Giuseppe Giacosa
Impressioni d'America
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CAPITOLO IX. Due italiani in America.

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CAPITOLO IX.

 

Due italiani in America.

 

Di due italiani vanno a giusto titolo orgogliosi gli italiani residenti in New-York. Uno morto ora sono dieci anni, l'altro vivo valido ed operoso sul limitare della vecchiezza. Fortunosi entrambi, il primo ebbe immeritatamente contraria, il secondo meritatamente propizia la fortuna. Quegli sostenne con serena dolcezza la sorte nemica e fu buono e soccorrevole nell'avversità; questi sostenne con virile semplicità i prosperi eventi e fu ed è buono e soccorrevole fra gli agi e gli onori. Tutti e due divenuti cittadini americani serbarono in cuore vivissimo e sacro l'amore ed il culto della madre Italia. Di uno l'Italia deve rivendicare il nome alla storia delle invenzioni scientifiche ed industriali; il nome dell'altro è scritto con gloriose note nella storia americana della guerra di secessione ed in quella universale delle maggiori scoperte archeologiche. Il primo si chiamò: Antonio Meucci, il secondo si chiama Luigi Palma di Cesnola47.

Antonio Meucci nacque in Firenze l'anno 1804. Emigrò giovanissimo nell'America del Nord, dove si diede ad esercitare l'arte del macchinista teatrale, un'arte che richiede mente ingegnosa e pronta ed industre facoltà inventiva. Tenne in tale qualità parecchi teatri degli Stati Uniti e nel 1849, fu macchinista capo all'Opera house in Santiago di Cuba. Ma insieme alla cura delle macchine sceniche, per nativa inclinazione e quasi a svago dei faticosi lavori, egli attendeva a studi di fisica sperimentale, applicandosi di preferenza ai fenomeni del suono. Sia che l'ardore dello studio lo svogliasse del mestiere, o che questo gli venisse in uggia per la irritazione che induge l'urgenza degli allestimenti serali (i macchinisti teatrali ogni sera smaniano e bestemmiano come turchi) o sia che avesse per ignote cause perduto l'impiego, fatto sta che nel 1851, lo troviamo in New-York esercitare un'industria che non ha nulla a che fare col teatro. Forse, a furia di tirar moccoli, gli era venuta l'ispirazione di fabbricar candele. In Clifton, piccolo villaggio nella Staten Island, mostrano ancora la casetta e la fornace dov'egli viveva tra barili di sugna e matasse di stoppini e dove appunto nell'anno 1851 tenne in qualità di commesso e di manovale Giuseppe Garibaldi, già vantato eroe dei due mondi, profugo e povero dopo le tragiche glorie dell'assedio di Roma. È bello riportare qui dalle memorie di Garibaldi il brano che si riferisce a questo commovente periodo della sua vita.

«Un brav'uomo mio amico, Antonio Meucci fiorentino, si decide a stabilire una fabbrica di candele e mi offre di aiutarlo nel suo stabilimento. Detto fatto. Interessarmi alla speculazione non lo potevo per mancanza di fondi; mi adattai quindi a quel lavoro colla condizione di fare quanto potevo.

«Lavorai per alcuni mesi col Meucci il quale non mi trattò come un suo lavorante qualunque, ma come uno della famiglia e con molta amorevolezza.

«Un giorno però, stanco di far candele e spinto forse da irrequietezza naturale ed abituale, uscii di casa col proposito di mutar mestiere. Mi rammentavo di essere stato marinaio, conoscevo qualche parola d'inglese e mi avviai sul litorale dell'isola ove scorgevo alcuni barchi di cabottaggio occupati a caricare e a scaricare merci. Giunsi al primo e chiesi di essere imbarcato come marinaio. Appena mi dettero retta coloro che scorgevo sul bastimento, e continuarono i loro lavori. Feci lo stesso avvicinando un secondo legno ed ebbi medesima risposta. Infine passo ad un altro ove si stava lavorando a discaricare e dimando se mi si permette di aiutare al lavoro e n'ebbi in risposta che non ne abbisognavano. - Ma non vi chiedo mercede - io insistevo: e nulla. Voglio lavorare per scuotere il freddo (vi era veramente la neve) - meno ancora. Io rimasi mortificato.

«Riandavo col pensiero a quei tempi ov'ebbi l'onore di comandare la squadra di Montevideo, nonchè il bellicoso ed immortale esercito. A che serviva tutto ciò? Non mi volevano. Rintuzzai infine la mortificazione e tornai al lavoro del sego. Fortuna ch'io non avevo palesato la mia risoluzione all'eccellente Meucci, e quindi, concentrato in me stesso, il dispetto fu minore. Devo confessare inoltre non essere il contegno del mio buon principale verso di me, che mi avesse indotto alla intempestiva mia risoluzione; egli mi era prodigo di benevolenza e d'amicizia, come lo era la signora Ester sua moglie.

«La mia condizione, non era dunque deplorabile in casa del Meucci, ed era proprio stato un eccesso di malinconia che m'aveva spinto ad allontanarmi da quella casa. In essa io era liberissimo, potevo lavorare se mi piaceva: e preferivo naturalmente il lavoro utile a qualunque altra occupazione; ma potevo andare a caccia qualche volta, e spesso si andava a caccia collo stesso principale e con vari altri amici di Staten Island e di New-York che spesso ci favorivano colle loro visite. In casa poi non vi era lusso, ma nulla mancava delle principali necessità della vita, tanto per l'alloggio che per il vitto

Lo stesso anno che fu principale di così inverosimile operaio, il Meucci proseguendo sempre i suoi studi sulle onde sonore e sulla trasmissione dei suoni lungo le corde, pervenne finalmente ad una vera e propria invenzione. Composti due coni tronchi di carta, chiuso ognuno dalla parte superiore da una membrana elastica, fece correre dall'uno all'altro un filo che metteva capo alle due rispettive membrane. Uno dei coni consegnò ad un amico dimorante nella casa dirimpetto alla sua; tenne l'altro presso di così che il filo congiuntore dovesse traversare la via che si trovava essere larghissima. Parlando egli senza punto levare la voce entro uno dei mezzi imbuti, l'amico dall'altra ne raccoglieva chiara ogni parola e gli rispondeva allo stesso modo. Quel primitivo apparecchio ridotto ora ad un balocco per i fanciulli, conteneva in forma rozza ed iniziale, la trovata del telefono e fin d'allora ebbe nome di telefono dal suo inventore.

Conscio delle future applicazioni, già piena la mente delle aggiunte e dei ritocchi, il buon Meucci innanzi di licenziare la scoperta, attese a perfezionarla con metodo scientifico, finchè mediante il sussidio dell'elettromagnetismo ottenne che la trasmissione delle vibrazioni sonore potesse avvenire a grandi distanze.

Io non starò qui a descrivere l'apparecchio ultimo in cui si aquietò lo spirito acuto e diligente del nostro fiorentino. Lo si trova descritto in tutti i prontuari delle invenzioni, dove, ben inteso, del Meucci non si fa nemmeno il nome, tanta oscurità pesa sui fabbricatori di candele. Ci vollero anni e lustri di studio e di affannosi esperimenti innanzi che la piccola macchina uscisse dalle mani creatrici compiuta ed atta ad effetti sicuri e costanti. Intanto la fabbrica languiva e fu dovuta dimettere. Il Meucci lasciò casetta di Staten Island e si raccolse in New-York, dove cominciò a campare di stenti e di speranze.

Come stimò che l'invenzione fosse matura ne propose l'esame e l'acquisto al Grant, presidente della New-York District Telegraph Company: ma tenuto a bada per due anni con mirifiche promesse, e persuaso dagli amici ad assicurarsi almeno il brevetto d'invenzione, consegnò all'ufficio delle patenti di Washington la minuta descrizione dell'apparecchio, contro ricevuta in piena regola, alla data 23 dicembre 1871: venti anni giusti dopo di aver trovato l'idea primitiva, dopo di averla in forma rudimentale mandata ad effetto. Dal lungo spazio di tempo trascorso senza che altri intervenisse con scoperte affini, appare quanto fosse originale e geniale la prima trovata. E trascorsero altri cinque anni prima che a nessuno venisse in mente di poter trasmettere i suoni a distanza. Il Meucci, forte del suo brevetto, aspettava fiducioso quel colpo di fortuna che sorride di lontano a tutti gli inventori.

Il colpo venne, ma fu una mazzata. Nel 1876 i giornali americani strombazzarono la meravigliosa scoperta del telefono, opera del prof. Graham Bell di New-York e la costituzione di una società industriale intitolata: Bell Telephone Company. Il nostro amico fiuta un latrocinio: corre all'ufficio delle patenti di Washinton, produce la ricevuta ed il brevetto, e domanda la restituzione delle carte depositate cinque anni addietro. Cerca, cerca, le carte non si trovano. Meucci ritorna a New-York, raccoglie gli amici, espone il caso, dimostra l'identità colposa delle due scoperte, trova generoso patrocinio nella stampa, mette il mondo a rumore. Inquieta di peggior danno la Bell Telephone48 Company gli fa offrire, in secreto, una somma di quattrocentomila dollari (due milioni di lire), purchè dimetta la rivendicazione di ogni suo diritto. Era assai più di quanto avrebbe potuto conseguire, data l'età ormai tarda (il Meucci contava allora 72 anni) da un fortunatissimo esperimento industriale dell'opera sua. Era l'avveramento, ad usura, delle sue lunghe speranze di fortuna, ma in pari tempo la rinunzia ai sogni di gloria, che lo avevano sostenuto e rasserenato nella miseria. Un americano, avrebbe accettato, l'impenitente idealista, già educato dal primo mestiere a costruire castelli in aria e ad appagarsene, rifiutò di netto. Egli voleva il suo, tutto il suo, non già in dollari sonanti ma in suono di plauso al nome oscuro ed alla patria lontana. Un amico che lo frequentava in quei tempi, mi raccontò com'egli andasse ripetendo: È scoperta italiana e non c'è oro al mondo che la possa americanizzare. La società doveva chiamarsi Meucci Telephone Company, il nome dell'usurpatore doveva vergognosamente sparire dai manifesti.

Già la verità aveva fatto strada, s'erano scoperte frodi ingegnosissime dell'ufficio patenti, si sapeva per quale via sotterranea (e la parola va intesa alla lettera) gli ufficiali addetti a quell'ufficio trasmettessero a danarosi compari e fra questi alla Bell Telephone Company, i documenti, tradissero i secreti affidati alla custodia dello Stato. Una buona lite avrebbero messo in chiaro ogni cosa e rivendicato il diritto ed assicurata la prosperità del Meucci. Ma negli Stati Uniti d'America, peggio assai che presso noi, le liti le intavola chi vuole, le sostiene chi può. E potere non vuol dire essere armato di buone ragioni, ma di buona e copiosa moneta. I giornali di New-York, tranne alcuni pochi agli stipendi degli arruffoni, tenevano le parti dell'italiano spennato, contro i ricchi ladri connazionali, ma la procedura trascinava in cavilli indugiatori che davano fondo alle poche ultime risorse del Meucci. Al certo il buon vecchio, benchè di fibra tenace, sarebbe morto prima che nemmeno gli albeggiasse di lontano il giorno della giustizia, se non sopravveniva un fortunato incontro di casi a mettere dalla sua un nuovo litigante, ben altrimenti poderoso e destro.

Nel 1885, accampando la famigerata Bell Company infondate o almeno esagerate pretese verso le finanze dello Stato (si trattava di parecchi milioni di dollari) in conseguenza appunto di certe convenzioni per l'esercizio del telefono, il Governo degli Stati Uniti deferì la questione ai tribunali. Faceva comodo al Governo di contestare non soltanto l'entità del debito, ma il debito stesso. Nulla di meglio che aprire finalmente gli occhi sulla frode iniziale, nota ai governanti da più anni, e colpire gli ingordi, ma pure a lungo tollerati, usurpatori. La frode questa volta fu messa in chiaro ne' suoi più minuti procedimenti. Intervennero sentenze diverse, e prove e riprove e controprove, tirate di lungo per lo spazio di tre anni, finchè d'uno in altro grado di giurisdizione, si pervenne, come Dio volle, al supremo, e nel 1888 la Court of the United States, restituiva al nostro concittadino il merito della scoperta, sentenziava dovere il telefono, prender nome dal Meucci, e dimettere quello del Bell, ed assolveva lo Stato da ogni pagamento verso la fraudolenta Compagnia. Così la giustizia entrava di straforo nei pronunciati giudiziarii, tarda e barbina, perchè al vecchio ottantaquattrenne riconosciuto inventore di uno fra i più meravigliosi trovati del secolo, non fu attribuito nessuna sorta di compenso. Gli usurpatori s'erano arricchiti, lo Stato la faceva grassa, il Meucci moriva un anno dopo, nell'ottobre 1889, povero in canna com'era vissuto. Gli si celebrarono solenni funerali a spese del governo italiano; il Console d'Italia ne accompagnò la salma al crematoio, ed una lapide registrò il suo nome sulla casetta della Staten Island.

Domandate intorno chi sia l'inventore del telefono, e di quelli che sanno dare una risposta, novantanove su cento, nomineranno anche oggi, il prof. Graham Bell di New-York.

Sul finire del 1860 un giovine ufficiale italiano giungeva in New-York, gittati, o dispetto o capriccio o voce imperiosa del destino, gli spallini già conquistati volontario sedicenne sul campo di Novara e portati con onore su quelli di Crimea combattendo nella legione straniera al servizio dell'Inghilterra. Si chiamava con un nome patrizio chiaro nei fasti del risorgimento italiano. Suo nonno, il conte Alerino Palma di Cesnola e di Borgofranco, profugo dagli Stati Sardi dopo i moti del 21, condannato in contumacia alla pena capitale, aveva combattuto col Santarosa per la indipendenza della Grecia, era morto nel 51 in Atene presidente di quella Corte di Cassazione.

Nel 60 meglio che adesso, l'America era la terra promessa dei cercatori di fortuna, e se è vero che a conseguire fortuna occorre esserne affatto sprovvisto, il giovane conte Luigi di Cesnola si trovava proprio nelle condizioni volute. Possedeva appena di che vivere a stecchetto un qualche mese, ma in compenso aveva l'ingegno pronto ed aperto, le membra robuste, il parlare persuasivo, una piacevole franchezza di modi, un aspetto seducente, e sopratutto una volontà tenace ed accorta di acciuffare la fortuna, fosse pure per il filo d'un capello e di non lasciarsela sfuggir di mano.

Cominciò, aspettando le occasioni, di dove cominciano in paese forestiero quasi tutti gli sfaccendati di media coltura e di attitudini poco specializzate: dall'insegnamento della propria lingua. Alla quale aggiunse la francese che i nobili del Piemonte conoscevano allora al pari e spesso meglio dell'italiana. Ma chi vuole insegnare una lingua, deve conoscerne almeno due, chi vuole insegnarne due, almeno tre: la lingua del maestro e quella dello scolaro. A questa il Cesnola s'era applicato la prima volta durante la traversata oceanica che a tale intento, ed anche un po' a risparmio di spesa, aveva compito sopra un bastimento a vela della marina mercantile d'Inghilterra, affidandosi così al migliore di tutti i maestri: la necessità. Allo sbarcare sulla terra d'America, dopo un mese di navigazione, egli sapeva tanto d'inglese quanto basta ai maggiori bisogni della vita. Per strumento didattico erano scarse nozioni, ma insegnando s'impara, e fra i metodi didattici, quello che fa dell'allievo in alcune parti un maestro e stabilisce fra allievo e maestro un continuo ricambio di insegnamenti, è forse il più pratico ed efficace.

Non gli mancarono scolari dell'uno e dell'altro sesso: uomini maturi, giovinotti già dati al traffico ed agli affari e fior di ragazze in età da marito. Di 27 anni, bello, baldo, nobile, italiano, già soldato nelle poetiche guerre d'Italia, nessuna maraviglia che presso qualche allieva, gli soccorresse un sussidio pedagogico non compreso nei precetti della pedagogia. Pochi mesi dopo l'arrivo in New-York, egli sposava infatti la signorina Mary, figlia di uno fra i migliori ufficiali della marina federale, il commodoro Samuel Reid, fanciulla di grande bellezza e di grande animo, che gli fu ed è compagna impareggiabile.

Intanto, ingrossando il dissidio fra gli Stati del Sud e quelli del Nord intorno alla abolizione della schiavitù, il Governo dell'Unione apparecchiava la guerra ormai inevitabile. Si pubblicarono i programmi degli esami che dovevano superare in Washington gli aspiranti al grado di ufficiale nelle improvvisate milizie. Il maestro di lingue, che già ascritto all'Accademia militare di Torino, possedeva in larga misura le cognizioni richieste, si fa di colpo e con più sicura coscienza, maestro di tattica guerresca. Un avviso a caratteri cubitali affisso sulla facciata di una casa in Broadway, la principale via di New-York, annunziò tosto al pubblico:

 

Scuola di guerra

del conte Luigi Palma di Cesnola

capitano nell'esercito italiano

 

La fortuna gli porgeva, non il filo d'un capello ma tutta quanta la chioma. Il corso degli studi si doveva compiere in due mesi al prezzo di dugento dollari. In poco spazio di tempo il numero degli allievi salì a settecento. Un giorno si presenta al Cesnola un ricchissimo signore deliberato di armare a sue spese un reggimento e di farne dono allo stato.

- Quanto volete per l'istruzione di tutti gli ufficiali?

- Dugento dollari caduno.

- Ma son cinquanta!

- Benissimo. Dieci mila dollari.

- Quali sono i modi del pagamento?

- L'intera somma anticipata.

Il miliardario, tale quale usa nelle commedie, leva di tasca il suo bravo libretto, ne stacca un buono, vi registra la somma richiesta, lo firma e lo porge al fortunato istruttore, indi presi i concerti per l'orario delle lezioni, s'avvia verso l'uscita. Sul presso dell'uscio, lo coglie un legittimo senso d'inquietudine.

- Io vi ho dato la somma intera: chi mi assicura che voi mi darete intero il corso delle lezioni?

- I sir. Io signore, risponde il Cesnola.

Lo sguardo, il viso, il gesto, l'accento, le asciutte parole esprimevano una tranquilla fermezza che tranquillò l'animo dell'americano.

Gli allievi superarono tutti quanti con molto onore l'esperimento dell'esame. Era naturale che fosse loro domandato dove avessero atteso agli studi, e naturale pure che nella penuria e nell'urgenza di esperti ufficiali fosse offerto un grado superiore al provato maestro. Nell'ottobre del 1861, il Cesnola fu nominato maggiore e dopo due mesi promosso al grado di tenente colonnello nell'XI reggimento di cavalleria, cui era affidata l'onorifica mansione di proteggere la persona del Presidente Lincoln e di guardare le sedi del Governo, in momenti di gravi subbugli popolari, poichè la popolazione di Washington parteggiava quasi tutta per i separatisti del Sud. Qui il giovane patrizio piemontese diede le prime prove, di un coraggio, di una fermezza, di un accorgimento guerresco, che gli valsero nel settembre 1862 il grado di colonnello ed il comando del quarto reggimento di cavalleria di New-York, già sulle mosse per il campo della guerra e nel dicembre dello stesso anno il comando dei sette reggimenti di cavalleria addetti al decimoprimo corpo d'esercito, condotto dal generale Franz Seigel.

Preposto a così ingente corpo di milizia gli spettava di pien dovere il grado di generale; ma intervenne uno di quegli atti di giustizia distributiva non infrequenti allora ed oggi nella repubblica dell'Unione americana. Toccarono a lui, il comando effettivo, le fatiche ed i pericoli, ed al signor Seward figlio del ministro degli affari esteri, il titolo di generale ed i relativi stipendi. Il generale Seward seguitò ben inteso a dominare in Washington mentre la brigata che portava il suo nome, conseguiva sanguinose vittorie sotto gli ordini del colonnello Cesnola, contendendo ai Sudisti, i passi del Maryland e della Pensilvania meridionale. Il nostro generoso compaesano, sfogava l'interno rodimento in picchiate da orbo, sulle spalle del nemico. Segnalato a Brandy Station per prodigi di valore (sono parole del New-York Times) gli fu affidata la difesa di Belle Plains, e poco appresso quella delle gole di Averil dove sgominò nel maggio 1863, il corpo d'esercito del generale Wasburne facendogli 2732 prigionieri e meritandosi d'essere portato all'ordine del giorno dell'esercito unionista.

Dopo tali prove, credeva per fermo di aver conseguita la promozione a generale di brigata; il generale Gregg nominò invece immeritatamente un suo proprio fratello. Questa volta il Cesnola se ne dolse aperto con una fiera lettera di protesta che il Gregg tenne per atto di insubordinazione e punì cogli arresti sotto la tenda. Seguiva così disarmato la colonna che aveva guidato tante volte alla vittoria, ma gli era inibito di combattere con essa.

In tali condizioni pervenne il 17 giugno 1863 alla battaglia di Aldie, una delle tante che insanguinarono durante la guerra di secessione lo stato della Virginia. Il nemico ingrossava da presso, quando il generale Kilpatrick, che comandava i diversi corpi unionisti ivi raccolti, ordinò una carica al quarto reggimento di cavalleria N. Y. Il reggimento protestò unanime, soldati ed ufficiali che non avrebbero mosso un passo se non lo guidava il suo colonnello. Cesnola misurando il pericolo ed il disonore di un ammutinamento, supplica allora dal Kilpatrick il permesso di porsi disarmato com'era alla testa dei suoi soldati. Questi, che era stato estraneo alla punizione e forse la disapprovava in cuor suo, acconsente. Il Cesnola salta in sella, in difetto di sciabola, agita alto il frustino e slancia il cavallo pancia a terra seguito dal reggimento fremente ed urlante di entusiasmo. Respinto, per disparità di forze, torna quattro volte all'assalto. Alla terza una palla lo colpisce al braccio sinistro, ma non ne sfredda l'ardore. Mentre raccoglie i soldati per lanciarsi alla quarta il generale Kilpatrick, ammirato di tanto eroismo, lo avvicina, si leva la sciabola dal fianco, e gliela porge dicendogli: «Ritornamela rossa di sangue.» Ma nella mischia, il valoroso, ferito gravemente da sciabola al capo ed alla mano destra cade ed è preso prigioniero.

Come avviene nelle lotte civili, le ire fra i due campi avversi furono in quella memorabile guerra, tenacissimi e crudeli contro il diritto delle genti e le ragioni della civiltà. Agli unionisti, più forti, più disciplinati, più fiduciosi nella vittoria finale, durò tuttavia, benché scarso, qualche senso di pietà o forse di rispetto umano; ma i separatisti del Sud fecero aperta prova di una selvaggia inumanità. La prigione di Libby in Richemond dove furono rinchiusi oltre mille ufficiali dell'esercito unionista, restò per assoluta insufficenza di spazio e per sevizie, famosa nella storia delle iniquità e della barbarie. Pigiati in locali corrotti e malsani, senza letti, senza tavole, scarso e guasto il nutrimento, laceri, fra insulti e percosse, molti di quei prigionieri morirono, quasi tutti ammalarono gravemente e fra questi il Cesnola. Il quale per lo spazio di circa un anno seppe mostrarsi fra i continui patimenti, così intrepido e sereno come già tra le fatiche ed i pericoli.

Finalmente, intavolate scambievoli trattative per ricambio e riscatto dei prigionieri. Il quarto reggimento di cavalleria New-York potè intervenire in favore del suo colonnello. Riporto qui nel suo testo l'istanza fatta al Ministero della guerra in Washington.

 

Campo del 4.° Reggimento Cavalleria N. Y.

 

9 Marzo 1864.

 

Al Ministro della guerra,

 

«Gli ufficiali del 4.° Reggimento Cavalleria N. Y. sottomettono alla vostra benevole considerazione questa rispettosa istanza, perchè (in quanto ciò sia conforme alla dignità della patria ed ai regolamenti sullo scambio dei prigionieri di guerra), si dia opera immediata onde il loro amato e valoroso colonnello Luigi Palma di Cesnola possa riprendere il servizio attivo.

«Sono oltre nove mesi che il colonnello Cesnola langue nelle prigioni di Libby essendo caduto nelle mani del nemico, mentre comandava uno squadrone di cavalleria il giorno 17 giugno 1863 in Aldie, Virginia. La sua presenza è con ardore desiderata dal suo reggimento, ufficiali e gregarii, tanto che i sottoscritti rispettosamente osservano e fanno osservare che, se mediante le avviate stipulazioni la loro domanda sarà esaudita, il reggimento a mostrarsene grato raddoppierà nell'adempimento del proprio dovere, l'attività e lo zelo. Aggiungono ancora che il ritorno del loro colonnello al servizio attivo, gioverà alla santa causa per la quale hanno giurato combattere e che la presenza del loro magnanimo comandante non potrà che accrescere il lustro e la fama dei tanti coraggiosi pugnanti ora per l'unione e la libertà

L'istanza sortì il suo effetto. Il Cesnola fu barattato col colonnello Brown dell'esercito separatista. Abramo Lincoln volle vederlo e richiederlo delle condizioni dei prigionieri. Ad informarnelo non occorrevano parole, bastava che il Cesnola si mostrasse macero, ischeletrito com'era e pieno di lividure. Il grande presidente s'impietosì a quella vista ed al colonnello che gli domandava di tornar subito al campo, ordinò un mese di congedo, per rifarsi in salute.

Intanto la guerra volgeva al suo termine. Già prima che cominciasse, il governo dell'Unione aveva con chiari patti stabilito, che colla pace sarebbe caduto ogni suo legame ed ogni obbligo cogli ufficiali iscritti alle milizie. Non gradi, non onori, non pensioni. Ma i servigi prestati dal Cesnola furono stimati di così alto pregio da meritargli uno speciale trattamento. Promosso generale, perchè il Governo potesse in alcun modo tenerlo ancora in attività di servizio, fu nominato Console generale degli Stati Uniti con libera scelta fra parecchie ottime residenze. Egli elesse quella di Larnaca nell'isola di Cipro, che lo avvicinava all'Italia ed offriva a lui ed alla famiglia un clima salutare, necessario ristoro alle fatiche, ai patimenti ed alle apprensioni della guerra e della lunga travagliosa prigionia.

 

Per dire delle grandi scoperte che vi fece il Cesnola, occorre premettere alcuni rapidi cenni intorno alle antiche vicende storiche dell'isola di Cipro ed alle ricerche archeologiche di che fu oggetto nella seconda metà del nostro secolo. Estraggo queste sommarie notizie da alcuni pregiatissimi articoli del Perrot pubblicati nella Revue des deux Mondes, gli anni 1878 e 1879, e dal libro del Cesnola già citato in nota.

La terra sacra a Venere, ebbe dai fenici i primi rudimenti della civiltà. Le sue coste orientali e meridionali, più dell'altre prossime alla Siria, risentirono prime l'influenza fenicia e ne furono più profondamente penetrate. Ivi sorsero le tre città di più incontrastata origine fenicia: Kition, Pafo (l'antica) ed Amatonta. Kition, in prossimità della moderna città di Larnaca, fu, pare, il più importante emporio che vi avessero i fenici. La Bibbia ne fa menzione più volte, a cominciare dal libro della Genesi, allargando il suo nome ebraico di Kittim fino a designare con quello l'isola intera. Amatonta e Pafo ebbero nelle pratiche religiose del mondo antico, e negli studi archeologici dei tempi nostri, una grande celebrità, dai loro templi e santuarii, nei quali l'imagine a noi alquanto malferma della siriaca Astarte andò nei secoli, a grado a grado trasmutandosi nella più sicura e precisa della greca Afrodite.

I fenici scopersero primi le ricchezze metallurgiche dell'isola, si applicarono alla estrazione del rame che ebbe nome di Cuprum (donde il cuivre francese), vi importarono la cultura della vite e certe piante d'origine asiatica od africana quali la cassia, la cannella, il sesamo, la fava d'Egitto.

A quanto è lecito congetturare, i greci approdarono la prima volta in Cipro poco appresso la composizione dei poemi omerici. L'Illiade ci Cipro per terra fenicia. Le colonie greche vi stabilirono dunque intorno a novecento anni avanti Cristo. È da credere che la loro fu pacifica conquista, non potendo i Fenici opporre valida resistenza al giovane popolo invasore ed appagandosi di mantenere le loro industrie ed i commerci cui diedero tosto un grande incremento le numerose città fabbricate dai greci. I greci di Egina fondarono Salamina, i greci d'Argo fondarono Curium se pure non vi si stabilirono soltanto, allargando ed abbellendo una preesistente città già eretta dal fenicio Cinyras. I greci di Sirio fondarono Golgos, quelli della Laconia, Lapato e Chrinia, quelli dell'Arcadia la seconda Pafo, la Baffa dei nostri giorni, che sorse in prossimità della Pafo fenicia e fu del pari celeberrima per il culto di Venere.

Durante il secolo VIII ed il VII a. C. l'isola appartenne agli imperi di Ninive e di Babilonia. Verso la metà del VI secolo passò all'Egitto, poi con Dario alla Persia, poi argomento di contesa fra i macedoni Antigone e Demetrio d'una parte e Tolomeo I.° dall'altra, ripassò all'impero egizio, che ne fece più tardi un reame quasi indipendente, appannaggio dei principi lagidi, ai quali nell'anno 59 a. C. la strappò Catone l'Uticense riducendola a provincia romana.

Nel volgere di quei secoli, Cipro ebbe fama di incomparabile ricchezza e prosperità. Alle colture introdotte dai fenici, i greci aggiunsero quella dell'olivo, albero sacro a Pallade Atene. Vantavano i greci che gli olivi di tutte le spiaggie e dell'isole mediterranee provenissero tutti quanti dal tronco uscito di terra già alto e fronzuto sull'Acropoli, ad un colpo di lancia di Minerva. E pare che all'albero di Minerva, il terreno di Cipro, si confacesse, meglio ancora che quello nativo dell'Attica. L'isola ne fu coperta ed arricchita oltre misura. Tutti gli scrittori antichi, dai primissimi della Grecia agli ultimi di Roma gareggiano d'iperboli per esprimere le magnificenze di quella terra benedetta dal sole. Il dolce clima e le inesauribili dovizie, ne avevano ammolliti gli abitanti, avevano indotto in essi un raffinato amore del piacere. Le conquiste si compievano senza resistenze e quindi senza eccidî. Un dominio seguiva all'altro senza nulla turbarvi le voluttuose fruizioni della vita. Le vecchie città accumulavano monumenti di civiltà diverse. I santuari della Venere ciprigna, erede della Astarte fenicia erano ombreggiati da alberi secolari ospizio alle candide colombe, sacre alla Dea. I templi serbavano intatte colle statue e le offerte votive depostevi dai primi fenici e dai primi greci, le statue, le gemme, i vasi, le armi, recate via via dagli assiri, dai persi, dagli egizi, da tutti i successivi dominatori. I riti anch'essi, in luogo di escludersi l'un l'altro, si sovrapponevano componendosi in una deliziosa tolleranza che attutiva negli abitanti il sentimento patrio e la civica fierezza. Più costanti e pregiati perduravano e si trasmettevano i riti più licenziosi, i quali chiamavano in Cipro da ogni parte del mondo allora noto e comunicante, in gran folla gli stranieri, come a luogo di impareggiabili delizie.

Di qui una corruzione di costumi che dovette muovere a santo sdegno i primi cristiani. Già gli ebrei esulatevi dopo la guerra di Giudea, si erano, sotto l'impero di Traiano, levati in armi contro i lascivi ciprioti, uccidendone, dicono, dugento e quaranta mila, ed abattendo e devastando i templi sacri alla prostituzione, ed alle voluttuose deità. Quando Paolo, vi predicò la legge di Cristo, quando la nuova dottrina ebbe in Cipro numerosi credenti, austeri severi, spregiatori49 ed abborritori della carne, questi ruppero nel loro furore iconoclastico in frequenti massacri ed in rovine. La storia non ce ne trasmise le particolari vicende, ma i ruderi parlano in sua vece. Il Visconte di Vogüé che studiò con molta cura i monumenti ciprioti, rinvenne presso Golgos e presso Idalia, non pochi depositi di immagini frantumate che apparivano esser state sepolte con gran furia entro fosse comuni; vere necropoli di statue, dove, sotto pochi piedi di terra giacevano le opere di molti secoli: vasi, idoli, immagini, simboli, tutte mutilate a studio. Così i monumenti artistici di tante diverse civiltà passarono di un colpo, dagli onori del culto, alle tenebre della sepoltura, furono sottratti alle deturpazioni utilitarie delle basse età, prepararono maravigliosi tesori ai nostri musei, ed una inattesa messe di notizie ai moderni eruditi.

 

L'importanza archeologica dell'isola di Cipro fu svelata agli studiosi del viaggiatore inglese Riccardo Pocock, il quale verso la metà del secolo scorso ne riportò trentatre iscrizioni da lui copiate in Larnaca e provenienti da Kition, rimaste per lungo tempo i soli documenti epigrafici della Fenicia. Sul loro testo si tentarono le prime traduzioni, dal loro testo fu rilevato lo stretto legame che univa il linguaggio fenicio all'ebraico. Dopo di lui, qualche vaso o qualche statuetta, rinvenuti fortuitamente, richiamarono di quando in quando sull'isola sacra a Venere l'attenzione degli eruditi. Ma furono dapprima richiami senza seguito che servirono piuttosto a far sospettare l'esistenza di un mondo inesplorato, che a stimolare, tanto apparivano dubbiosi, lo zelo degli esploratori. E tali durarono per lo spazio di un secolo, fino a che nel 1845, Ludovico Ross chiamato all'insegnamento della archeologia classica nell'università d'Atene, venne nel proposito di cercare in Cipro la soluzione del problema intorno alle origini della civiltà greca. Recatosi tutto solo in Larnaca, il Ross intraprese una ricognizione sommaria attraverso l'isola. Ma per difetto di tempo, egli intese piuttosto a raccogliere notizie dagli abitanti ed a segnare i punti che promettevano maggior messe agli scavi avvenire, che a sommuovere il suolo per immediate ricerche. Tuttavia la rapida corsa aveva svelato all'occhio esercitato dell'archeologo il carattere asiatico dei più remoti monumenti ciprioti. Una sua relazione svegliò la curiosità di altri studiosi. Nel 1846 il francese Mas Latrie comprò in Larnaca una notevole quantità di figurine di calcare e di terra cotta. Nel 1859 un'altro francese il De Saulcy comprò pure in Larnaca un buon numero di vasi e di statuette cedute poco appresso al Museo del Louvre. Nello stesso tempo il signor Péretié dimorante in Siria potè acquistare pel Duca di Luynes la famosa Tavoletta di Dali che fu di molto lume allo studio della filologia fenicia e cipriota.

Le necropoli violate cominciavano a spandere i loro secreti e gli antichi oggetti dissepolti divenivano argomento di regolari commerci. I contadini stessi cui seguiva, non di rado, di trovare monete d'oro ed oggetti preziosi, si davano volentieri alla cerca, sospettosi dei forestieri e sopratutto del governo turco il quale accampava diritti e praticava sequestri sulle prese. La curiosità, l'avidità del guadagno, la vanità, la seduzione dell'ignoto, davano agli eruditi un sussidio non sempre desiderato e non sempre utile, di innumerevoli dilettanti, operanti senza criterio e senza disciplina. I contadini degli oggetti dissepolti, non pregiavano che la materia. Così una statua di bronzo, più alta del vero, rinvenuta nel greto d'un torrente disseccato, fu infranta e ripartita a peso fra gli scopritori, gelosi sovra ogni cosa di trafugarla alle autorità, paghi di ricavare il valore del metallo. I dilettanti, serbavano bensì gli oggetti interi, ma non curavano di registrare il modo del loro giacimento , tanto meno, di rilevare la pianta del tempio o della necropoli, che li aveva per tanti secoli custoditi, privando così, la scienza delle preziose notizie complementari che sono pressochè indispensabili, alle sicure attribuzioni e classificazioni. Qualche dotto archeologo, e non pochi antiquarii improvvisati archeologi, procedevano tuttavia con buoni metodi e con diligenti cautele a fruttifere ricerche. E le loro scoperte, menavano rumore fra gli studiosi d'ogni parte d'Europa, e facevano gola ai Musei di Londra, di Parigi, di Berlino, di Pietroburgo.

Nel 1860, il Renan mandato da Napoleone III a esplorare le coste dell'antica Fenicia, stimò di dover allargare fino a Cipro il raggio delle sue ricerche; e già l'anno appresso stava per imbarcarsi alla volta di Larnaca, quando dolorose circostanze di famiglia e di salute lo costrinsero a tornarsene subito in Francia. Ivi apprese che il Visconti Melchior di Vogüè già noto per ottimi studi sulle chiese cristiane in Terrasanta e riputato conoscitore della archeologia fenicia, era sulle mosse per un secondo viaggio in Oriente. Il Renan lo pregò di comprendere anche Cipro nel suo itinerario e n'ebbe conforme promessa. Infatti nel 1862, il Vogüé in compagnia del Waddington e dell'architetto Duthoit intraprese una esplorazione completa dell'isola, e condusse in parecchi punti degli scavi che arricchirono di preziosissime spoglie il Museo del Louvre. Sulle indicazioni del Vogüé l'architetto Duthoit potè segnare con sicurezza il luogo dove sorgeva l'antica Golgos e scoprire tre grandi fosse ricolme delle statue atterrate e mutilate dai primi cristiani.

Fortunate ricerche fece pure il Conte di Maricourt, Vice Console di Francia residente in Larnaca. Passeggiando un giorno colla famiglia, su per le falde di un monticello che domina una salina nei pressi della città, il Maricourt smosse a caso colla punta del bastone fra le sabbie una minuscola statuetta di terra cotta. Incoraggito dalla trovata fortuita, proseguì a ribruscolare nel l'arena collo stesso istrumento, e ne estrasse parecchie altre consimili figurine. Tornò l'indomani sul luogo colla famiglia ed i domestici armati di pale e la messe fu assai copiosa. Era naturale che ci pigliasse gusto. Ogni sera i borghesi di Larnaca vedevano la brigata consolare avviarsi agli scavi come a sollazzevole scampagnata. In capo a pochi mesi, il Maricourt possedeva una pregevole raccolta, che avrebbe di certo arricchita se non moriva di colera nel 1865.

Lo scozzese Hamilton Lang andato in Larnaca a dirigervi una succursale della Banca Ottomana, fu anch'egli, in quel torno, sedotto alla ricerca dei sepolti tesori. Sulle prime si appagò di farne incetta presso i contadini, comprandone vasi di vetro e d'argilla. Datosi di poi agli scavi, scoprì in Dali le vestigia di un tempio, che gli fornirono in gran copia, statue e statuette di marmo e di cotto di varie dimensioni, figurine di bronzo di fattura egizia, ornamenti di smalto turchino o bianco, frammenti di preziose ceramiche, e medaglie d'argento appartenenti alla più remota antichità. La sua maggior presa, fu più tardi, nel campo della numismatica. Nel 1870, cinque giovani contadini, andavano alla ricerca di statuette, nei terreni già esplorati dal Maricourt. Uno di essi mise a giorno un vaso di bronzo che levato di terra gli si ruppe fra le mani, lasciando cadere una pioggia d'oro coniato. Il bottino fu spartito fra i cinque cercatori con promessa di scambievole secreto. Ma due giorni dopo, il Lang, avuto sentore della cosa, potè, al prezzo di dodicimila lire comprare seicento statere d'oro di Filippo e d'Alessandro macedoni, fra le quali, cedute poi al Museo brittannico, si riscontrarono novantadue varietà fino allora sconosciute.

Un altro console di Francia, il Colonna Cenaldi, di origine italiana, succeduto al Maricourt, proseguì con ottimo frutto le indagini iniziate in Dali dal Duthoit. Un console d'Inghilterra, M.r Sandwith, non ostante le opposizioni del governo turco, riuscì pur tuttavia a raccogliere una bella collezione.

Così l'antica terra aveva rimunerato molti cercatori delle sue ricchezze, ma senza raccontare intera la sua storia, senza dare ai problemi della scienza archeologica una soluzione sicura ed esauriente. A parziali ed impazienti ricerche erano seguite parziali trovate. La gelosia del governo ottomano minacciava di mettere ostacolo agli scavi ulteriori. Per dire l'ultima parola sulle antichità di Cipro, occorreva vi si applicasse un uomo che, conseguita la necessaria dottrina, fosse ad un tempo, più accorto, più sagace, più audace, più perseverante, più caro alla fortuna, più meritevole dei suoi favori, di quanti vi s'erano per l'addietro applicati.

Tale seppe essere il generale Luigi Palma di Cesnola.

 

Il Cesnola sbarcò in Larnaca il giorno di Natale del 1865 colla moglie e due bambine. La città gli parve inabitabile, i luoghi intorno aridi e desolati. Già durante il viaggio egli aveva letto quanti più libri gli era riuscito di raccogliere intorno all'isola di Cipro, alla sua storia, ai suoi commerci, alle sue antichità. Il giovane generale non aveva altra coltura classica fuori di quella appresa nelle primissime scuole. Dall'età di sedici anni in poi, da quando cioè era partito volontario per la prima guerra dell'indipendenza italiana, tutti i suoi studi, tutte le sue applicazioni s'erano rimaste alla scienza ed all'arte della guerra. Il mondo dell'antichità che quelle frettolose letture schiudevano alla sua mente, gli era, si può dire, affatto ignorato, ma la sua mente pronta ad accendersi, facile alle assimilazioni, ordinata ed imaginosa doveva riceverne uno stimolo grande a maggiori conoscenze. In Larnaca gli scavi erano diventati l'occupazione ed il passatempo di tutte le persone colte. C'era in tutti l'aspettazione di qualche grande scoperta imminente, o per lo meno la certezza che quella terra piena di storia, celasse ancora immense ricchezze ed impareggiabili tesori d'arte e di scienza. L'ellenismo era, nella famiglia Cesnola, titolo di nobiltà ed argomento di culto domestico. Pareva al conte Luigi che ricercando le origini della remota civiltà greca, egli avrebbe continuato e compito l'opera dell'avo Alerino, volontario combattente per l'indipendenza della Grecia moderna. Il disagio e la noia di una piccola città turca, lo infervorarono all'impresa. Il Consolato degli Stati Uniti gli lasciava agio di attendervi. Una relazione pubblicata dal Vogüé dove era vantata per completa la esplorazione dell'isola fatta dalla missione francese, e pareva conchiudere nulla potersi più sperare da maggiori indagini, aggiunse forse all'altre tentazioni un non so che quale lievito di puntiglio, primo segno della vocazione archeologica. Gli uomini dalla tempra del Cesnola misurano di colpo il prò ed il contro di ogni impresa e sono altrettanto pronti al decidere quanto pazienti all'operare. Si direbbe che la fortuna sussurri loro all'orecchio il secreto degli eventi avvenire. Fino dai primi giorni della sua dimora in Larnaca il Cesnola fece proposito di dedicarsi agli scavi, non colla volubilità del dilettante che muta luogo al primo saggio infruttuoso, ma con persistente fermezza. Alla spesa avrebbe provveduto l'immancabile bottino. Per farsi la mano intanto che si addentrava negli studi, cominciò a rifrugare, ultimo dopo tanti curiosi, entro le terre intorno a Larnaca.

Vi trovò subito importanti monumenti dell'epoca greco romana, un sarcofago fenicio, vasi di marmo e di alabastro con iscrizioni fenicie, terraglie a fregi fenici ed una cartella lapidaria a caratteri cuneiformi grossamente imitati. Buon principio in una plaga già da tanti esplorata, ma in sostanza più atto ad incoraggiare che a rimunerare. Se non che le autorità turche, ormai messe sull'avviso, non volevano più saperne di scavi. Un loro divieto comunicato per le vie legali e nelle forme cortesi avrebbe messo il Cesnola in grave imbarazzo. Per fortuna il Kaimakan di Larnaca Genab Effendi, aveva la vista corta e la mano pesante, due difetti che riescono quasi sempre a metter la ragione dalla parte del torto. Senza curare le procedure diplomatiche, egli imprigionò di colpo sul luogo degli scavi due operai addetti al Consolato degli Stati Uniti. Ne seguirono vigorose proteste del Console, accolte con turchesca arroganza dal Caimacano, il quale non si peritò, pochi giorni appresso, di far arrestare, nei locali stessi del Consolato, una guardia consolare. Era una palese violazione del diritto delle genti che il Cesnola seppe difendere da par suo, minacciando di ammainare la bandiera dell'Unione Americana ed ottenendo dal Ministro degli Stati Uniti presso la Sublime Porta l'invio di due navi americane nelle acque di Larnaca. Il Governo Ottomano dovette rimettere il litigio ad una Commissione mista la quale esaminate le cose, diede ragione al Cesnola. Il Caimacano di Larnaca fu destituito con perpetua interdizione dai pubblici uffici, furono liberati i prigionieri, la bandiera degli Stati Uniti ebbe il saluto di 21 colpi di cannone, il Governatore di Cipro fu destinato ad altra sede; previa una visita di scusa al Console ed il pagamento di dieci mila piastre al suo primo dragomanno.

Sgombrata per tal modo la via, il Cesnola potè darsi liberamente alle ricerche archeologiche. Un firmano del Sultano lo autorizzava a far scavi in ogni parte dell'isola, salvo ad intendersela coi proprietarii dei terreni. La primavera del 1867, egli prendeva in affitto una casa in campagna con largo circuito di aranceti sulle falde del monte presso Dali (Idalium) e vi si allogava colla famiglia. L'aria vi era più fresca, i luoghi intorno più ridenti che a Larnaca, e certi frammenti di scoltura che ne provenivano, gli facevano argomentare l'esistenza in quei paraggi di una vasta necropoli. Non s'era ingannato. In capo a tre anni egli aveva scoperto ed esplorato diecimila tombe; le greco-romane giacenti a poca profondità dal suolo ricoprivano le più remote fenicie ricche di copiosissimi e preziosi cimelii. Non mi è possibile accompagnare l'opera del Cesnola nelle sue fortune successive, raccontarne i modi, descriverne i prodotti. Per lo spazio di undici anni, con accorgimento d'artista, con dottrina di archeologo, con accanimento di soldato, con perseveranza di alpigiano, egli attese insieme, a studi, ad interpretazione di testi, a raffronti, ad esplorazioni, a scavi, a classificazioni. Cercò ed accertò la topografia storica dell'isola, segnò i luoghi dov'erano sorte le città di Amatunta, di Cerynia, Cizio, Lapeto, le due Pafo, Afrodisia, Curio, Citerea, ed altre molte che ommetto; scoprì quindici templi sacri alle divinità fenicie, egizie e greche, rintracciò sei antichi acquedotti. Come Dali gli ebbe rivelato i suoi segreti, si volse a Golgos (la moderna Athiénau) e vi raccolse tesori che fecero maravigliare il mondo intero. La voce delle sue fortune, gli sollevava intorno, gelosie, bramosie, cupidigie, rancori, dispetti, invano congiurati al suo danno. Più volte la Sublime Porta fu per revocargli il firmano che lo licenziava agli scavi. Lo accusavano di minare le moschee, di profanare le sepolture dei veri credenti; ma il Ministro d'America, residente in Costantinopoli, sorgeva in sua difesa, faceva la voce grossa e scongiurava le tempeste. «A quanto mi si dice, caro generale» scriveva un giorno il Ministro al Cesnola «delle buche che andate scavando d'ogni parte, capisco che avete in animo di colare a picco, una bella mattina, l'isola intera. Prima che sprofondi, ve ne prego, mettete al sicuro gli archivi del Consolato americano

Il lavoro era improbo e costoso, ma il frutto prometteva di ripagare le fatiche e la spesa. In Golgos cento e dieci operai disseppellirono nel corso di sei settimane, oltre ad un sarcofago ornato sulle quattro faccie di bassorilievi rappresentanti la morte di Medusa, e Pegaso e Chrysaor uscenti dal suo sangue, ben trecento statue di singolare bellezza ed una innumerevole quantità di terraglie, di ceramiche, di vetri, di figurine, di monili, di armi, di monete. Le statue erano incrostate di uno spessore di tufo indurito che bisognò ammollire con bagnature e far saltare poi a punta di coltello. Estrattolo dal profondo, bisognava calare quel popolo marmoreo dalle alte pendici del monte ai magazzini disposti in Larnaca ad accoglierlo. Non traccia di strada di nessuna maniera. I minori pesi erano caricati su cammelli, i maggiori adagiati su appositi carri a ruote nei terreni piani, a slitta giù per le chine. Il trasporto rischioso, lento, costosissimo, rinnovava più penose le fatiche e le ansie della scoperta. Ma già nel 1870, la casa consolare di Larnaca e gli aggiunti magazzeni avevano fama in tutta Europa, di museo senza pari, che faceva gola ai grandi musei reali ed imperiali. I dotti, gli antiquari, gli artisti accorrevano d'ogni parte d'Europa a visitare la maravigliosa raccolta. Il Cesnola descrive col suo stile brioso e colorito, le noie che gli davano le carovane Cook, invadenti il suo giardino e la casa. «Ricordo una signora inglese d'una certa età dal lungo viso incorniciato, come tradizione vuole, di capelli arricciati a vite. Poichè ebbe esaminate attentamente le statue di Golgos, mi domandò di spiegarle per cortesia i misteri del culto di Venere.» Altri rubavano bravamente i piccoli oggetti e non trovandone a portata di mano, scheggiavano vasi e statue pure di riportarne un pezzetto.

Ma coi fastidiosi non mancavano i proficui visitatori. La Russia mandò a Cipro uno dei conservatori del Museo del Romitaggio, per trattare la compera di tutta la raccolta. Il negozio non fu conchiuso perchè altro negoziatore segreto aveva mandato Napoleone III voglioso di arricchire la sezione del Museo del Louvre dedicata al suo nome. Sopravvenne la guerra colla Germania, e caddero anche questi negoziati. Terzo mandò offerte, il Museo brittannico; ma i suoi direttori volevano che la collezione fosse innanzi di concludere, portata a Londra per un attento esame. Giusta e prudente domanda, ma non facile a soddisfare. Le grandi scoperte di Golgos avevano fatto più acute le cupidigie degli ufficiali turchi. Il governatore di Cipro avvertì il Cesnola che le cose non sarebbero andate liscio liscio.

Questi sperava che memori della sua vittoria nel dissidio col Caimacano, gli ufficiali della dogana non avrebbero osato contrastargli l'uscita di un bottino che gli apparteneva in legittima proprietà. Sperava, non senza timori. Di eludere la vigilanza delle guardie, non c'era da far pensiero. Erano trecento e sessanta enormi, pesantissime casse, impossibili a trafugare. Domandare licenza era come dubitare del lecito. Unico partito, agire aperto, presto e con aria sicura. Un bastimento a vela, scaricate in Larnaca le sue mercanzie, stava per salpare alla volta di Alessandria. Il Cesnola lo noleggia e dispone per il carico delle casse, ma la Dogana gli comunica un telegramma del governo ottomano con ordine di impedire al Console d'America di nulla asportare dall'isola. L'ordine era perentorio ed una goletta da guerra all'insegna della mezzaluna stava in rada proprio dirimpetto al Consolato americano, quasi ad assicurarne l'adempimento.

Tanta fatica, tanto studio, tanti anni spesi a cercare e ad illustrare la remota storia dell'isola tornavano a compiuta rovina del cercatore e dell'illustratore. La favolosa collezione serbava bensì in Larnaca il suo valore archeologico, ma perdeva ogni valore commerciale. Nessun rimborso era più da sperare delle immense spese sostenute per raccoglierla. la Sublime Porta si sarebbe piegata a comprarla per danaro, assai paga che non uscisse dai suoi domini, certo si poteva trovare al mondo così munifico signore che ne facesse acquisto per tenerla relegata in Larnaca.

Il Cesnola meditava scoraggito sulla caduta d'ogni sua speranza, sulla scorno, sul danno irreparabile, mentre il suo fidato dragomanno Bechbech, passeggiava di su di giù per la stanza con aria di profonda meditazione.

Di tanto in tanto l'astuto e fedelissimo servitore gettava sul padrone uno sguardo incoraggiante quasi a provocarne un salutare provvedimento. Cesnola s'accorge che l'uomo ha le sue viste:

- Bechbech, bisogna che tutte le casse siano oggi a bordo della goletta. È necessario, Bechbech.

- Eccellenza, risponde il dragomanno, il dispaccio diretto al Governatore generale, conteneva, è vero, l'inibizione al Console d'America di nulla asportare dall'isola?

- Ma sì, ma sì.

- L'inibizione era fatta non al nome di Vostra Eccellenza, ma al Console d'America?

- Credo di sì. Perchè?

- Eccellenza, è accennato al Console di Russia in quel telegramma?

- No, no, ch'io sappia! - grida subitamente illuminato e giocondato il Cesnola. Corri alla Dogana e domanda in mio nome immediata e testuale comunicazione del telegramma.

Bisogna avvertire che il Consolato di Russia, non avendo allora titolato in Larnaca, era retto dal Console degli Stati Uniti. Il Cesnola era dunque ad un tempo il legittimo e riconosciuto rappresentante del Governo dell'Unione Americana e dell'imperiale Governo moscovita.

Mentre Bechbech corre alla dogana, il Cesnola, combinata a grossi caratteri a stampiglia la scritta: Consolato di Russia, ordine la si stampi su altrettanti fogli quante sono le casse e che s'incolli sovra ogni cassa il suo bravo foglio.

Dopo una mezz'ora eccoti il Direttore della Dogana col testo del dispaccio. Il Cesnola ne ascolta indifferente la lettura e poi, col piglio autoritario che si conviene al rappresentante lo Czar di tutte le Russie, domanda:

- Avete ordini relativi al Console di Russia?

L'Effendi, formalista come tutti i turchi, riflette, consulta il testo, conviene che esso riguarda il solo Console d'America, e riconosce non potersi opporre all'imbarco della mercanzia se questo gli viene domandato dal Console di Russia. Il dispaccio gli era stato trasmesso dal Governatore Generale, residente allora in Nicosia, nel centro dell'isola. Non era possibile avere istruzioni in giornata; dati i precedenti del primo dissidio e la fiera indole del Cesnola, era pericoloso, nel dubbio, farsi avverse due potenze non avvezze a patir soprusi. A farla breve, la lettera prevalse sullo spirito, le trecento e sessanta casse furono imbarcate nello spazio di poche ore. La notte il veliero salpava con buon vento ed il Cesnola dopo tante ansie potè dormire i suoi sonni tranquillo.

La raccolta destò a Londra una indicibile maraviglia. Mai per l'addietro un privato aveva posseduto così nuovi e vistosi tesori d'arte. Il Museo brittannico ne vagheggiava l'acquisto e già si teneva sicuro del fatto suo, quando gli sorse di fronte un formidabile competitore. Da pochi anni s'era, per liberalità di privati, formato in New-York, un Museo metropolitano (Metropolitan Museum of art). Alcuni fra i suoi principali fondatori trovandosi per l'appunto in Londra, intavolarono trattative col Cesnola. Gli osservarono che a parità di condizioni era bello ch'egli desse la preferenza alla patria adottiva, dove aveva trovato ospitalità, onori, fortuna, il parentado con una famiglia onorevole, ed un ufficio che era stato occasione e condizione delle sue scoperte. Al Museo brittannico la collezione Cesnola, ammirevole senza dubbio, era di necessità eclissata dalle ricchezze artistiche importatevi di Grecia e di Roma. In New-York essa sarebbe stata il nucleo del nuovo Museo, e vi avrebbe primeggiato a perenne gloria del suo scopritore.

Queste buone ragioni, raccomandate ad ottimi avvocati, persuasero il Cesnola. La collezione composta di diecimila capi d'arte fu venduta al Metropolitan Museum di New-York al prezzo di trecento e cinquanta mila lire. Il Cesnola aveva già nel corso delle sue ricerche conchiuso vendite parziali coi musei di Londra, di Parigi e di Berlino, e fatto gratuito dono di preziosi cimelii al Museo delle antichità di Torino, quale omaggio alla patria d'origine. Le trecento e sessanta casse furono imbarcate per New-York, ed il generale riprese la via di Larnaca per intraprendere nuovi scavi su più larga scala, a spese questa volta e per conto del Metropolitan Museum.

Ma era detto che il Cesnola dovesse agire sempre di suo. Una terribile crisi finanziaria sopravvenuta negli Stati Uniti costrinse i fondatori del Metropolitan Museum a disdire la convenzione pattuita in vista delle ulteriori scoperte. La fortuna serbava al valoroso uomo dei favori ben altrimenti maravigliosi di quelli prodigatigli in passato, ma egli doveva essere solo, al rischio, alle fatiche, alle lotte, al merito ed al premio. Nell'anno 1873 e nei primi mesi del 74, egli attese a sapienti ricerche, nelle terre di Salamina, di Soli, di Amatunta, della nuova e dell'antica Pafo. Non del tutto infruttuose, esse gli diedero frutti di secondaria importanza, ed impari alle ingenti spese incontrate. Un uomo di più debole tempra se ne sarebbe scoraggito: egli perseverò con ardore degno del trionfo che lo aspettava. Già gli invidiosi si godevano dello smacco onde vantavano offuscate le sue prime vittorie, quando corse nel mondo degli eruditi una notizia che sapeva di favola romanzesca. S'erano avverate al Cesnola, le fortune del Conte di Montecristo: non più statue o vasi, o lapidi o sarcofaghi, ma una profusione inestimabile di ori, di monili, di gemme era uscita da millenni sepolture ad un colpo di picca dell'avventuroso cercatore. Egli aveva scoperto intero e intatto il tesoro di Curium.

La città di Curium sorgeva al sommo di un monte roccioso, sulla costa meridionale dell'isola, alto dai cento metri sul livello del mare. La spianata è oggi coperta da uno spessore di materiali costruttivi rotti ed induriti, che mostrano frammenti di sculture e di fregi architettonici. A centinaia monticelli di ruderi ammucchiati, indicano il luogo ove sorgevano le case, i templi ed i pubblici edifici. Sovra uno di tali monticelli giacevano mezzo interrate parecchie colonne di granito. Il Cesnola le fece sterrare per assicurarne le dimensioni e le trovò posare sopra un pavimento a musaico che, rimosse le colonne, mise a giorno, quanto era largo, in modo da poter rilevarne la pianta di un tempo. Tastando col piede il pavimento avvertì che in un punto rendeva suono di vuoto. Ne ruppe la crosta, dissodò il terreno sottostante e con grande maraviglia riconobbe ad indubbi segni che già un altro esploratore era penetrato sotto il pavimento; ma non un rivale d'oggi o di ieri, non un cercatore di antichità, bensì qualche antichissimo esploratore, che aveva, è da credere, assistito alla rovina del tempio e ne conosceva forse gli occulti meati tra le fondamenta. Si capiva che l'uomo s'era aperto una via nella terra, cercando di giungere a qualche luogo a lui noto. Ma non v'era riuscito: o lavorasse da solo, senza istrumenti, o nell'oscurità avesse perduto l'orientamento, o gli mancasse l'aria, il fatto sta che le traccie dello scavo cessavano ad un tratto, alla profondità di circa due metri dal suolo.

Pensiamo se al primo segno di un precursore, al primo riconoscimento della sua antichità, il Cesnola dovette fremere di curiosità e d'impazienza. E quando il cunicolo gli si chiuse di colpo, ed apparve chiaro che l'ignoto cercatore aveva abbandonato l'impresa, quanti pensieri, quanti misteri gli si affacciarono alla mente! Deliberò tosto di internarsi più oltre nelle viscere della terra. Ma il lavoro gli riusciva arduo e lento. Approfondatosi di altri cinque metri, non trovò nulla che lo incoraggiasse a proseguire. Doveva anch'egli desistere? Lo avrebbe fatto di certo se le traccie lasciate dal precedente esploratore fossero state recenti. Nessuna meraviglia che un ignorato archeologo, avesse tentato di interrogare a fondo quelle rovine. Ma l'antichità non conosceva archeologi. L'uomo che a rischio della vita era penetrato in quelle latebre, doveva obbedire non ad una generica, ma ad una consapevole e determinata curiosità. Egli doveva o conoscere di certa scienza, od argomentare con plausibile ragioni, l'esistenza di qualche locale sotterraneo, contenente forse qualche prezioso deposito. Forse nel crollo dell'edifizio s'era otturato l'imbocco del cunicolo conducente a quella cripta, forse le macerie ammucchiate, i grossi massi difficili a rimovere, lo avevano persuaso di raggiungere il cunicolo per altra via fra materiali di minore resistenza. Era anche possibile che lo scavo si fosse tentato quando ancora il tempio rendeva intatto il suo culto alla divinità. Curio è vantata colonia argiva. Ma tradizioni remotissime, la vogliono fondata da quel Cinyra, che presso gli annalisti greci personifica la razza fenicia. Quando sul cominciare del quinto secolo innanzi Cristo, le principali città greche dell'isola sorsero contro Dario, il re di Curio, Stesenore, tradì la causa nazionale, e si alleò ai re fenici ed all'esercito persiano. È lecito supporre che nell'imminenza della guerra, o Stesenore stesso, od i sacerdoti50, avessero scavato delle cripte nella roccia viva, e vi avessero nascosto quanto il tempio conteneva di più prezioso. L'ignoto cercatore sarà egli stato, un ufficiale del re, od un sacerdote? Mille romanzesche ipotesi travagliavano la mente del Cesnola, oramai avvezzo alle sorprese di quella terra fortunosa. Cedere ad una prima disdetta era demeritare dalla fortuna. Bisognava strappare alle tenebre il loro secreto, e pervenire ad ogni costo, oltre la crosta terrosa fino alla roccia viva.

Finalmente a otto metri dal pavimento, gli scavatori imboccarono uno stretto passaggio che li condusse ad una porta chiusa da una sottile lastra di pietra. Rimosso l'ostacolo, riuscirono in una piccola stanza piena fino alla volta del terriccio filtrato per le fenditure del monte. Seguivano tre altre simili grotte, similmente ripiene. Allo sgombero del territorio, occorse oltre un mese di febbrile ed irritante lavoro. Usavano, per ragioni di prudenza, lasciare a fior di terra uno spessore di mezzo metro all'incirca, che era poi rimosso con meticolosa cautela, sapendosi per lunga esperienza che gli oggetti preziosi giacevano sul fondo. Un giorno il Cesnola tastando con un regolo quell'infimo strato, venne ad urtare in un corpo duro. Era un braccialetto d'oro. Le sue fantasiose previsioni si trovavano avverate. Egli aveva posto mano sul tesoro sotterraneo indisturbato custode, per tanti secoli, delle offerte votive e delle domestiche ricchezze che i privati confidavano al santuario, innanzi di movere alla guerra o di salpare per lunghe navigazioni.

La storia non ricorda altra raccolta di gioielli e di oggetti preziosi pareggiabile al tesoro di Curium. Braccialetti d'oro massiccio, anelli, orecchini, amuleti, fiale, spilloni, spille, collane d'ogni forma e di raro lavoro. Cristalli di roccia, cornaline, onici, agate, tutte le varietà delle pietre preziose, e ancora figurine di cotto, vasi d'argilla, lampade, tripodi, candelabri, armi, vasellami d'argento, coprivano da oltre venti secoli, il suolo di quei plutonici saccelli.

Oltre la quarta stanza, si apriva un cunicolo simile a quello che immetteva nella prima. Se non che la volta rocciosa, andava in breve abbassandosi, così da doverlo percorrere carponi. Vi penetrarono muniti di candele il Cesnola ed il capo degli scavatori strisciando fra le anguste pareti e ne ritrassero sette caldaie di bronzo, ultima presa. L'aria venne ben presto a mancare, le candele si spensero, un calore soffocante mozzava il respiro, gli esploratori dovettero rinculare senza toccarne il fondo.

Il Cesnola si partì di Cipro, per non tornarvi, la primavera del 1876. Il suo nome apparteneva ormai alla storia, gli era lecito sperare maggiori venture. I musei d'Europa, si disputarono il tesoro di Curium, come già i cimelii di Dali e di Golgos. Ma ognuno voleva far la sua cernita ed al Cesnola premeva che la raccolta durasse intera. Era interesse della scienza che non ne andasse dispersa l'unità, era legittimo desiderio dello scopritore che unita attestasse il suo nome. Intervenne una seconda volta il Metropolitan Museum di New-York che l'acquistò al prezzo di sessantaquattromila dollari, impegnandosi a raccogliere insieme colla prima in apposite sale intitolate al Cesnola, cui venne affidata la Direzione del Museo.

Da quel giorno il nostro concittadino, vive in New-York, dove ampliò, arricchì ed ordinò il Metropolitan Museum così da farne uno dei primissimi del mondo. Le maggiori accademie scientifiche d'Europa, fecero a gara a quale più l'onorasse; gl'Italiani residenti nell'Unione ricorrono a lui quale a patrono. Egli vive in serena e studiosa operosità, grato alla nuova patria, pieno il cuore di vivissimo affetto per la nativa. Il suo maggior desiderio è di rivedere ancora una volta, gli amici d'Italia, e le dolci pendici del canavese. Contava di venirci l'anno passato per l'Esposizione di Torino, ma la guerra di Cuba lo trattenne, antico soldato, in New-York. Ben torni il prode uomo alla sua terra. La vita ch'egli condusse in America, l'esempio della sua rettitudine, della sua attività instancabile, del suo indomabile coraggio, la prova dell'elettissimo ingegno, giovarono al prestigio del nome italiano negli Stati Uniti, assai più che un trattato d'amicizia, o non so quale altra diplomatica fatica. Tutta la sua vita e l'ingegno e la tempra dell'animo hanno un nobile geniale carattere di italianità, esprimono accoppiata ad una energia insuperabile, quella grazia latina che sembra, rendere agevoli le più ardue imprese. Egli fu caro alla fortuna, perchè degno in tutto e sempre di conseguirne i favori.





47 Raccolsi le notizie del Meucci da parecchi italiani residenti in New-York che ebbero con lui molta dimestichezza e da alcune note fornitemi dal Sig. Carlo Barsotti, direttore proprietario del Progresso Italo Americano.

Intorno al Cesnola esiste una copiosa bibliografia. Io mi giovai qui in special modo del suo libro: Cyprus its ancient cities tombs and temples; di una bella memoria di Tullo Massarani: Cipro antica e moderna e il generale Palma di Cesnola e di una diligente monografia del Dottor Luigi Roversi: Luigi Palma di Cesnola ed il Metropolitan Museum of art di New-York. Ma il maggior aiuto me lo diedero certi racconti ed appunti preziosissimi che ebbi dal Cesnola stesso durante e dopo il mio soggiorno in New-York.



48 Nell'originale "Thelephone". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



49 Nell'originale "spegiatori". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



50 Nell'originale "sacerdati". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



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