondamentale, l'idea di trattenermi in discorso di teatro, coi meglio redattori teatrali di New-York mi dava piacere e ne speravo un gran bene. C'era bensì la difficoltà della lingua, ma era appena arrivato e mi duravano molte illusioni sul francese degli americani, e devo pur confessarlo sul mio proprio inglese. Ad ogni modo pregai un colto e gentilissimo giornalista italiano, il signor Salvatore Cortesi, da due anni residente in New-York, perchè mi assistesse al cimento. Alle otto di sera cominciò la sfilata. Avrei voluto e speravo di poter raccogliere ad un tempo due o tre di quei signori, che sarebbe stato un mezzo assai più comodo, più sbrigativo e profittevole di allargare la conversazione e di volgerla a' miei fini. Ma non ci fu verso. Venivano, uno alla volta, aspettando il secondo che il primo se ne fosse andato, ed il terzo, che se n'andasse il secondo. Entravano, salutavano, sedevano:
- Do you26 speak French27 sir?
- Oh, noo!
Allora porgevo loro un bicchierino di Wisky e il buon Cortesi spiegava come non ostante la mia profonda conoscenza, diremo, letteraria, della lingua inglese, non avessi l'abitudine di parlarla, e si profferiva interprete. Quelli gradivano e cominciavano l'inchiesta.
- Mister Giacosa è italiano? Quanti anni? Ha scritto un dramma in lingua francese? Dove dimora in Italia? Quando ne partì? Ha fatto buon viaggio? Ha sofferto durante la burrasca? Bella New-York? Ha veduto il ponte di Brooklyn? Gli piace? Che cosa pensa di Sarah Bernhardt? Conosce Mascagni? Che ne pensa? Conosce Tamagno? Che ne pensa? Favorisca dirci il titolo del suo dramma. Storico? Epoca? Racconti il soggetto.
E non c'era modo di sviarli un palmo dal loro interrogatorio, formulato in domande asciutte, con una compitezza di modi grave ed astinente, con un linguaggio professionale e quasi abbreviativo. Mentre io rispondeva ad una domanda, essi registravano la traduzione che il Cortesi aveva fatto della precedente. Terminata l'inchiesta, gradivano il secondo bicchierino, salutavano me ed il Cortesi con forti strette di mano e se ne andavano com'erano venuti con ineffabile impassibilità. Cinque volte mi toccò rispondere a domande su per giù equivalenti, cinque volte dovetti io esporre per sommi capi il mio dramma, ed il buon Cortesi voltarne in inglese la narrazione. Di che si giovarono le mie cognizioni linguistiche assai più che dalla lettura del manuale di conversazione e di una settimana passata a tradurre: l'ombrello del mio vicino, ed il temperino del mio maestro. Perchè a udirlo raccontare sempre compagno, così com'io l'esponevo con disperata uniformità, mi si fissavano in mente molti termini dapprima ignorati, e quasi proposizioni intere. E devo pure aggiungere ad onore dell'intelletto umano il quale sa fare diverse le cose somiglianti, che dai cinque identici racconti uscirono l'indomani altrettanti relazioni affatto dissimili l'una dall'altra e dissimili tutte dall'originale.
Alle nove e mezzo, il quinto redattore se n'era andato, io cascavo dal sonno e morivo dalla voglia, dopo tante notti vegliate a bordo sui sofà della sala da pranzo, di riposare finalmente in un buon letto in terra ferma. Si rimase un quarto d'ora in attesa se mai capitassero altri, poi il mio ottimo interprete prese licenza e mi lasciò solo. Già stavo spogliandomi quando picchiarono all'uscio e mi portarono un biglietto di visita. Era il sesto. E mi mandava col biglietto di visita, una letterina dell'impresario che gli fissava l'intervista per le dieci di sera. Impossibile rimandarlo, tanto più che l'indomani io dovevo partire per Chicago dove si trovava allora la compagnia. E poi mi confortava il pensiero che partito il Cortesi il nostro colloquio sarebbe stato di necessità assai breve e tale da potersi sostenere colla mente insonnita. Avanti dunque.
Era un giovane sui trent'anni molto elegante, ed all'aspetto più aperto e più comunicativo dei suoi compagni.
- Oh noo!
- But I28 do not speak english-at-all.
E si mise a sedere accanto al fuoco, coll'aria di una vecchia conoscenza, soddisfatta dell'incontro. Gli offersi il Wisky più coll'atto che colle parole, e m'industriai di persuadergli che proprio non mi era possibile sostenere una conversazione in inglese, e posso ben dire che ogni mia proposizione, era una prova luminosa della mia sincerità. Ma egli studiandosi di pronunziare chiaro e spiccando con benevola lentezza ogni parola, seguitava a dirmi tutto sorridente che avrebbe voluto conoscere la mia lingua come io conoscevo la sua, che tutto stava cominciare, che se a me non dava noia, egli avrebbe avuto piacere di trattenersi con me più di quanto sarebbe occorso a due spediti parlatori. Mi offrì un eccellente sigaro d'Avana, ne accese uno di suo, e prese ad interrogarmi.
M'ero svegliato del tutto e in fondo sentivo che la scena era gustosa per sè stessa, ed il mio interlocutore piacevole ed interessante. Finchè si rimase sulle prime inchieste: il viaggio, l'arrivo, l'impressione che mi aveva fatto New-York; fino a che infine egli potè metterci molto del suo, le cose andavano a maraviglia. Io accennavo in modo approssimativo, egli afferrava, integrava e suggeriva, ridevamo insieme dei miei spropositi ch'egli correggeva con molto garbo, ne scattavano osservazioni piene29 di sapore; mi dilettava lo studio ch'egli faceva ad esprimerle in forma elementare e rimanendosi in una poverissima copia di vocaboli, e glie ne ero grato; insomma, mi persuadevo sempre più che la parola non è il solo nè il migliore mezzo di comunicazione fra gli uomini e che intanto nel caso nostro se avessimo tutti e due parlato speditamente, non sarebbe uscita dai nostri discorsi quella corrente di simpatia che usciva dallo sforzo scambievole e dal comune desiderio di vincere la stessa prova.
Ma quando venne la volta del dramma, mi sentii proprio cascar l'animo. Mai e poi mai avrei saputo raccontarne disteso l'intreccio. Il suo non era giornale del mattino, usciva, mi disse egli stesso, sul mezzodì: gli suggerii di leggerne l'esposizione sui giornali mattinali che l'avevano intesa dal Cortesi. Mi rispose ridendo che ciò non gli conveniva, e che d'altronde tutti ne avrebbero fatto una relazione monca e confusa.
- Preferisco capir male quello che mi dite voi, che bene il male che avranno capito quegli altri. -
Allora mi venne un'ispirazione. L'albergo dove ero alloggiato, si chiamava l'Hôtel Martin: il proprietario era un francese. Suonai il campanello e domandai al cameriere se fosse in casa il padrone. Mi rispose che il padrone era uscito, ma che c'era il maître d'hôtel, il direttore della tavola.
- È francese il maître d'hôtel?
- Sissignore.
Il mio giornalista capiva e se la godeva sorridendo incredulo. Venne il maître d'hôtel, in abito nero e cravatta bianca, grave, grasso, pelato e nobile. Lo pregai di sedere, di stare a sentire attentamente quello che gli avrei raccontato e di raccontarlo a sua volta in inglese; proposizione per proposizione a quel signore lì presente. Mi fece un cenno di condiscendenza e cominciai il racconto. Ne fu subito sbalordito, tradusse alla meglio la descrizione della scena, guardandomi però con aria sospettosa, fiutando qualche mal tiro. Rassicurato, raccolse tutte le sue forze per seguire il filo della narrazione; ma quanto più egli si faceva attento ed intento, tanto più sentivo salire in me una ilarità irrefrenabile e la vedevo luccicare di gioia infernale nella pupilla dell'arguto americano. E già mi crucciavo della risata imminente, quando il malcapitato interprete si levò e con una faccia attonita, sincera e quasi umile, come di uomo che vede cosa al disopra di ogni sua concezione, mi disse queste testuali parole:
- Monsieur, jamais je ne pourrai raconter ça à monsieur, je suis a New-York depuis trois mois, mon anglais se borne aux beefteaks, aux pommes de terre, aux omelettes et aux vins de Champagne. Ainsi vous permettez... - E se ne andò senz'altro.
Per farla breve, dopo aver riso tutti e due dell'avventura, con una fraternità degna di più chiare comunicazioni verbali, il dramma lo raccontai io. E lo raccontai in inglese, richiamandomi alla mente parole e frasi del buon Cortesi, ricorrendo al gesto, ai passi, ai moti, alle figurazioni sceniche. Eravamo tutti e due eccitati e vogliosissimi, io di esprimere, egli di comprendere e nell'intenso raccoglimento mentale avveniva a lui di preavvertire certi svolgimenti dell'azione, di cogliere, prima ch'io li enunciassi, certi movimenti dell'animo dei personaggi; e la certezza di essere compreso, raddoppiava in me l'efficacia espressiva, mi faceva audace ad arrischiare termini posseduti in modo dubbioso e che il più delle volte si trovavano azzeccare proprio nel segno.
Com'ebbi finito, era passata da un pezzo la mezzanotte; egli si levò, elogiò con effusione il mio dramma ed il mio racconto, prese il cappello ed una scatoletta che aveva deposto entrando sopra una seggiola presso l'uscio, e mi disse ancora qualche parola, che o soverchia fiducia nel mio inglese, o dimenticanza, profferì tanto serrata ch'io non l'intesi. Credetti mi ringraziasse e m'inchinai complimentoso. Quale non fu il mio stupore quando lo vidi girare le chiavette delle due lampade a gaz che brillavano sulla caminiera! In un attimo nella tenebra lampeggiò un fascio di luce bianca e vivissima, udii lo scatto di una molla e compresi che egli aveva sparato la sua macchinetta fotografica. Riaccese il gaz, mi ringraziò e se ne andò contento lasciandomi contento di lui, e quasi soddisfatto di me.