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Nel precedente Saggio sulla filosofia della natura noi avemmo opportunità di osservare come la produzione della natura non fosse cosa accidentale, ma invece un apparire necessario e determinato dalla legge dialettica per la quale l'idea, essenzialmente operosa, deve manifestarsi come esteriore a sè medesima. La natura così posta apparisce come un termine opposto all'idea, talchè quando questa, rientrando in sè, diviene spirito, si trova di avere innanzi la natura come un opposto ed un ostacolo insormontabile: a poco a poco però ella si accorge che la natura è fatta per lo spirito, e che egli può abbattere quelle barriere che prima parevano limitare la sua infinita attività. Lo spirito sente che egli solo è fatto per sè, ma che le altre cose sono fatte per lui; e da questa coscienza, che è il fondamento della persona umana, nasce una nuova serie di produzioni, le quali differiscono dalle naturali, perchè queste sono inconscie e quelle consapevoli.
La natura sta adunque innanzi allo spirito in due modi, come indipendente da lui e come prodotta da lui: nel primo modo è semplice natura, nel secondo è arte. E poichè l'accorgersi che fa lo spirito di potere a sua volta riprodurre la natura è non già una cosa accidentale, ma un necessario svolgimento della sua coscienza, perciò l'arte non ha nella vita dello spirito un posto secondario, come se fosse un semplice trastullo, ma è un momento essenziale della sua evoluzione.
Lo spirito si compiace nell'operare; egli sente di essere la libertà infinita, e di potere trasformare tutto nella sua idealità. Egli medesimo consiste in questo raddoppiare e riprodurre sè stesso, essendo che la sua natura non è soltanto semplice essere, ma libera riflessione. Riproducendo la natura, egli o la spoglia dell'individualità che dà la forma universale, ed in tal caso si dice che la conosce; ovvero le conserva l'individualità, ma sottraendola a tutte le contingenze della natura sensibile, ed in tal caso la ricrea artisticamente. La scienza e l'arte sono dunque entrambe produzioni dello spirito, ma l'una dissomiglia molto dall'altra.
La natura è un sistema di cose individuali sensibili legate insieme dalla relazione di mezzo e di fine, ma soggette a mille contingenze ed accidentalità, che impediscono all'idea di rivelarsi nella sua piena indipendenza. Tutti questi casi fortuiti e quasi capricciosi costituiscono una folla innumerevole d'interessi e di fini particolari che sono la prosa della natura e della vita. Ogni individuo naturale e sensibile è fatto per un altro, serve a qualche cosa: l'idea non è per sé, ma si trova subordinata al sistema: l'individualità non è libera, ma inceppata dalla contingenza dei fatti. Intanto lo spirito è attività indipendente, e la natura, come l'abbiamo or ora descritta, si trova di essere il rovescio di questa indipendenza. Or quando lo spirito cerca di sottrarre la natura da quella sfera accidentale in cui è caduta, ed imprimerle il carattere della propria indipendenza, in modo che l'individualità naturale si trovasse di esistere per sè e non più per un altro, noi vediamo sorgere una nuova natura, dove, senza fare sparire l'individualità, si vede risplendere l'idea nella sua perfetta indipendenza. E questa seconda natura è l'arte, la quale è assai più bella della prima, perchè la bellezza, come vedremo, non si manifesta se non là dove più libera e più splendida risplenda la divina idea. L'arte non è un'illusione, come a taluni è paruto, ma anzi è assai più reale e più vera di quello che può sembrare la natura sensibile; imperocchè la realtà e la verità si misurano dal prevalere dell'idea, e non già da altri criteri, e l'idea prevale più nella indipendenza dell'arte che nella contingenza della natura. Onde quando il Vico diceva che i caratteri poetici sono assai più veri dei caratteri storici, mostrava di avere compreso perfettamente la differenza che passa tra l'arte e la storia, perchè i caratteri poetici rappresentano gl'individui artistici, mentre i caratteri storici rappresentano gl'individui naturali. Anche l'individuo nell'arte si trova sollevato ad una condizione di assai superiore che non sia per rispetto all'attività pratica e all'intelletto conoscitore. Nell'atto conoscitivo l'individualità sparisce e si tien conto soltanto della sua forma universale; talchè in questo processo si mostra che il particolare è fatto per essere compreso sotto l'universale: nel conoscere si ha il momento negativo della particolarità. Nel processo pratico, invece, si fa conto dell'individuo particolare, perchè l'istinto si volge ad esso; ma però vi si volge per farlo suo, per annullarlo. L'appagamento della brama che porta all'istinto non si effettua, che a scapito dell'individualità. Dunque l'individuo è annullato idealmente nella scienza, realmente nell'appagamento dell'istinto, l'individuo è conservato come tale nell'arte, nella cui sfera non entrano gli appetiti soggettivi e particolari, perchè noi non ci compiaciamo dell'opera dell'arte per servircene e per distruggerla a nostro profitto, ma per ammirarla come libera manifestazione dell'idea.
Dalle cose dette fin qui si può vedere quanto sieno manchevoli alcune distinzioni e determinazioni dell'arte le quali invece di considerare la sua vera nozione ricorrono a fini esteriori e che fanno dell'arte un puro istrumento verso altre nozioni. Quando si è detto che l'arte sia una imitazione della natura, e che perciò tanto più si debba stimare perfetta, quanto più rassomiglia all'esemplare naturale, si è ridotta l'arte alla condizione di un passatempo fanciullesco senza nessun valore e significato proprio. A questo proposito si è ripetuta una frase di Dante che la natura è figlia di Dio, e l'arte è la nipote, volendo con ciò alludere alla maggior distanza che disgiunge la rappresentazione artistica dall'eterno modello. Ora secondo le nostre antecedenti osservazioni l'arte è assai più vicina all'assoluto di quello che non sia la natura. Imperocchè se l'assoluto è lo spirito libero e indipendente, ritrae più dell'essere divino la produzione artistica dove riluce la libertà, che non la natura ove domina invece la necessità. Che sebbene talune volte appaia di essersi l'arte perfettamente modellata sulla natura secondo l'esempio spesse volte citato della scuola fiamminga, null'ostante ciò che noi ammiriamo in questo caso non è l'esatta e monotona imitazione del naturale, ma la potenza dello spirito che ricrea liberamente la natura. Anzi Hegel nota che questa forma di arte che si studia di rifare la natura è prevalsa nella Olanda per una ragione speciale di quel popolo, il quale posto nelle più sinistre posizioni naturali è stato costretto a lottare contro l'Oceano per assicurarsi il proprio suolo. Come ha sostenuto questo continuo combattimento per vincere la natura e farla piegare a' suoi bisogni, così nell'arte questo popolo ha seguito lo stesso indirizzo riproducendo artisticamente e domando una seconda volta la ribelle natura.
Il bisogno che ha lo spirito umano dell'arte non si fonda dunque sopra un esteriore capriccio d'imitare, ma sulla necessità intrinseca di ridurre con coscienza il mondo interno ed esterno ad una perfetta unità. L'arte esprime questa intima fusione: e la libertà e la sensibilità che si combattono vicendevolmente acquistano un'armonica contemperanza nella produzione artistica. L'idea si trova necessariamente associata ad una forma sensibile; come dall'altra parte il sensibile non esiste che per l'idea. Così i due termini che costituiscono la contraddizione che prende persona nell'uomo, si trovano riconciliati; e l'idea esiste come concretizzata, ed il sensibile esiste come idealizzato.
Un'altra missione è stata data all'arte, quella cioè di arrecar diletto allo spirito travagliato dalle cure serie della vita. Ed anche questa missione che le si assegna è assai minore della vera ed altissima che l'arte ha. Coloro che credono gl'interessi della vita superiori alla sfera dell'arte, giudicano le contraddizioni del finito assai più stimabili della soluzione infinita di queste contraddizioni; e riducendo l'arte ad un semplice compiacimento subbiettivo, le tolgono il valore vero ed assoluto. Per comprendere poi da che origine nascano gl'interessi particolari della vita, bisogna ricordare che ogni opposizione finita di subbietto e di obbietto, di libertà che si sforza e di necessità che resiste, genera un conflitto nel quale consiste l'interesse particolare dell'individuo. Ogni conflitto richiede una soluzione, e se questa soluzione è soltanto momentanea e finita dà luogo ad un nuovo conflitto; talchè ne succede una serie di conflitti e di soluzioni in cui si trova avvolto lo spirito nella sfera del finito. Le opposizioni finite e le soluzioni egualmente finite non cessano mai; i bisogni soddisfatti rivivono da capo, e la vita si passa in una lotta continua. È mestieri perciò ricercare al disopra della sfera del finito una soluzione infinita ed assoluta, ove tutti i conflitti e tutte le antitesi si acquetano e si riconciliano. La prima di queste soluzioni assolute è l'arte, nella quale lo spirito si trova nel sensibile immediato non più come in un suo opposto ma bensì come in una forma sua propria. Egli non ha più ragione di sdegnarsi contro dell'ostacolo esterno, ma gode serenamente della sua libertà. Questo contentamento e questa pace serena che genera l'arte, non è dunque un diletto passeggero ed un passatempo inventato per rinfrancarsi delle cure della vita, ma invece è un contentamento che è assai più serio e vale di più di ogni interesse e di ogni cura della vita.
Finalmente altri credendo di sublimare anche di più la missione dell'arte hanno creduto di doverne fare la moderatrice delle passioni e la maestra dei costumi, senza badare che l'arte in tal modo diveniva uno strumento secondario della morale e non aveva più un valore assoluto e per sè. Ma oltre a ciò non si sono accorti che le passioni non si trovano nello stesso modo nel campo della morale come si trovano in quello dell'arte. Nella morale l'universale o l'idea si trova nella legge; il particolare o l'individuo si trova nella passione. Il conflitto è vivo e reale, e la loro armonia costituisce la virtù. Tutti questi elementi però si urtano e si combattono nello spirito come soggetto finito. Quando poi le passioni si trovano rappresentate artisticamente, esse non sono più il contenuto del nostro particolare soggetto; non ci appartengono più, nè agitano la nostra coscienza: invece si trovano rappresentate come fuori di noi, come obbiettive, talchè noi sentiamo la serenità della nostra ragione anche alla vista e alla contemplazione delle passioni più tumultuose. Le passioni nell'arte non sono dunque le medesime che le passioni nella morale; e l'arte è fine a sè stessa, e non è semplice maestra e correttrice dei costumi.
Determinata così la vera finalità dell'arte, e scevrate tutte quelle altre missioni estrinseche che le sono state inesattamente attribuite, noi vediamo nell'arte la libera riproduzione della natura emancipata da ogni contingenza e da ogni necessità. Intanto qui si presenta una domanda: se la natura e l'arte differiscono tanto tra di loro, perchè noi sogliamo attribuire alla natura quella bellezza che è prerogativa dell'opera d'arte? Si deve forse dire che lo spirito si fa un'illusione nel trasportare nella natura ciò che è proprio di lui? Ovvero si trova veramente nella natura tal fondamento che possa farla chiamare bella senza timore di errare? La questione posta in questi termini non si può risolvere se non dopo avere mostrato in che consiste propriamente la bellezza.
Il bello è stato variamente definito, e la più celebre definizione che è corsa quasi fino ai nostri tempi, è stata quella di Sant'Agostino e di Leibnitz, che il bello è il consenso nella varietà. Questa definizione esprime al certo una proprietà del bello, ma non ne svela l'intima natura: è una determinazione quantitativa la quale si arresta, come tutte le determinazioni di questo genere, alla mera superficie. Noi vedremo appresso quale sia stato lo sviluppo storico dell'idea del bello, e quindi per ora ci limitiamo a dare quella definizione che crediamo la vera. Il bello è l'idea che apparisce in una determinata forma, ed aggiungiamo in una forma che è la sua, in quanto che deve nascere con lei e da lei.
Premesso ciò, e sapendo per le cose dette altrove, che tutta quanta la natura non è che l'estrinsecazione dell'idea, parrebbe doverne inferire, che la bellezza appartenga a tutta la natura. D'altra parte però sappiamo che l'idea nella natura non si svela sempre ed intera in tutte le forme; e che anzi vi sono delle forme dove si manifesta un semplice frammento o momento di essa idea. Di tali forme non si potrebbe dire a rigor di termine, che fossero belle; e la bellezza non comincia veramente a risplendere, se non dove l'idea incomincia a raccogliersi in sè in una perfetta unità, e dove la materia naturale è perfettamente soggiogata dall'imperio della forma.
La vita è dunque la prima reale e compiuta appariscenza dell'idea; ed è in lei che si appalesa la prima volta la bellezza della natura.
Il primo che abbia riconosciuto questa corrispondenza tra la bellezza e la vita è stato Emmanuele Kant, nella critica del giudizio, secondo che noi svilupperemo più avanti. Difatti il proprio processo della vita sta nell'unificare le due attività ideale e reale, realizzando sempre nell'organismo la forma ideale, e di rincontro idealizzando il reale nella sua ideale unità. E poichè questa unità ideale dell'organismo vivente è l'anima; per ciò tanto più bella apparisce la vita quanto più attraverso alle determinazioni corporali trasparisce l'anima e la sua interna azione.
L'intuizione di un animale vivente mostra bensì la varietà e la differenza delle membra di cui si compone, mentre l'unità ideale, dove ogni varietà si appunta, rimane occulta. Ora per darsi il bello bisogna che questa varietà sia ridotta ad unità, e di più ancora che questa unità ideale apparisca sensibilmente. Il modo di fare apparire l'unità come sensibile è l'espressione del sentimento, nel quale si rivela l'anima. Fra i tipi animali dunque quelli si debbono riputare più belli, dove la vitalità si manifesta più spiccatamente nel sentimento o nelle movenze; mentre sono sempre meno belli gli altri tipi dove essa rimane inerte e priva di movimento.
Talvolta ancora si verifica che lo spirito attribuisce alla natura una bellezza che è il riflesso del nostro individuale soggetto. Nelle manifestazioni più indeterminate della natura lo spirito può compiacersi di disegnare colla fantasia le sue determinate passioni. È la destata eco del cuore, dice Hegel, quella che abbellisce i paesaggi, le notti, le valli, il corso dei ruscelli e via via; ed è generalmente tenuto per bello in natura tutto ciò che assomiglia alle qualità umane, ed è più consono alle nostre abitudini.
Qui ha luogo davvero ciò che diceva Kant, che lo spirito abbellisce la natura, trasferendo nel seno di lei l'armoniosa corrispondenza delle sue facoltà.
Ma dove riluce meravigliosamente la fusione intima dell'ideale e del reale, e perciò ove si manifesta perfettamente la bellezza è nello spirito. Lo spirito è il vero, è il solo ideale della bellezza, a cui la natura dà in prestito le proprie forme che nel contatto coll'ideale rimangono trasformate.
La nozione si trova divisa in due termini opposti che sono il subbietto e l'obbietto, lo spirito e la natura. Ciascuno di questi due termini per reintegrarsi e per realizzare in sè la nozione tutta quanta ha bisogno necessariamente dell'arte. Quindi proviene che i rapporti vicendevoli di entrambi sono finiti, relativi, e perciò mancanti di libertà. Così per es. nel conoscere, l'oggetto ha la sua nozione nel soggetto e si compisce in esso; talchè si può dire con ragione che l'oggetto ha la nozione fuori di sè. Al contrario, nel volere, il soggetto trova il suo compimento nell'oggetto, essendo che questo gli serve di termine per ottenere il suo fine. Nel conoscere dunque il termine stabile è l'oggetto ed il mutevole è il soggetto: nel volere il termine stabile è il soggetto, e quello che si muta è l'oggetto. In questi rapporti però vi è di comune una proprietà ed è che la nozione non si trova sviluppata pienamente in nessuno dei due termini presi separatamente. Questi rapporti si dicono finiti. Che se poi l'oggetto potesse avere la nozione in sè stesso, ovvero se il soggetto potesse realizzarsi per sè senza bisogno di un mezzo estrinseco ed oggettivo, allora cesserebbe la finità dei rapporti, e la nozione, realizzandosi liberamente senza bisogno di aiuto esterno, si troverebbe di essere in rapporto assoluto e indipendente con sè stessa. Ora ciò non si può verificare che nello spirito assoluto; dunque l'ideale della bellezza, che consiste appunto nella attuazione libera ed assoluta della nozione, non può trovarsi altrove che nello spirito. Ed anzi bisogna aggiugnere che non si trova nello spirito in quanto è un individuo soggetto a rapporti finiti, ma soltanto nello spirito considerato come assoluto ed infinito.
Da questo punto di vista ci è dato di potere giudicare le più rilevanti teorie sulla natura dell'ideale dell'arte, mostrando qual parte di verità avessero colto i filosofi precedenti, e quale invece trascurata. Primo che avesse dato l'esempio di una investigazione scientifica sulla bellezza è stato Platone. Egli se ne occupa in molti dialoghi, ma ne tratta poi di proposito nel Fedro e nel Simposio, benchè nel primo dalla bellezza tragga argomento di parlare dell'amore come desiderio inspirato dalla bellezza medesima; e nel secondo, viceversa, cominci dall'amore per elevarsi fino alla bellezza. Per Platone però sempre la bellezza che s'incontra come imagine fuggitiva nella natura e nella vita, non è che il riflesso dell'eterna bellezza onde risplende l'idea nella sua purità. Questa dottrina platonica che fa consistere nella sola idea ogni bellezza è perfettamente in armonia col resto del suo sistema, nel quale all'idea viene eziandio attribuita ogni realtà. Il gran pregio del sistema platonico è quello di avere riconosciuto l'idea come il sostanziale fondamento del tutto: per lui il vero, il bello, il buono, sono tutti l'idea considerata sotto diversi rispetti. Tutto quello che si trova nel mondo d'ideale proviene dall'idea, e la materia non aggiunge altro che limiti ed imperfezioni; talchè invece di servire alla manifestazione ideale essa la nasconde e l'offusca.
In questi brevi cenni della teoria platonica, noi troviamo la ragione perchè la bellezza sia fatta consistere nella sola idea. Ma l'idea sola ed astratta si riduce alla pura nozione logica, la quale è incapace di bellezza. L'idea da cui s'informa la bellezza deve necessariamente esistere in una forma determinata, e la forma determinata è l'individuazione, vale a dire l'opposto dell'idea. Quando dunque Platone parla di una bellezza puramente ideale, o egli suppone l'idea individuata in sè, ed allora esce dalla pura natura ideale, e vi fa penetrare ancora il sensibile; ovvero parla di un'idea astratta, ed allora non si può concepire come questa si possa chiamare bella.
L'espressione comunemente adoperata di bellezza ideale non ha nessun valore, se non si considera ancora come bellezza sensibile: è una di quelle espressioni vaghe che si dicono senza attendere molto a ciò che significa. Noi lo ripetiamo anche una volta, l'idea come pura idea non è la bellezza!
I moderni platonici, e fra questi principalmente il Gioberti, hanno cercato di ovviare alla difficoltà della teoria platonica aggiungendo all'idea la forma sensibile. Il Gioberti infatti definisce il bello per l'unione di un tipo intelligibile e di una forma sensibile fatta per mezzo della fantasia estetica. Con questa definizione egli ha creduto rinnovare ed insieme modificare la dottrina del filosofo ateniese. Noi facciamo alcune considerazioni su questo tentativo giobertiano.
Il tipo intelligibile del Gioberti sebbene paia riprodurre l'idea di Platone, pure non è del tutto così. L'idea platonica ha un significato larghissimo e si estende dai più generali concetti fino ai modelli più prossimi alle cose individuali: è un'idea l'eguaglianza, la bellezza, la verità, come un'idea l'uomo, il cavallo e simili. Il tipo intelligibile di Gioberti invece, escludendo le idee generalissime, si limita a mostrare come contenuto della bellezza i soli modelli specifici capaci di rivestire una forma sensibile. Da questa parte perciò il Gioberti ha precisato di più l'indeterminatezza dell'idea di Platone. Da un'altra parte poi Gioberti ha introdotto un elemento nuovo, che non si trova nella teoria del filosofo greco. Per Platone la forma sensibile non solo non entra come elemento costitutivo della bellezza, ma anzi quando vi entra l'offusca; e noi incontriamo spesso nei dialoghi di Platone dei lamenti contro questa intrusione del sensibile, la quale appanna la purissima ed ideale bellezza. Talchè per questo verso tiene più della dottrina platonica il Fornari il quale fa consistere il modello della bellezza nella generazione ideale del verbo, o nella prima parvenza, come egli la chiama. E certamente quando si considera la materia come un accidente, e la forma sensibile come un decadimento, non si può fare a meno di appigliarsi al partito di credere ogni mistione col sensibile fonte di offuscamento della bellezza, nello stesso modo che si crede essere generatrice dell'errore e del male. Platone ha avuto questo dogma in comune colla dottrina cristiana venuta dipoi, di riporre nella materia l'origine della bruttezza e di ogni male. Intanto quando si lasciano da parte i pregiudizî di una qualsiasi credenza, questa abborrita materia si trova come condizione indispensabile a spiegare non solo la natura e la vita, ma eziandio le più ideali produzioni dello spirito come nel caso nostro è la bellezza. Onde non sappiamo comprendere come si possa dare una bellezza puramente intellettuale o puramente morale, come pare che abbia opinato l'illustre Cousin quando ha diviso la bellezza in tre ordini, ed al bello fisico ha fatto seguire il bello intellettuale ed il bello morale. La bellezza è una nozione a sè, e perciò bisogna metterla al proprio posto e non confonderla colla verità nè colla virtù. Che sebbene spesso si possano rincontrare associate insieme, nulladimeno l'occhio del filosofo deve sempre saperle distinguere ed attribuire a ciascuna il suo proprio significato.
Tornando ora al modo con cui Gioberti fa nascere la bellezza dall'unire il tipo intelligibile colla forma sensibile, noi troviamo che ciò avvenga per opera della fantasia. Questa ultima parte della definizione giobertiana tiene più di Kant che di Platone. Se l'idea e la forma sensibile sono per sè separate, ed è la fantasia che deve unirle per creare la bellezza, chi non vede che questa non ha più valore assoluto, ma è una produzione nostra subbiettiva? E per tal modo non si vede svanire la bellezza assoluta di Platone, e subentrare la bellezza subbiettiva di Kant? Il Gioberti stesso se ne è accorto quando ha chiamato la fantasia estetica, creatrice del bello. Tanto è vero che quando si crede nel nostro secolo rinnovare Platone, a nostra insaputa e talvolta ancora nostro malgrado, come notava il Fiorentino, 2 s'insinua la dottrina di Kant. Un ultimo difetto che ci sembra di scorgere nella dottrina del Gioberti sul bello, è questo, che l'unione dell'intelligibile e del sensibile effettuandosi per virtù estrinseca della fantasia, fa sì che l'idea del bello non si determini da sè, come deve fare ogni idea che sia veramente tale. Levando all'idea ogni operosità intrinseca e propria, e facendola determinare esteriormente, si riduce alla condizione di un semplice obbietto.
Le determinazioni che vengono dal di fuori sono sempre accidentali, e tali debbono essere per Gioberti le diverse forme dell'arte. Una testimonianza non dubbia di ciò che abbiamo testè avvertito si rinviene nella grande partizione che ei fa dell'arte in ortodossa e in eterodossa, pigliando questa determinazione da un'altra sfera, cioè dalla religione. Anche noi conveniamo nel credere che il contenuto dell'arte sia il divino, e che per ciò arte e religione si dieno vicendevolmente la mano, ed abbiano un'influenza incontrastabile l'una sull'altra. Ma il divino come contenuto dell'arte ha una ragione di essere indipendente e per sè, e molto meno poi si può far dipendere dal contenuto religioso proveniente da una rivelazione esterna, come l'intende Gioberti. L'arte moderna ha senza dubbio risentito l'influenza del Cristianesimo, non perchè il Cristianesimo abbia dato in prestito il suo contenuto all'arte, ma perchè l'arte nel suo intrinseco sviluppo è pervenuta a quel medesimo grado dove è pervenuta la Religione nella coscienza cristiana. E l'uno e l'altro sviluppo si deve riferire ad un processo superiore e necessario, quale è lo sviluppo progressivo dello spirito umano. Ricorrere a spiegazioni accidentali, a rivelazioni che sarebbero potute non essere, per dare una teorica dell'arte o di qual si voglia altra idea, non è metodo degno di un filosofo.
Dopo la teoria di Platone, più o meno felicemente imitata nei tempi posteriori, non se ne conta nessun'altra originale che quella di Kant. La dottrina kantiana sul bello è mirabilmente legata col resto del suo sistema, di maniera che non si può comprendere bene se si ignorano i principî speculativi da cui egli parte. Kant trattò del bello nella Critica del giudizio, la quale seguì alla Critica della ragion pura ed a quella della ragion pratica. Noi richiamiamo in memoria alcuni punti indispensabili della sua filosofia speculativa per rendere più piana la spiegazione del bello.
Kant avendo ammesso nella critica della ragion pura l'intuizione sensibile come materia del conoscere, e le categorie come sua forma ed unità, convenientemente a questi principî ha di poi nella Critica del giudizio concepita la nozione della bellezza. Come il giudizio conoscitivo risulta dalla intuizione e dalla categoria, così il giudizio estetico risulta da una rappresentazione, e da una unità posta liberamente dalla immaginazione medesima. Cosicchè nel giudizio conoscitivo la varietà e l'unità sono date egualmente allo spirito; la varietà è data dalla intuizione sensibile e l'unità è data dall'intelletto: nel giudizio estetico invece la varietà è data dalla stessa rappresentazione sensibile, ma l'unità non è data più, ma è posta dall'immaginazione. Nel giudizio conoscitivo dunque tutto è dato necessariamente; nel giudizio estetico v'è un elemento nuovo posto liberamente dalla fantasia; e questo elemento nuovo è l'unità dove si raduna la varietà sensibile.
La sorgente del bello si trova dunque per Kant nel giudizio estetico, ed il bello è puramente subbiettivo. Dall'armonia della facoltà intuitiva colla conoscitiva si genera il bello. E poichè in tutti gli uomini si rinvengono le medesime facoltà ed in tutti è possibile il medesimo accordo, per ciò tutti sono capaci di conoscere e di sentire la bellezza. – Il fondamento è in tutti lo stesso, ma la necessità e l'universalità del giudizio estetico non si desume dalla nozione, come nel giudizio logico, ma dalla medesima natura e qualità delle facoltà umane. Benchè il gusto possa variare secondo il grado di coltura pel modo più o meno squisito di sentire, nulladimeno nei giudizî che si portano sulla bellezza, noi esigiamo che tutti sentissero alla maniera nostra e che tutti convenissero nel nostro giudizio. – Kant inoltre aveva notato che tutte le nostre conoscenze si raccolgono dalla ragione in tre idee supreme ed assolute: in quella dell'anima, in quella del mondo, in quella di Dio. Queste idee non hanno nessun'intuizione corrispondente, onde se l'intelletto può divenire intuitivo mediante l'immaginazione, la ragione a rincontro non può divenire mai tale; essendo che ogni idea della ragione è una totalità, ed ogni intuizione per contrario non può rappresentare che un particolare. Se adunque tra l'intelletto e l'immaginazione può correre un'armonia la quale è il fondamento della bellezza; tra la ragione e l'immaginazione questa corrispondenza e questo accordo è impossibile. Dalla sproporzione che passa tra l'immaginazione e la ragione scaturisce il sublime. Imperocchè sebbene tra queste due facoltà si scorga un contrasto, non per tanto questo contrasto è anch'esso armonioso. Non è l'armonia della bellezza, ma è un'armonia di un altro genere. La ragione pende verso l'infinito, l'immaginazione per contrario se ne allontana, chè nel seno dell'infinito vede sparire l'immagine e la forma determinata in cui risiede la propria essenza. L'immaginazione si allontana dall'infinito perchè si sente incapace di comprenderlo, e di figurarlo in un'immagine che gli sia adeguata. Ma appunto perchè ella sente la sua incapacità, già indovina che l'infinito c'è; ed in questo indovinare un mondo sconosciuto consiste l'ufficio del sublime. Il sentire che fa lo spirito i proprî limiti gli arreca anche piacere discoprendo in tal guisa quell'alta regione verso cui lo spinge continuamente il bisogno della ragione, la quale non può altrimenti essere appagata che da questo fuggitivo splendore che le accenna la fantasia. Ed ecco come dalla disarmonia nasce l'armonia dove l'immaginazione colla sua incapacità di afferrare l'infinito, e la ragione colle sue infinite idee si trovano entrambe d'accordo. Ne sia di esempio questo tra gli altri. Io vedo una sterminata pianura, o il mare, o altra simile rappresentazione: io non posso andare più in là di certi confini, e cerco di supplirli coll'immaginazione sforzandomi di rappresentare in un'immagine l'infinito che dall'intuizione sensibile mi viene soltanto accennato. Per quanti sforzi però io potessi fare, non mi riesce mai di trovare questa immagine corrispondente all'infinito, ed intanto la ragione fermamente mi dice che l'infinito ci sia e che io debba tendere a coglierlo. In tal posizione nasce in me un conflitto, o piuttosto una specie di altalena e di oscillazione, per cui lo spirito or s'accosta all'infinito, ed or se ne allontana. Vi si accosta colla ragione che s'intende fatta per lui: se ne allontana colla immaginazione che si trova impotente di esibirlo in una forma. Il sublime dunque non è che per lo spirito: nessun obbietto si potrebbe con proprietà chiamare tale, perchè nessuno può contenere veramente l'infinito. L'oggetto non può servire ad altro che a svegliare come occasione il sentimento del sublime nello spirito. Si vede dunque che il sublime partecipa delle due facoltà dal cui conflitto deriva.
Dalla diversa natura della intuizione sensibile che porge occasione al sublime, Kant lo distingue in sublime matematico ed in dinamico, secondo che l'intuizione si fonda o sullo spazio e sul tempo soltanto, ovvero rappresenta una forza messa in azione.
Tale per sommi capi è la dottrina di Kant sul bello e sul sublime. Rimane ad accennare un'altra cosa, ed è la corrispondenza tra la teoria del bello e la teoria della vita, perchè Kant distinse la teoria del giudizio in due parti, in quella del giudizio estetico, che tratta del bello, e nell'altra del giudizio teleologico, che tratta della vita.
La bellezza e la vita convengono insieme nell'essere entrambe un accordo di due elementi opposti, della necessità e della libertà; della necessità rappresentata dalla natura, e della libertà rappresentata dall'idea. Il bello concilia coll'accordo subbiettivo delle facoltà la varietà sensibile ed esterna coll'unità interna posta liberamente dalla fantasia. Il bello è dunque una finalità subbiettiva, e l'opera d'arte non ha un fine esterno e preesistente, ma un fine interno creato liberamente dall'artista.
La vita è anch'essa un accordo e una finalità in cui la materia sensibile si trova assoggettata alla nozione. Se non che questa nozione nella vita è obbiettiva, ed il suo fine è reale; onde mentre l'arte ha una finalità meramente subbiettiva, la vita ha una finalità obbiettiva e concreta. – La bellezza e la vita sono dunque per Kant due conciliazioni degli opposti, del mondo della necessità e del mondo della libertà, eseguite in maniera differente. – Nella teoria kantiana si comincia ad intravvedere il vero punto di vista sotto cui si deve considerare la bellezza. Essa non è più la sola idea astratta e senza forma sensibile come era in Platone; ma invece è il libero accordo dell'idea col sensibile. E la teoria di Kant sarebbe stata perfetta se l'accordo invece di essere fatto dallo spirito subbiettivo fosse stato fatto dallo spirito assoluto. Siccome l'idea per propria ed intrinseca attività tende a realizzarsi nella natura come vita, così parimenti tende a darsi una forma naturale, ma indipendente nello spirito come arte. Non è la natura delle nostre facoltà che produce l'arte, ma è la natura dell'idea che produce e le nostre facoltà e l'arte. Perciò la teoria kantiana, benchè abbia indovinato il segreto accordo che contiene l'arte, è rimasta imperfetta per avere ristretto questo accordo nella sfera troppo angusta del subbietto. Eliminando questo errore che vizia ancora tutte le altre parti del sistema kantiano, la sua teoria sull'arte è uno dei monumenti più belli dello spirito speculativo.
Schelling ed Hegel che sono venuti dopo di Kant, hanno ricavato profitto dalle antecedenti investigazioni, e posta la teoria dell'arte nel vero aspetto filosofico. – Prima di tutto è da notare come essi abbiano ritenuto il principio kantiano della corrispondenza tra la bellezza e la vita. Ecco su tal proposito come scrive Schelling.
«Certamente io tengo sopra questo punto, che la bellezza, la quale è soltanto l'esterna espressione dell'organica perfezione, sia il più assoluto perfezionamento che una cosa possa avere, perchè ogni altra perfezione di cosa viene apprezzata secondo la conformità sua ad uno scopo esterno. Ma la bellezza considerata semplicemente in sè stessa e senza nessun rapporto ad una esterna relazione, ella è ciò che è.» 3
Anche secondo Schelling, come si rileva dal luogo citato, ivi risiede la bellezza ove la nozione si manifesta come compiuto organismo, come si avvera nella vita. Perciò noi abbiamo detto antecedentemente, parlando del bello nella natura, che nelle produzioni animate comincia a trasparire la vera bellezza, e che il resto della natura intanto si dice bello, in quanto si riferisce all'anima, e mostra come un riflesso esteriore de' suoi sentimenti.
Schelling facendo consistere la bellezza nell'unità della nozione colla intuizione, ed essendo questa unità nel suo sistema anche il principio supremo della scienza, par che miri ad identificare bellezza e verità. Anzi questo divisamento si rileva da tutto quanto dice nel dialogo sul Bruno. Questa medesimezza che nel fondo è verissima non può ritenersi in tutta la sua estensione, perchè se alla verità basta la sola nozione logica, e se dalla scienza viene esclusa ogni particolarità sensibile, non è così per la bellezza, dalla quale escludendo la forma sensibile, si viene a distruggere tutta la sua essenza. Da qui nasce quel parlare continuo di una bellezza divina che si riferisce all'idea archetipa e quel linguaggio che ricorda la dottrina di Platone. È ben vero che per Schelling l'idea non è mai scompagnata dall'intuizione, come era per Platone, ma l'intuizione di Schelling non è abbastanza definita e talvolta pare essere soltanto intellettuale, tal'altra pare riferirsi a qualche cosa di sensibile. Dal che si vede ancora la ragione per la quale Platone si sdegna contro l'arte, che veste di apparenze menzognere l'idea, mentre Schelling, dando nell'estremo opposto, identifica l'arte colla scienza. Stando alla verità delle cose noi troviamo esagerata l'una e l'altra opinione. La forma sensibile di cui si riveste l'idea nell'opera d'arte non è una menzogna come crede Platone; ma invece è una manifestazione assai più perfetta ed assai più indipendente di quello che fosse la manifestazione naturale. Che se Platone crede uno scadimento la natura, ed una menzogna l'arte, ciò nasce dall'avere troppo esagerato l'importanza dell'idea, ed a forza di esagerarla giunge a ridurla una vuota astrazione.
Schelling invece, nell'immedesimare la verità e la bellezza, confonde il contenuto colla forma, confonde l'idea colla sua manifestazione, e perciò non distingue abbastanza l'arte dalla scienza, onde arriva a dire che la filosofia e la poesia sono una medesima cosa. E quanto al loro contenuto dice benissimo, ma non in quanto alla forma, perchè la scienza è l'idea nella sua propria forma ideale, mentre l'arte è l'idea nella forma sensibile.
Questa distinzione è stata fatta accuratamente da Hegel, il quale avendo modificato il principio di Schelling ed avendo sostituito alla filosofia dell'identità il processo dialettico, ha potuto correggere ancora molte conseguenze non abbastanza esatte. L'intuizione, la quale per Schelling è immediatamente unificata colla nozione, per Hegel al contrario è considerata come una manifestazione posteriore allo sviluppo logico della nozione in sè. Onde mentre la scienza si compisce colla pura nozione, la natura e l'arte richieggono ancora la intuizione.
Abbiamo insistito su questo divario tra Schelling ed Hegel a proposito dell'arte, non solo per far vedere lo sviluppo speculativo di essa, ma ancora per mostrare come la differenza dei corollari nei grandi sistemi ci rimena sempre ai supremi principî.
L'arte dunque tende sempre all'attuazione perfetta dell'ideale; e l'ideale non è che l'idea compiuta in sè, e corrispondente ad una libera forma sensibile. Per comprendere poi quale sia il vero ideale artistico bisogna sapere qual sia la vera idea compiuta. Ora noi sappiamo che sebbene l'idea incominci a raccogliersi come totalità nella vita, nulladimeno non si compie in sè, e non si integra come organismo indipendente se non nello spirito. Perciò il vero ideale dell'arte è lo spirito.
Ma lo spirito non alberga che nell'uomo, e l'uomo anche come animale, sovrasta a tutti gli altri, essendo così fatto da manifestare più trasparentemente lo spirito interno che lo vivifica. Il corpo umano considerato dal lato delle sue membra è meno avvolto nella materia e più trasparente che non sia quello di ogni altro animale.
Lo spirito in quanto si completizza in un organismo e diviene individuo, è circondato dalla particolarità, sottoposto alle leggi fatali della natura, stimolato da mille bisogni, turbato da passioni particolari e violente, legato, in una parola, con tutto l'insieme della natura ove egli si trova confuso e travolto come un atomo. Ufficio dell'arte è di liberare questo individuo da quella sfera ove si trova imprigionato, e di sollevarlo verso la serena regione dell'ideale dove non si trova turbamento di sorta, senza però fargli perdere quell'individualità, tolta la quale, sparirebbe del tutto.
Gl'individui che popolano il mondo fantastico dell'arte, creazioni della fantasia estetica, debbono vivere anch'essi e muoversi ed operare, ma senza risentire gl'incomodi e le angustie ed i limiti della vita naturale. Lo spirito se da una parte si trova vincolato dalla necessità naturale, in quanto è rivestito da un organismo vivente, dall'altra si trova vincolato da una necessità di una specie superiore, in quanto è sottoposto alla legge. L'individuo umano fa parte di un sistema tanto come organismo animale, quanto come spirito individuale. Ogni individuo vive nello Stato, ed in questa relazione egli si trova vincolato dalla necessità della legge. Ora se l'ideale dell'arte deve essere indipendente, l'individuo artistico deve essere sciolto, non solo dai vincoli della necessità naturale, ma altresì da quelli della necessità giuridica. L'individuo sottoposto alla legge non è più compiuto in sè, ma ha la ragione di essere e la finalità nella legge medesima: lo spirito subbiettivo è sottoposto allo spirito obbiettivo, il cittadino allo Stato. L'uomo in questa condizione ricade nella presa della vita giuridica, nell'urto degli interessi, dei dritti e dei doveri. Per essere ricondotto all'ideale artistico bisogna che la sua libertà sia legge a sè stessa e che non abbia a riconoscere una legge esteriore ed obbiettiva. Quindi si vede perchè tutti i tipi artistici anche quando sono rappresentati come sottomessi ad una legge, godono però tanta indipendenza, che la legge non è un freno, nè un ostacolo alla loro libera azione. Si trova un esempio di questa indipendenza dirimpetto alla società principalmente nei tipi dell'età eroica, ed in quelli della Cavalleria del medio-evo, che a buon dritto si può chiamare l'età eroica dei tempi moderni.
Se l'uomo fosse rappresentato come esatto esecutore delle leggi dello Stato, con una somessione a tutta prova, e senza iniziativa propria, sarebbe questo un modello dell'uomo giusto, del buon cittadino, ma non un tipo artistico. Noi ammiriamo il tipo artistico in Ercole, o anche in Achille e in Orlando; ma dove si troverebbe la legge esterna a cui obbediscono? Tutti questi operano di loro piena libertà, e perciò lo spirito individuale si può rivelare in conformità dello spirito universale, ma senza esservi estrinsecamente costretti. Conchiudiamo dunque che l'ideale dell'arte deve rivelare lo spirito libero e perfettamente indipendente tanto dalla necessità della natura quanto dalla necessità della legge; ed è perciò che l'antichità pare sempre più poetica dell'età moderna, perchè nel corso dei secoli gli accidenti che circoscrivono una persona o un'azione a poco a poco si vanno dileguando, e l'artista rimane libero di darvi quel contorno che più gli talenta. Vi è ancora un'altra ragione, ed è che l'età remota era meno assettata e costretta dalla necessità giuridica, gli ordini sociali vi erano meno fissi, e perciò l'individuo vi godeva più libertà, e poteva usare maggiore indipendenza, che non possa fare nell'età moderna, dove tutto è composto con rigida disposizione, e prescritto da invariabili leggi. Onde se si vuole elevare fino all'ideale dell'arte un personaggio o un avvenimento recente, si richiede più grande sforzo d'ingegno per allontanarne tutto ciò che lo rende prosastico.