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CAPITOLO VII.
Gli Italiani negli Stati Uniti.
Ebbi la prima notizia intorno alla condizione degli Italiani negli Stati Uniti da tre emigranti che incontrai a bordo della Bretagne. Stavamo faticosamente traversando quella plaga oceanica che a bordo chiamavano: Le trou du diable, o le trou de l'enfer, in causa della sua smisurata profondità e che sta ad una giornata di viaggio di qua dai banchi di Terranuova. La formidabile burrasca equinoziale che ci aveva tenuti bloccati al chiuso per cinque giorni, s'era alquanto quietata. Appena il Comandante ebbe fatto levare le chiuse ferrate che ci imprigionavano, quanti ancora eravamo validi a bordo, una cinquantina circa, sopra seicento passeggieri d'ogni classe, salimmo sul ponte, avidi di respirare l'aria aperta e di vedere il grande nemico. Il mare ondeggiava ancora così alto che se non fossimo pur ora usciti dal peggio, l'avrei creduto al sommo dalla tempesta.
Alla vista di un'onda larghissima che sorgeva soleggiata all'orizzonte, un contadino che mi stava vicino gridò a due suoi compagni, in piemontese e coll'accento mio canavesano:
La Sèra (la Serra), è una grande collina morenica che s'allinea ad oriente lungo il piano d'Ivrea e lo separa dal Biellese.
Mi voltai di scatto, e quelli seguitando a raffigurare nel maroso la patria collina, vi designavano, nei grossi fiocchi bianchi lucenti al sole, casali e paesi che nominavano giocondamente a richiamo di affetti e di memorie.
- Siete canavesani? - domandai loro in dialetto.
- Sì.
- Di che luogo?
Uno era d'Azeglio e l'altro di Caravino. - È canavesano anche lei?
- Sì, di Parella.
- Allora lei è il signor Giacosa che va in America per la sua opera.
- Appunto.
Lo avevano appreso dai giornali, sapevano che m'ero dovuto imbarcare all'Havre il 4 di ottobre e mi cercavano a bordo. Così cominciammo a discorrere e ci tornammo di poi, quanto durò il viaggio, ogni mattina. Andavano nel Texas, erano in dodici, di cui quattro donne, ma gli altri erano rimasti sotto coperta. Avevano tutti ingannato il tedio dei giorni e delle sere lunghe della burrasca, cantando.
Delle donne una era ragazza, tre avevano seco il marito. I bambini erano rimasti al paese coi nonni, perchè tutti, ben inteso, contavano di rimpatriare. Avrebbero firmato, in America, la prima e la seconda carta di cittadinanza, affermandosi, giusta quanto v'è scritto, disposti a portare le armi contro la patria d'origine.
Tutti gli emigranti, i tedeschi, gli svizzeri, gli irlandesi, i russi ed i pochi francesi, firmano quella carta perchè senza di essa non si acquista il diritto di votare, ed in America chi non ha voto non fa strada. Ma cittadini americani durante la galera del lavoro, sarebbero tornati in Italia cittadini italiani. E cittadini italiani sarebbero prima di essi giunti in Italia i sacrosanti dollari tramutati in moneta alla effigie di quel Re Umberto, che la prima e la seconda carta avrebbe loro imposto di rinnegare.
Il capo della brigata, un uomo sulla trentina, bruno, bassotto, pieno e nervoso, aveva già fatto il viaggio quattro volte. Era partito la prima volta dal paese, franco appena dalla leva, disperato e scioperato. Si era imbarcato a Genova sul primo vapore volto alle Americhe, egli non curava quale, che si trovò essere diretto alla Nuova Orléans. Era subito andato cow-boy che è come dire un misto di mandriano e di scozzone in uno degli sterminati ranchos nel Texas. Là, revolver all'arcione e spesso in pugno, a cavallo da un'alba all'altra, al vento, al sole, alla pioggia, alla neve, si era rotto alla più selvatica vita che ancora si viva al mondo da gente bianca ed alla quale i più destri sono tuttavia gli italiani ed i francesi. Poi di guardiano era salito trafficante, acciuffando e disperdendo più volte la fortuna, finchè un resto di nativa disciplina e l'amore dei suoi lontani lo avevano volto ad industrie meno bellicose. Ora si era assodato in una fattoria di cotoni e vi prosperava. Due anni or sono, in novembre, mentre stava sul lavoro, gli prese un giorno la smania di udire la Messa notturna del Natale nel suo piccolo villaggio canavesano, e partì senz'altro e fu tra l'andata
ed il ritorno un viaggio di due mesi. Venuto di poi l'estate scorsa a far gente, non in qualità di impresario che vuol trafficare, ma di parente ed amico cui preme giovare ai suoi, conduceva ora una squadra di volonterosi cui andava di continuo magnificando la prosperità della terra promessa. A sentirlo, nel Texas gli italiani sono tenuti in pregio grande, a differenza di quanto avviene negli altri Stati dell'Unione, eccettuata forse la California. La stessa cosa mi disse più tardi un tedesco dimorante in Austin, la capitale del Texas, col quale feci il viaggio da Buffalo a New-York.
Il Texas, paese agricolo per eccellenza, ha una popolazione ancora scarsa e diradata. Più vasto della Francia, conta, in tutto, meno gente che Parigi. La sua maggiore città non ha 20,000 abitanti. La maggior parte degli abitanti vive nelle fattorie e nei ranchos. Là non possono attecchire le superbe frottole dei Nuovajorchesi, esclamava il mio compaesano, e seguitava:
- Noi andiamo là per lavorare e facciamo con maggiore assiduità lo stesso lavoro che fanno gli inglesi, i tedeschi, i messicani e gli spagnuoli e viviamo la stessa vita. Nessuno guarda dove si alloggia, come si dorme, nessuno ci fa i conti in saccoccia come usano in New-York, o va sindacando se il boccone che mettiamo in bocca è pane o carne, o se è carne di prima o di seconda qualità. In New-York disprezzano quelle povere anime di italiani che vanno intorno raccattando cenci e cocci e vuotando i barili delle immondizie, ma se non fosse di quelli, la bassa città sarebbe in breve così sudicia e pestifera da non potervi dimorare nemmeno i cinesi. Ci chiamano: suonatori d'organetti, quasi che in New-York non fossero più i canzonettisti francesi ed inglesi d'infimo conio ed i clown americani che gli italiani suonatori ambulanti.
Una volta, seguitava il mio compaesano, mentre ero cow-boy, capitai in Midland, che è una stazione (non ferroviaria) in un luogo deserto nel Texas, poco discosto dalla così detta «terra di nessuno» (no man's land). All'osteria fui tirato a giuocare: c'erano parecchi miei compagni, due o tre negozianti messicani ed un grosso impresario di Filadelfia.
Io non volevo giuocare, ma tra il Whisky, le occhiate sprezzanti, le sollecitazioni minacciose e la persuasione di non poterne uscire che a revolverate, dove, solo contro dieci, avrei avuto la peggio, e la nativa indole rischiosa che invano mi sforzavo domare coll'ostinato rifiuto, alla fine ci caddi. Avevo con me il risparmio di due anni ed il frutto di certi miei piccoli traffichi, in tutto 460 dollari, cioè oltre 2300 lire nostrane in tanti scudi d'oro sonanti come usano in California, nel Texas ed in generale negli Stati meno popolosi. Poichè dovevo rischiare, volli che andassero tutti su di un colpo. Li perdetti, ben inteso, e fu affare finito e sul momento mi parve una liberazione. L'impresario di Filadelfia, che era stato dei più insistenti a stimolarmi, non aveva accettata la partita.
Era un ticchio assassino, che per spilorceria armava i pozzi delle miniere con travi tarlate e fradicie, e se ne vantava, onde già gli stavano sulla coscienza parecchi disastri. Quel colpo e la serenità con cui lo sostenni mi valsero la sua stima. Mi si avvicinò, mi porse la mano e mi domandò in tono quasi affermativo:
- French?
- No. Italian.
Mi guardò incredulo: non gli pareva possibile che un «macaroni» un «suonatore d'organetto» un «Degos,» come ci chiamano a titolo d'insulto, potesse gettar via il danaro tanto speditamente; ma si accorse che il suo dubbio mi irritava e credette: mi serrò un'altra volta e mi scosse le mani, uscendo in quelle voci nasali fra l'ah! e l'oh! che esprimono presso gli americani il sommo grado della compiacenza e della approvazione.
Se invece di gettarlo da pazzo a quelle canaglie, io avessi serbato il mio denaro per sollevare le miserie dei miei parenti lontani, in luogo della ammirazione, avrei incontrato il disprezzo di quel trafficante di carne umana. Gli altri, i miei compagni ed i negozianti messicani, mi avrebbero ammazzato piuttosto di lasciarmi astenere dal giuoco, ma se fossi riuscito a cavarmela senza giuocare, non avrei nulla perduto della loro stima. Qui è la differenza fra l'americano delle regioni agricole, ed il vero Yankee incivilito. L'assalto alla fortuna è forse nel Texas e negli altri Stati spopolati più accanito e disperato che nelle città incivilite presso l'Atlantico, ma siccome non la si può altrimenti conseguire che a costo di fatiche fisiche e di privazioni grandissime, non c'è lavoro tenuto per abbietto e non è vergogna il saper indurare, per scorciatoie, gli estremi gradi della miseria. Forse perchè mancano le occasioni di minuto e continuo sperpero, la sobrietà, la continenza e l'economia, non sono tenute in conto di vizii disonorevoli. La mala riputazione degli italiani nelle grosse città, deriva sopratutto dalla loro sobrietà e dalle loro abitudini di economia e di risparmio. Lei, signor Giacosa, esaminerà, sentirà e vedrà se ho ragione e, tornato in Italia darà, a chi vuole emigrare, il buon consiglio di rivolgersi piuttosto agli Stati agricoli che agli industriali.
Il buon consiglio io non oso darlo perchè non ho studî ed esperienza che bastino, ma i fatti esposti, dal mio compaesano mi risultarono esattamente conformi al vero. Se non l'eccesso di ogni virtù è vizio ed ogni Arpagone si gabella per parsimonioso. Il maggior carico che gli americani fanno agli emigranti italiani è di una sordida, degradante ed insanabile astinenza e del loro acconciarsi ai più umili uffici, ai lavori più vili e meno rimunerati. Dal vestire, al cibarsi ed all'alloggiare, la plebe italiana di New-York e di Chicago dà spettacolo di una così supina rassegnazione alla miseria, di una indifferenza così cinica rispetto ai beni ed ai godimenti della vita, che ha solo riscontro, in peggior grado, diciamolo, nei cinesi. Solo riscontro a voler contare la gente che campa di onesto lavoro; che altrimenti, in New-York, la bassa città è piena di pezzenti, scamiciati, luridi, scalzi, sudici, scarmigliati, orribili e terribili, i quali non si sa di che e come nutriti, non ostante le razzie dei policeman, dormono la notte sotto le scalette digradanti nelle vie o sotto il ligneo ponte degli Eleveted o sul nudo lastrico nei vicoli oscuri.
La polizia che dà loro la caccia, e li trasporta, il più delle volte senza che si sveglino, tanto sono piombati nel sonno alcoolico, alle prigioni ed ai ricoveri per briachi, sa che gli italiani fra di essi sono in piccolissimo numero. Lo sa e lo dice. Non è molto, il capo della polizia di New-York affermò pubblicamente che di tutte, la emigrazione italiana è quella che dà il minor contingente agli assassini, ai ladri, ai facinorosi d'ogni specie.
Ma di questo rifiuto della società, l'opinione pubblica americana non tiene conto altrimenti, che per armarsi alla difesa, moltiplicando le prigioni e le sentenze capitali e sperimentando nuovi sistemi di morte. Quando si parla di stima e di sprezzo, si considerano gli elementi vivi ed attivi del corpo sociale. Ora, fra i membri organici della società americana, dobbiamo pur troppo convenirne, gli italiani tengono, nella pubblica stima, se non il penultimo, il terz'ultimo posto. Al disotto di essi, non ci sono che i cinesi ed i negri. Il mio compaesano voleva che questa disistima nascesse da avarizia. Il Yankee, mi diceva, è geloso del denaro americano che gli32 emigrati italiani mandano ogni anno in Italia. Ne mandano infatti assai più che da noi non si creda. Il console e parecchi banchieri di New-York mi assicurarono, che da quella sola città, sono spediti in Italia, non per traffichi, ma dagli emigranti, dai 25 ai 27 milioni di lire l'anno. Bisogna avvertire però che da ogni punto, si può dire, degli Stati Uniti, il danaro diretto all'Europa, prende la via di New-York. Ma la somma, vistosa specialmente se si consideri da chi proviene ed a chi è destinata, non è in realtà così ingente da impensierire quei formidabili maneggiatori di miliardi presso i quali chi la possegga (sono in loro moneta cinque milioni di dollari) comincia appena a contare per ricco. Al più, dato che gli americani abbiano conoscenza di quell'esodo finanziario, esso nuoce al concetto in cui tengono gli italiani, per ragioni che nulla hanno a che fare coll'avarizia. Il denaro spedito alla terra nativa, annulla quasi le carte di cittadinanza che l'emigrato è indotto a firmare, ed attesta il fermo e perdurante proposito del rimpatrio. Dove vanno i dollari, va il pensiero ed il cuore e andrà più tardi, appena lo potrà, la persona.
Un colto signore americano, amantissimo dell'Italia, volendo giustificare l'antipatia innegabile di molti fra i suoi verso i miei connazionali, mi diceva un giorno che l'italiano è fra gli europei affluenti del nuovo continente, quello che meno di tutti si americanizza. Gli osservai che l'americano così orgoglioso com'è della sua terra avrebbe dovuto meglio33 di ogni altro apprezzare una tale tenacia di sentimento patrio.
- È vero, rispose, ma l'americano non firmerebbe mai atti di cittadinanza in paese straniero. Il vostro emigrante, poichè non trovò da vivere in patria, viene a noi e disputa il lavoro e la mercede al nostro operaio. E sta bene. Non mi lagno neppure di quel tanto che il lavoratore italiano sottrae al minuto nostro movimento economico, riducendo le spese a quanto è strettamente indispensabile e tenerlo in piedi ed in forze, cioè a meno del decimo di quanto guadagna. Ma egli, onde pareggiare la sua alla condizione dell'operaio nostrano, domanda di essere accolto cittadino degli Stati Uniti e armato di tutti i diritti civili e politici, nomina i rappresentanti, i governatori, i magistrati, gli ufficiali di ogni ordine cui spetterà di fare e di applicare le nostre leggi. E mentre dispone, al pari di ognuno34 di noi, del nostro avvenire politico, morale, sociale ed economico, non si associa ai nostri sentimenti, non conosce e non cura i nostri bisogni, e dei diritti civici che lealmente gli conferimmo, fa solo uso per mettersi in grado di rinunziarli più sollecitamente. Si parla molto della venalità delle nostre elezioni. Il male è pur troppo reale, ma l'americano che vende il suo voto, si espone almeno a subirne le conseguenze. L'indirizzo della politica generale, l'assetto finanziario, le questioni edilizie, le costruzioni e le tariffe feroviarie, sono altrettanti fattori della sua prosperità o del suo disagio avvenire, onde è a sperare che edotto dalla esperienza, egli verrà grado grado avvezzandosi ad un esercizio più coscienzioso della sua sovranità. Ma che sperare dal voto dato da uno straniero, il quale, rinnegata apertamente per interesse l'antica, rinnega di continuo in cuor suo la nuova patria ed affretta il momento di abbandonarla? Che importerà a lui se il legislatore è inetto, se il magistrato è corruttibile, quando sei mesi, un anno dopo il voto, egli lascierà per sempre il nostro continente? È lecito, se volete, sospettare di ogni cittadino americano, che egli venda il suo voto, ma è indubbiamente certo che lo venderà questo cittadino spurio che frodò scientemente i privilegi della cittadinanza.
Era facile dimostrare che tale stato di cose è più imputabile agli americani che ai forestieri. Presso di noi la naturalità non si concede che con voto delle Camere, e tale solenne ed indugiante procedura ne circonda di mille cautele il conferimento. Di più, essa non riflette che l'esercizio dei diritti politici. Anche senza di essa lo straniero può possedere, trafficare e trovar lavoro nella identica misura di un regnicolo. Essa non diventa mai strumento, anzi condizione indispensabile della prosperità materiale.
Se i nostri emigranti non sapessero per esperienza che il voto è un vero argomento di traffico e che il farne traffico può agevolar loro il collocamento, accrescere le mercedi, ottenere più spedita e più giusta giustizia, non firmerebbe le carte di naturalità. Il concetto della cittadinanza non è accessibile nella sua purezza che alle menti colte. Esso non va confuso col naturale sentimento patrio. Per quei disgraziati costretti a strappare la vita con tanto e sì duro lavoro, la patria è il piccolo luogo nativo, del quale hanno in mente, fino dalla primissima infanzia, il profilo dei monti, i seni dei fiumi, la linea bruna delle foreste, la varia scacchiera dei campi e dei prati, il viso dei parenti, degli amici, le case, il pozzo, il cimitero. La patria civile non rappresenta al loro stretto criterio che balzelli ed impedimenti: l'esattore, la leva, le carte bollate, le dogane. Difetto di educazione civica? Ma l'avete molto maggiore voi che vendete il vostro e comprate il loro voto? Voi avete, in maggior misura di noi, la coscienza della vostra forza collettiva ed individuale e l'obbedienza agli ufficiali della legge e sopratutto avete ed è grande onore vostro, in sommo grado, il rispetto verso l'uomo ed una civile consapevolezza dei diritti della vita. Qui sta la vera nobiltà degli americani. E qui sta la vera ragione del misero concetto in cui essi tengono i nostri connazionali, i quali provocano il loro disprezzo, mediante l'esercizio di virtù eroiche, che essi non possono nè conoscere nè apprezzare.
La prima cosa che mi colpì negli Stati Uniti, astrazione fatta dai prodigi della meccanica, fu l'aspetto della prosperità universale e conseguenza di essa l'eguaglianza visibile delle condizioni sociali. Eguaglianza di vestire, di modi, di abitudini, di relazioni e sopratutto eguaglianza fisiologica, non oso dire di salute, ma nella salute, di quel grado di benessere che procede dal copioso e nutriente alimento.
In New-York, verso le sei pomeridiane, quando termina la giornata operosa, migliaia di carrozzoni sparpagliano per ogni verso dall'alto della città, la innumerevole folla che gli affari addensano lungo il giorno nella bassa. Le sei linee parallele di ferrovie aeree hanno ognuna convogli di cinque o sei enormi vagoni ogni cinque minuti ed ogni vagone è pieno zeppo di gente seduta e d'altra a sedere sulle ginocchia dei seduti e d'altra ritta nella lunga corsia di mezzo e nelle brevi trasversali e sui piccoli terrazzi alle due estremità. Là il milionario siede accanto al facchino del porto ed è dal conduttore invitato a levarsi in piedi per dar posto, occorrendo, al suo vecchio domestico. Ma da qualche elegante banchiere di Wall-Street in fuori il quale si distingue per lo speciale vestire all'inglese, nessun europeo giudicherebbe ad occhio che là siano rappresentate le infinite varietà di professioni, di mestieri, di stato, di fortuna, di coltura e di educazione, che si possono riscontrare in un popolo intero. Il gentleman che vi siede a lato e che se appena può spiegarne un piccolo lembo, legge imperturbabilmente il suo sterminato giornale, può essere del pari, l'avvocato della più ricca società ferroviaria che sia al mondo, o il commesso di un negozio di calzature, od il fiaccheraio di City Hall Park che ha terminato il suo turno di servizio. Al più certe mani tradiscono l'esercizio delle più grosse arti meccaniche e certi odori quelli di speciali industrie, ma il taglio degli abiti e le stoffe attestano in tutti la stessa cura, la stessa abitudine e quasi lo stesso grado di agiatezza, ed i modi e le parole, lo stesso vigoroso sentimento della eguaglianza sociale e della dignità personale.
Il forestiero che voglia conoscere sommariamente le abitudini casalinghe degli americani, percorra la domenica in New-York una intera linea ferroviaria dell'«Eleveted» e di preferenza quella del nono viale (avenue), la quale partendo dalla punta al mare della città, sale fino al fiume Harlem con un percorso di circa 20 chilometri. L'intero viaggio costa cinque cents americani, venticinque centesimi della nostra moneta. Il palco della ferrovia, seguendo la graduale ascenzione del terreno, rasenta per lo più le case all'altezza del primo piano, se non che, come giunge a certi avallamenti che solcano l'alta città, li scavalca, correndo a norma della loro profondità lungo i secondi, i terzi, i quarti piani e talora oltre i comignoli. Partendo dalla Batteria cioè dalla punta al mare, il treno attraversa, dapprima la New-York antica, la city dei traffici, fabbriche altissime date dalla terra al tetto a magazzini, a studi, a banche, a fondachi d'ogni maniera. Ogni sera, già lo dissi, quella città plutogena che monetizza quasi tutte le attività naturali ed industriali degli Stati Uniti, si spopola interamente. Nessuno vi dorme. L'urgenza degli affari non consentì che vi si introducessero i miglioramenti edilizi: le vie rimasero strette e tortuose, le case oscure e disagiate, il lastrico rotto e sepolto sotto uno strato di mota vischiosa e nera, l'aria stagnante e fetida.
Ma i denari si fanno nel sudiciume e si godono al pulito. Da ciò, nei giorni festivi il completo abbandono ed il mortale silenzio di quei quartieri, uscendo dai quali il treno imbocca i viali fastosi e chiari e taglia le strade numerizzate che s'aprono in sfondi di piazze e di giardini o mostrano lontano il grande fiume del Nord, l'Hudson river, irto di alberi, sparso di vele, solcato da mille vapori, animato dalle altalene aeree dei «ferry boats» simili ad immani uccelli che sbattono invano le piccole ali inette al volo. Qui mettono capo le strade della città elegante, gigantesca metropoli di gaudenti disciplinati i quali ignorano al certo il proverbio che attribuisce all'ozio la paternità di ogni vizio, perchè hanno tutti i figliuoli e non ne conobbero il padre mai. Più in alto, oltre il Central Park dove cominciano gli avvallamenti che ho detto, sono i quartieri operai e popolari, monotoni, ma larghi, puliti, agiati, ordinatissimi.
La domenica, chi li guarda dai vagoni dell'alta ferrovia e conosca la condizione sociale dei loro abitanti, crede avverato in forma Anglo-Sassone, il sogno che meritò a Faust il facile perdono. Ogni famiglia passa l'intera giornata alle varie e spaziose finestre in sereno e non oziante riposo. Il padre, seduto sulla sedia a dondolo, la pipa in bocca, legge, legge, legge dalla prima alla ultima linea le trentadue immense pagine del giornale domenicale ed un altro giornale illustrato e del pari interminabile, occupa la madre, seduta in un'altra sedia a dondolo, presso un'altra finestra. Se la famiglia ha un figlio maschio e la casa una terza finestra, non mancherà il terzo giornale e tale spettacolo va via via ripetendosi senza rinnovarsi come in una tappezzeria figurata. Sole si sottraggono a tanta silenziosa e didascalica felicità le ragazze, ricco sangue fiorito in bionda e rosea bellezza, le quali, non sedute, ma appoggiate al davanzale, guardano curiosamente in strada, sorridono ai fuggenti passeggieri dell'Eleveted, discorrono colle vicine, occhieggiano chi le guarda, rosicchiano mandorle, e ridono di continuo con sincera freschezza. Già, fra parentesi, nulla è più aggraziato della balda e procace e gaia scioltezza delle ragazze americane e della aperta compiacenza con cui esse incoraggiano e premiano l'ammirazione espressa o tacita dei passanti.
Quando il treno corre all'altezza dei piani superiori, dove entra più luce, appare intero l'ordinamento e l'arredo della casa. Belle carte da parato, pavimenti a tavole, tende ampie, una mobilia copiosa e comoda, un'aria insomma di solida e quasi raffinata agiatezza, quale non hanno nelle nostre città di provincia, salvo poche eccezioni, gli alloggi dell'avvocato, del medico, del giudice, del negoziante. Si tratta, ben inteso, di gente che vive a giornata, con salari di quattro ed anche di tre dollari al giorno, la paga ordinaria di un operaio quale tocca al nostro emigrante. E si tratta di gente assegnata, che non è creduta e che non crede concedere nulla al soverchio, ma per la quale il necessario, non deve bastare solamente al non morire, ma al vivere, e che considera il benessere quale condizione indispensabile della vita.
Vediamoli sotto un altro aspetto.
I Macelli di Chicago sono famosi anche presso di noi. Famosi e favolosi perchè tutti li immaginano più ordinati e puliti e meccanicamente perfetti che in realtà non siano. In realtà essi mi parvero la più colossale sudicieria che mente umana possa concepire. Basti dire che quegli immensi locali dove certi mesi dell'anno si ammazzano, dissanguano, tosano, squartano ed insaccano fino a 60 mila capi di bestiame al giorno, sono tutti fabbricati a palchi, colonne, tramezzi e scale di legno. I vapori del sangue impregnano tutti i pori delle pareti e dei soffitti, gli spruzzi, i rivi di sangue inzuppano i trogoli, i tini, i banchi, le colonne, le tavole del pavimento ove depongono una mota bruniccia, pestifera, lubrica e vischiosa che le frequenti lavature non sciolgono e non spazzano, ma fanno più sottilmente compenetrare colla fibra lignea. E per giunta, locali bassi e insufficienti, onde gli operai ci stanno pigiati ed i visitatori devono patire stomachevoli contatti: e poche finestre, dalle quali scende sulle brune pareti una luce incerta che i vapori esalati dalle acque bollenti e dalle carni palpitanti oscurano ancora.
In tali ambienti si aggirano centinaia di operai intesi ognuno a speciali bisogne e costretti dallo incalzarzi meccanico delle successive operazioni ad un lavoro furioso e senza posa. Quei disgraziati non hanno nè faccia nè corpo d'uomo. Il viso contratto dall'invincibile disgusto, da un energico irrigidimento volitivo e dalla ebbrezza sanguigna che li accanisce, l'occhio continuamente sbarrato dallo sforzo visivo per discernere nella penombra il punto preciso dove assestare il colpo dello35 squartatoio, l'untume rossastro e lucente che invischia loro la fronte e le gote, il sangue raggrumato che indurisce la barba ed i capelli, i movimenti rapidi e bruschi onde gettano ai vicini i pezzi squartati, tutto ciò fra il fumo, il tanfo, gli urli e le strida gorgoglianti, dà loro un aspetto che non ha nulla di umano, che sta al disotto di quella stessa animalità ferina che essi distruggono con tanto formidabile eccidio. E il vestire! Blusa e pantaloni di tela incerata gialla, così dura che essi devono camminare a gambe larghe e sbracciarsi per il menomo gesto, e da capo a piedi macchiata, rigata di sangue e colante sangue, ed immerso il basso dei pantaloni nella poltiglia sanguigna, sì che ogni passo manda spruzzi, ed il piede staccandosi a stento dal suolo, rende suono di succhiamento e leva bolle che sembrano vivi tumori.
Fuggiti a quella bolgia l'orrore e la nausea vi perseguono gran tempo per le vie soleggiate e nei giardini, vi turbano il sonno e per alcuni giorni vi svogliano d'ogni cibo che non sia vegetale. Ma se vi basti l'animo di appostarvi alla estrema uscita di quello intricato viluppo di corsìe, di staccionate, di palchi, di baracche, di viadotti che occupa uno spazio di terreno grande quanto Milano, la vista che vi aspetta sul finire della giornata, vi darà un giusto concetto della multiforme vita americana.
Mezz'ora dopo cessato il lavoro si spande fuori del recinto una folla signorile di gentleman che uno dei nostri damerini principianti prenderebbe a modello di eleganza sportiva. Sono bei giovani alti e biondi, coi baffetti incerati, i solini ingommati, le vistose cravatte, le giacchette a scacchi all'inglese, il pastrano color nocciuola dalle costure sovrapposte, i calzoni chiari, il piccolo cappello duro, o uomini maturi in soprabito nero ed in tuba, e tutti così composti e gravi e che li direste usciti da un club aristocratico dove si giuochi nobilmente al Macao o da un concerto di musica classica a venti lire il biglietto. Chi più riconoscerebbe in quei raffinati i macellai e gli scorticatori di poc'anzi, i quali deposti i gialli indumenti e disgrassatesi le mani, le braccia ed il viso, si dispongono ora a godere al pulito i danari guadagnati nel sangue e nel sudiciume? Essi sopportano il ripugnante e faticosissimo lavoro, ma non saprebbero rinunziare a quegli agi che reputano necessari alla vita da quanto il materiale sostentamento e l'alloggiare al coperto. Macchine finchè l'opera dura, vogliono riprendere al suo cessare una umanità superiore a quella dei negri e dei pelli rossi. Noi riconosciamo noi tutti il progredire di una razza dai suoi moltiplicati bisogni? Nati da un popolo che ignora l'ozio, essi accettano la disuguaglianza delle fatiche, a patto di raggiungere una relativa eguaglianza di beni. Membri di una società che sa utilizzare tutte le attività umane, l'avvenire della famiglia non li impensierisce; come il padre lavorò e lavora, lavoreranno i figliuoli e l'oggi non ha minori diritti che il domani.
Apprezzano e praticano il risparmio del soverchio, ma il loro soverchio comincia oltre l'agiatezza, non oltre la povertà. Le privazioni che degradano l'uomo, che gli lesinano un sostanziale nutrimento, che lo espongono ai rigori delle stagioni, che lo disarmano contro le asprezze della vita, che lo umiliano nel cospetto dei suoi simili, sono a loro giudizio veri e proprii delitti di lesa umanità. E vi riconoscono il segno di una razza inferiore e decaduta.
Diamo ora uno sguardo sommario ai quartieri italiani di New-York ed alla vita, l'infima vita di troppi italiani in Chicago. Ho detto che a New-York la bassa città non vive che ai traffichi e che la sera tutti l'abbandonano. Ciò è vero in generale degli americani, non dei cinesi e degli italiani dei quali i confinati quartieri stanno appunto nella città bassa, presso i cinque punti, dove sono le viuzze più strette e malsane e le più orribili e rovinanti catapecchie.
È impossibile dire il fango, il pattume, la lercia sudiceria, l'umidità fetente, l'ingombro, il disordine di quelle strade. La gente ci vive all'aperto, segno, dato il clima inclemente, che peggio sono i locali interni, dei quali io non vidi se non quanto mostravano le buie botteghe e che mi svogliò d'ogni maggiore curiosità. Anche là come in Napoli il cielo è ragnato dalle frequenti distese di panni sciorinati tra l'una casa e l'altra. Ma quali panni ed usciti da quale bucato! se pure non li stendono al sole per seccarne il lordume. Uomini cenciosi, sucidi, sparuti, vanno intorno faticosamente d'una in altra bottega o si aggruppano all'entrata di quelle birrerie dove è loro servito il fondugliòlo inacidito delle botti di birra smaltite nei sani quartieri alla gente sana. Sul passo degli usci, sui gradini delle scalette, su sgabelli di legno o di paglia nel bel mezzo della via, le donne mettono in mostra tutta quanta la loro compassionevole vita domestica. Allattano, cuciono, mondano le verdure avvizzite, solo condimento della loro minestra, lavano i panni negli unti mastelli, si strigano e ravviano a vicenda i capelli. Ciarlano, ma non fanno il cinguettare allegro ed arguto delle viuzze di Napoli, bensì un non so quale cruccioso pigolìo che stringe il cuore.
A volte un ingombro36 di carrette (in quelle strade le vetture non passano mai), le costringe a levarsi ed a raccogliere in furia quelle poche robe, e allora sono urli e bestemmie del carrettiere e strilli ed improperî di tutto lo sciame femminile. Passano certe vecchie sfigurate, portando a stento i cestoni delle immondizie. Vana fatica! Tutto quanto vi circonda: i panni che la gente indossa, le mercanzie esposte, le frutta, gli erbaggi, le carni ingiallite ed incartapecorite che pendono all'uncino presso le beccherie, i mobili che s'intravvedono negli aperti stambugi, perfino i sordidi biglietti di banca italiani ed americani allineati nelle vetrine dei frequenti banchieri, perfino i mostruosi ritratti di Re Vittorio, di Garibaldi e di Umberto e le bandiere tricolori che pendono a quasi tutte le finestre ed inquadrano l'entrata delle botteghe e vi fanno svolazzo, ogni cosa, ogni cosa non dovrebbe essere gettata al mondezzaio? Quelle bandiere vi danno insieme un senso di tenerezza e di vergogna patria. Quella gente così duramente provata, ha dunque mente ancora alla remota terra nativa e frammezzo a tante urgenti e dolorose realtà può essa ancora compiacersi della sua immagine simbolica? Ma non umiliano esse ad un tempo la patria che riduce i suoi figli ad appagarsi per minor danno, di così squallida miseria? Gli innumerevoli strozzini che invescano quei disgraziati e li dissanguano, primo e permanente argomento della loro abbiezione, adornano anch'essi con bandiere le immonde tane cui danno il nome di Banche. E a più vistosi drappi, più accorte trappole. Stanno sulla soglia del banco, fissando sui passanti un dolce sguardo adescatore e sorridendo loro con cupida bonarietà.
Ma la vista più dolorosa è quella dei bambini gettati seminudi all'aperta via. Chi non conosce il clima di New-York non può concepire la tristezza di tale spettacolo. Io visitai quelle strade verso la metà di novembre e le piccole creature non indossavano che la camicia. L'ultima domenica di novembre avemmo in New-York uno squilibrio di temperatura di 30 gradi. Il mezzodì erano 18 gradi centigradi sopra, la sera 12 sotto lo zero. Uno strato di ghiaccio vivo incrostava37 le strade. Sempre quando irrompono dal Canadà e dall'Alasca, i tremendi cicloni che dall'Atlantico manda già rabboniti alle coste occidentali d'Europa, New-York trapassa di colpo dalle arsure estive ai rigori invernali. La bufera non si annunzia con tuoni e lampi che d'altronde i fragori della industre città e la strettezza di quelle strade non lascerebbero altrimenti avvertire. Il turbine si scatena improvviso nella placida gaiezza dell'aria soleggiata. Pensate quei bambini! Chi riesce a superare quelle prove mortali potrà adulto sfidare tutti i mari e tutti i deserti, ma quanti ci restano al primo urto, o trascinano per una fiacca giovinezza acciacchi senili, finchè un alito di brezza li spegne!
Tali miserandi spettacoli non s'incontrano ben inteso che in quelle poche strade dove si agglomera la feccia della emigrazione italiana, pur preferibile di cento volte alla feccia della irlandese la cui degradazione procede da stravizi, non come avviene dei nostri, da virtù disperate, da pregiudizi economici e da ignoranza. E non è a credere nemmeno che là dimorino tutti nè, non di gran lunga, la maggior parte degli italiani. Sono italiani in Nuova York ed in Brooklyn, gran parte dei muratori, degli scalpellini, degli stuccatori, degli imbianchini, moltissimi parrucchieri e garzoni di caffè, quasi tutti i negozianti di frutta, dai maggiori fissati in ghiotte e sontuose botteghe, a quelli che vanno intorno colle paniere e col carrettino, e fino a pochi anni addietro, tutti i lustrascarpe. Costoro dimorano per lo più dispersi, come il lavoro richiede, nei vari quartieri della città e, dall'aria borghese in fuori che i più non sanno o non vogliono pigliare, vivono su per giù da quanto gli americani. Se non che una certa minuziosa cura di risparmi, una frugalità che rasenta la privazione, quel meticoloso disputare il centesimo, il vestire trasandato, l'alloggiare in molti nello stesso locale non spazioso nè comodo, e mille altre pratiche parsimoniose, fanno sì che i più schifiltosi americani riconoscano in essi, già migliorata se vogliamo al proprio contatto, quella stessa razza che ammorba le strade di Baxter e di Mulberry e vi pianta in lacere e lercie bandiere il segno della propria nazionalità.
Chicago non ha, ch'io sappia, quartieri dati in modo speciale agli italiani, onde lo spettacolo della nostra miseria, va cercato un po' da per tutto e più nell'esercizio di certe infime industrie che solamente i nostri connazionali patiscono di esercitare. La più comune, consiste nel ribruscolare fra il lezzume ammassato presso i grandi depositi di cereali, le concerie, gli scali d'imbarco e le stazioni ferroviarie. È industria di vecchie donne delle nostre provincie meridionali andate in America col marito e coi figliuoli. Questi attendono all'arte loro od ai negozi; esse passano, piova o nevichi, l'intera giornata fra le spazzature per riportarne la sera, a farla grassa, il valore di pochi centesimi. Cartaccie, ritagli di cuoio, cenci, chiodi, bullette, pezzi di lamiera, fili di ferro, quanto è ultimo vilissimo rifiuto della grossa vita industre e meccanica, tutto raccolgono ed insaccano. Un paio di ciabatte, una blusa a brandelli, un'ampolletta con dentro il rimasuglio di ignoti rimedi sono ai loro occhi veri tesori. Chi può fissare l'estremo limite del servibile e dell'inservibile? Calzeranno le ciabatte, indosseranno la blusa: l'eterno femminile non ha, in esse, esigenze di vestire. E al primo malore ingoieranno il rimedio, persuase di ficcargliela al medico del rione. Non le nutrisce anche il mondezzaio? Io ne vidi addentare gustosamente certi avanzi di patate succherine raccattati fra la spazzatura. Dio sa, quelle patate da quanti giorni erano cotte e come inacidite! Sedani, carote, cavoli vizzi e raggrinziti, mele fradicie, quanto le più povere cucine diedero per disperazione al corbello dello spazzaturaio, è loro pasto quotidiano. Hanno i loro punti fissi, sui quali vantano un rispettato diritto di possesso e che occupano ogni giorno in squadre di cinque o sei ed anche più. Uscendo dall'albergo io solevo per entrare in città costeggiare un tratto di ferrovia, indi un praticello triangolare dato appunto a mucchi sempre rinnovati di tritumi e di immondizie. Ci passavo la mattina per tempo: le vecchie erano già al lavoro; ce le ritrovavo tornando verso il mezzodì: riuscivo verso le due, rincasavo verso le sei, le vecchie erano sempre là curve, sedute, inginocchiate nel fango o nella polvere. Raspano e sparnazzano come le galline. A volte ci stanno a piedi nudi per giovarsi del tatto e dare l'occhio intanto a punti discosti. Poco innanzi che io giungessi a Chicago, ne era morta una di tetano per essersi lacerato un piede ai denti di un foglio di latta. Ho voluto discorrere con esse. Quella cadenza lunga e smorzata della parlata napoletana, era così triste, in quel luogo, sotto quel cielo, uscendo da quelle misere labbra! Domandai loro se non avrebbero guadagnato di più rimanendo in casa, a far calze, a rammendare panni, a qualsiasi altro mestiere.
- E questo, chi se lo piglia? - rispose una, mostrandomi il mucchio.
Ecco il secreto di tanta tribulazione: il timore che alcuna infinitesima particella di ricchezza vada perduta. Guadagnerebbero di più a più sani e puliti lavori, ma quel minuscolo valore le attira. È l'adorazione cieca e materiale delle cose, astrazion fatta ad ogni pratica applicazione.
Potrei raccontarne per delle ore, ma passando di uno in altro patimento e dalla vecchiaia alla infanzia, sarebbe sempre la stessa miseria. Miseria, non povertà, perchè il misero stato di quei disgraziati non procede da insufficienza di mezzi. Così in Chicago come in Nuova York, la gente valida guadagna, soldo più soldo meno, dai tre dollari al giorno, e molti arrivano ai quattro e taluni ai cinque. Il dollaro vale cinque lire e venticinque centesimi. E non è a credere che il prezzo delle derrate cresca in proporzione della unità di moneta, così che il valore commerciale del dollaro in America, pareggi quello della lira in Italia. Questo dicono molti, ma non è. Certi oggetti di lusso, costano il doppio, il triplo del prezzo nostrano, ma sono rarissimi. I nostri guanti a cinque lire ne costano dodici a Nuova York, il cappello a cilindro inglese che si paga a Roma 25 o 30 lire, costa a Nuova York 10 dollari. Costano un dollaro l'ora le vetture di piazza. Ma la retta nei primissimi alberghi, di gran lunga più comodi, che i migliori europei, e più abbondante il vitto e libera l'ora dei pasti, non è più cara che in Europa. In Europa il prezzo varia dalle 12 alle 15 lire al giorno, a Nuova York è di tre dollari al Fifth avenue hotel, che è vantato fra i più splendidi degli Stati Uniti.
Se poi dagli splendori della vita elegante, scendiamo agli agi della comune, le differenze di costo si fanno anche meno sensibili. E quanto agli oggetti di primissima necessità, non c'è od è minima differenza.
In complesso la vita costa di più, perchè raccoglie una maggiore somma di bene. Il nostro emigrante poichè accetta di tribolare in America, quanto tribolava in Italia, se la cava con 25 o 30 soldi italiani al giorno. Ma appunto questo suo volontario tribolare, è cagione che l'americano lo derida e lo disprezzi. Nè i molti italiani che vivono con più umana larghezza bastano a cancellare la triste impressione lasciata da quei nichilisti della vita.
Dei caratteri proprii di ogni razza, il comune delle genti non sa e non può considerare che gli estremi: quelli soli sono essenzialmente differenziali, e quelli soli informano il concetto che si fissa nelle menti dell'universale. Le profonde differenze etniche non possono essere avvertite da quel popolo, che nacque e cresce mediante la fusione di tante razze disparate anzi degli elementi più indomabili, più incontentabili, più audaci, più smaniosi de' godimenti, più anelanti alla piena vita che fossero e siano in ogni razza. Perciò agli occhi degli americani, l'italiano che veste, alloggia, si nutrisce ed a suo tempo riposa al pari di essi, è un cittadino della Unione il quale parla una lingua diversa dalla loro. Ma quell'essere rassegnato, umile, domato dalle astinenze, accanito ad un lavoro senza posa, che in tanto emporio di beni, possedendo i mezzi di conseguire la sua parte, ne fa volontaria rinuncia, che accetta di abitare nel lezzo quando potrebbe al pulito, che degrada col lurido vestire la nobiltà delle forme umane, che riduce insomma ad un minimum appena compatibile colla vita i bisogni della vita, quello non è un uomo della loro razza, anzi della loro umanità. D'onde viene? - Dall'Italia. - Tali sono dunque gli italiani? - Ecco formata la leggenda.
Che sanno essi della famiglia lontana, dei figli e delle mogli i quali aspettano la lettera con quei pochi quattrini per comperare il pane e pagare il fitto di casa? E del bisogno imperioso di raccogliere un peculio onde riscattare le terre vendute? Essi ignorano le urgenti strettezze che fanno eroica la rassegnazione di quei disgraziati. Ma le conoscessero pure, io credo tuttavia che non terrebbero in gran conto quello speciale eroismo. Ogni popolo chiama virtù e pregia sopra tutte le qualità che meglio si confanno colle sue naturali inclinazioni, che più direttamente conferiscono all'adempimento dei suoi destini. Il popolo americano sa e sente che egli deve ancora compiere la conquista del suo sterminato continente e popolarlo e dissodarlo. Ora ai conquistatori giovano sopratutte le qualità attive. A me parve di scorgere che gli americani compatiscano ai vizi attivi più di quanto pregino le virtù passive. Ma a voler chiarire la cosa andrei troppo per le lunghe. Ho voluto mostrare come fosse spiegabile e dal loro punto di vista giustificabile, il misero concetto in cui gli americani tengono molta parte della emigrazione italiana.
Ma noi che ne conosciamo le condizioni domestiche dobbiamo fare di quei nostri connazionali ben altro giudizio. Se il concetto della vita terrena è più elevato, più alto, e più umano in America che in Italia, non è colpa loro. Siamo noi che scriviamo i libri e le riviste, siete voi che li leggete, quelli cui tocca pensarci. È innegabile che parte della loro miseria è frutto di ignoranza. Ma è certo altresì che la maggior parte dei loro patimenti sono un esercizio di virtù ardua e forte. È bello ragionare di etica sociale chi è sicuro dell'oggi e del domani, di sè e dei suoi.
Dal mio piccolo paese canavesano, partirono il Marzo del 93 per l'America, tre ottimi lavoratori, lasciando a casa, mogli, figliuoli e debiti. Laggiù, appena sbarcati, si allogarono nella miniera di Primerose, in Pensilvania. La paga era buona: sfido! Nessuno del luogo osava più scendere in quei pozzi che già una volta una vena d'acqua aveva allagato, affogandovi dentro gli operai. Ora la vena, saldata, non dava che stille e s'erano ripresi i lavori. I direttori sapevano il pericolo ma, business is business, la duri fin che può. E la durò poco. Il 20 di Aprile, si ruppe un'altra volta la vena, e quanti erano sotto ci rimasero. I miei compaesani erano stati sul lavoro otto giorni; vale quanto dire che non lasciarono un quattrino. Io conosco le loro famiglie e vedo ora di che morte vivono. Mentre stavo descrivendo la disgustosa abbiezione di tanti nostri emigranti, non potevo trattenermi dal pensare che se quei tre infelici avessero avuto tempo di dare ad altri il tristo spettacolo che altri diedero a me, a quest'ora i loro figli e le vedove avrebbero assicurato per la vita, un pezzo di pane.