IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
L'arte e la religione sono i due primi gradi pei quali lo spirito, cominciando a rifare la natura sensibile e se stesso, si eleva dalla prima forma materiale fino al sentimento religioso. Questo sentimento che ha per contenuto l'identità dello spirito subbiettivo collo spirito assoluto, si trova però in una forma particolare, essendo che la coscienza appartiene esclusivamente all'individuo. Si tratta dunque di rivestire il contenuto universale della coscienza religiosa di una forma che gli sia adeguata e che perciò sia parimenti universale. Ciò che si crede ha un'unità per così dire obbiettiva, e l'accordo sta nella cosa creduta; ma l'atto del credere è proprio di ciascun soggetto e per conseguenza l'universalità del sentimento religioso contiene un lato universale, ed un altro lato subbiettivo e particolare. La scienza invece è l'equazione perfetta di questi due lati; è un contenuto universale in una forma universale. Così la religione, spogliandosi di quell'ultima reliquia di particolarità che implica il sentimento religioso, si risolve nella scienza.
Tale è il legame che stringe insieme queste tre maravigliose produzioni dello spirito umano, che l'arte ritraendosi dalle forme esteriori e concentrandosi nella coscienza dà luogo alla religione, e la religione dispogliandosi del sentimento ed assumendo una forma universale cede il posto alla scienza. Ognuna di queste produzioni serve di coronamento alla precedente ed insieme l'annulla.
La scienza è la vera forma dello spirito assoluto, quella che lo libera da ogni particolare determinazione, e lo fa rientrare pienamente in sè stesso. La scienza non appartiene più all'individuo non solo, ma non ritiene nulla d'individuale; laddove nell'arte e nella religione ne deve sempre rimanere qualche traccia. La natura dello spirito assoluto, che si rivela in una forma immediata nell'arte e nella religione, si media, e perciò si riconosce distintamente nella scienza.
Ed infatti lo spirito assoluto è un progresso che si compie in sè stesso e che si mostra come principio, mezzo, e fine di sè. La sua forma proporzionata non può dunque essere altro, che quella che lo manifesta in questa triplice relazione. Tale forma è il sillogismo il quale nel suo movimento logico compendia ed esprime il movimento assoluto dell'idea, la quale nella maggiore apparisce principio, nella minore mezzo, nella conseguenza fine. E poichè il sillogismo non è che un solo, perciò l'idea in esso si mostra come mediatrice di sè stessa.
Nell'arte e nella religione lo spirito apparisce soltanto come risultato, come tale viene manifestato immediatamente dall'imagine fantastica, o dal sentimento religioso. Ma lo spirito assoluto nell'arte e nella religione si presenta come formato nell'ideale artistico, o nell'ideale religioso: nella scienza si mostra nell'attuale processo con cui forma sè stesso; di modo che quella esteriorità che accompagna l'arte e la religione sparisce di necessità nella scienza, dove il solo produttore è lo spirito.
Di qui si vede che la forma scientifica non può essere altra che il sillogismo, perchè questo solo esprime nella forma il processo medesimo del contenuto. Lo Schelling il quale pose come organo della scienza l'intuizione intellettuale, non si accorse che questa la quale poteva afferrare tutt'al più la identità degli opposti, non era però sufficiente a cogliere insieme il processo della generazione dei contrari. Ora la vera identità non è quella che si presuppone e che s'intuisce, ma quella che risulta dall'accordo dialettico dei contrarii e che si costruisce. L'intuizione di Schelling differisce poco dalla fede dell'Jacobi e perciò tende molto a confondere la religione colla scienza. E noi abbiamo fatto osservare questa medesima confusione a riguardo dell'arte. Che cosa fa la differenza della religione e della scienza? Non certo il contenuto, il quale in entrambi è l'identità degli opposti: la differenza sta nella forma, perchè ciò che nella religione si crede semplicemente e si sente, nella scienza si prova e si costruisce. Ora se si fa consistere la scienza nella semplice visione come fa Schelling, o nella fede come fa Jacobi, allora ogni differenza fra religione e scienza rimane annullata. Altri poi hanno distinte due forme della scienza, l'una intuitiva, l'altra riflessiva e sillogistica, ed hanno anteposto la prima alla seconda, tanto da credere che la scienza divina fosse intuitiva e l'umana discorsiva per via di sillogismi. Questo divario di forma si ricongiunge con un altro divario ben più sostanziale, cioè con quello del contenuto scientifico. Secondo l'opinione di costoro, Dio non solo conosce intuitivamente, ma egli sa le vere ragioni delle cose, e la sua scienza penetra nelle intime essenze. L'uomo invece conosce difettivamente e deve perciò discorrere da un termine all'altro e poi in risultato non ne ricava che la cognizione delle apparenze, senza potersi addentrare più avanti.
Questa teoria, come si può facilmente rilevare, ammettendo una tale specie di antagonismo tra la scienza divina e l'umana sì nella forma come nel contenuto, non può fare a meno di menare allo scetticismo. Imperocchè quando si dice che vi sono due scienze si deve ritenere che una soltanto sia la vera, essendosi ammesso che l'una differisce dall'altra. E se una delle due soltanto è vera, quale delle due sarà quella più fortunata? Se a questa domanda non si può rispondere, lo scetticismo diviene inevitabile; che se poi si replica che la vera sia la divina, allora si va incontro ad un nuovo ed insormontabile inconveniente. La scienza divina è appresa per mezzo della umana; e se l'umana è difettosa e superficiale, chi vi assicura che essa in questo caso abbia bene approfondita la natura della scienza divina? Sono questi dei circoli viziosi dai quali non si può escire a nessun patto, e che nascono dal pregiudizio volgare di voler creare un antagonismo che non esiste opponendo le idee divine alle umane, la scienza divina all'umana, la verità divina alla verità umana, come se si potessero dare idee, scienza, e verità di più maniere.
Fa meraviglia il vedere come quel grande ingegno del Gioberti sia caduto anch'egli in questa opposizione lasciata in eredità dalla scuola teologica che soleva parlare più della scienza divina che dell'umana, come se quella fosse più conosciuta di questa. Il Gioberti però cercò di mitigare quell'antagonismo, ed introdurre nello spirito umano anche la scienza divina. Se la riflessione si può chiamare riproduttrice e genera la scienza propriamente umana; l'intuito per contrario si affissa direttamente in Dio e coglie nell'atto creativo la ragione di tutte cose. L'intuito così è parte divino e parte umano e serve a conciliare la nostra scienza con quella di Dio, cogliendo le idee divine e presentandole nella coscienza riflessa allo spirito umano. L'intuito forma perciò nel sistema di Gioberti quel punto incerto intorno a cui egli oscilla sempre, mutando spesso di opinione, e facendolo ora creato da Dio ed ora invece erompente dal fondo medesimo dello spirito.
I suoi seguaci per lo più inclinano a ritenere l'intuito come obiettivo, cioè come prodotto da Dio che n'è l'obbietto in quanto si affaccia allo spirito. Sarebbe come una specie di irraggiamento esteriore fornito di tal potenza da creare la vista in quello in cui si riflette. Che la scienza possa nascere così per un influsso esterno è ciò che non si può comprendere, e che nessuna similitudine al mondo potrà spiegare.
Il contenuto della scienza non può essere altro che la totalità del processo mediante il quale lo spirito assoluto arriva a riconoscersi come tale. E poichè i momenti essenziali di questo sviluppo sono la nozione o il principio assoluto, la natura o il mezzo attraverso del quale la nozione deve passare per ritornare in se stessa; e lo spirito o il fine dove la nozione e la natura vanno a radunarsi come nel loro ultimo risultamento; la logica dunque, la scienza della natura, e quella dello spirito costituiscono tutta la sfera dell'umano sapere, e fuori di queste, ed al di là di queste non si ha altra scienza possibile.
La scienza inoltre è universale e necessaria, talmente che per quante mutazioni si potessero concepire nella natura di questi oggetti essa null'ostante rimarrebbe invariabilmente la stessa. In questo senso io scriveva nei Filosofemi cosi: «la scienza non è particolare al mondo nostro, ma si estende al difuori di esso; e quando anche sparisse l'attuale nostro mondo, non sparirebbe nè cesserebbe la scienza, che è permanente, eterna ed universale, perchè è la rivelazione di Dio nelle cose.» 15
Per questa rivelazione di Dio nelle cose, che fu indovinata fino dai primordi della filosofia, greca come apparisce dal Noo di Anassagora, si è resa possibile una scienza della natura, e di tutti i fatti contingenti in generale. Se dentro al fenomeno transitorio non fossimo certi di rinvenire una ragione stabile e necessaria, noi non potremmo giammai avere una scienza dei fenomeni. La rivelazione di questa occulta ragione è appunto tutto il magistero della scienza. Il resto potrà essere una descrizione più meno esatta, una classificazione più o meno simmetrica e regolare, ma non mai una scienza.
Bisogna intanto nella scienza medesima distinguerne una la quale s'immedesima col suo proprio obbietto, ed un'altra che trova l'oggetto come dato dal di fuori e vi si travaglia attorno per ricongiungerlo con tutto l'insieme del processo ideale.
Tutte le scienze che si dicono naturali trovano l'obbietto esistente nella natura, ed esse si sforzano di ricondurlo alla sua idea. Questo lavoro però è inconscio, perchè il processo dello spirito rimane esteriore all'obbietto, come un abito di cui lo spirito riveste la esterna natura. Da qui nasce che i naturalisti credano sostanziale l'oggetto della natura ed accidentale la veste scientifica che lo spirito gli appone. In realtà la cosa va tutto al contrario. L'oggetto naturale in sè stesso, separato dall'universale sistema, non ha significato, è un semplice trastullo; ed il suo valore deriva dal trovarsi connesso con tutto l'insieme dell'universo. Ora questa connessione dello insieme è appunto ciò che viene espresso dalla forma scientifica; onde la forma scientifica esprime il vero fondo sostanzioso dell'obbietto, mentre la sua naturale esistenza non è che il lato accidentale.
Che se il processo scientifico apparisce esteriore all'obbietto, ciò nasce perchè nella natura il pensiero si trova ancora in una forma che non è ancora la sua propria forma. La natura esiste in una indipendenza dallo spirito perchè ancora questi non si è riconosciuto come autore della natura. La scienza che egli ha della natura non è dunque ancora l'assoluta scienza, perchè il sapere, come direbbe il Vico, non si converte ancora col fare.
Nella filosofia dello spirito si verifica precisamente questa conversione: lo spirito è ciò che egli medesimo si fa: i gradi del suo sviluppo sono le sue medesime funzioni: il soggetto che conosce e l'obbietto conosciuto sono tutt'uno.
L'illustre Conte Mamiani tra le altre cause delle difficoltà che hanno le scienze filosofiche, e che egli annovera, fa rilevare principalmente questa, che il pensiero essendo insieme strumento della scienza ed oggetto di essa, si dà luogo ad uno scambio assai facile tra l'uno e l'altro. Ma in ciò consiste l'eccellenza delle scienze filosofiche, che esse non si trovano costrette a presupporre i loro obbietti e ad accettarli dal di fuora; ed al contrario lo spirito nel ripiegarsi sopra se stesso trova l'obbietto più proprio alle sue conoscenze. Il pensiero è qui consapevole del suo lavoro, perchè in questo riflettersi sopra di sè consiste la scienza; è conscio di se medesimo, e perciò la scienza è assoluta. Il pensiero fa tutto e sa tutto; è istrumento subiettivo ed è insieme realtà obbiettiva.
Ma affinchè il pensiero fosse capace di ripiegarsi sopra di sè distinguendosi dal soggetto e dall'oggetto, e concentrandosi in quella pura attività che genera l'uno e l'altro, è mestieri che egli possa fissarsi in questa fecondissima relazione e che perciò possa essere studiato in se stesso. Senza il modo di concepire l'atto del pensare in sè la scienza speculativa non sarebbe possibile. Questo modo di poter fissare il pensiero, sceverandolo da tutti gli accidenti e da tutte le determinazioni che appartengono o al soggetto pensante o all'obbietto pensato, è appunto il Verbo.
Il verbo è una particolare determinazione della parola, anzi è la più essenziale, esprimendo la relazione profonda e intima che lega le altre parole. A formarsene un'idea chiara bisogna conoscere che cosa sia la parola in generale. Noi ne abbiamo detto qualche cosa nel Saggio di Psicologia, perciò per non ripetere le cose già dette ci atterremo soltanto ad accennare quanto serve al nostro proposito. La parola è la prima astrazione che si fa dalla particolarità dell'oggetto sensibile. Essa non è legata a questo dato oggetto ma sorvolando sopra i limiti che circoscrivono il particolare sensibile lo rappresenta in una immagine che gli è comune con tutti gli altri che appartengono allo stesso genere fantastico. Così mediante le parole vengono classificati gli oggetti sensibili e le loro qualità. Ma l'azione e la relazione che passa tra un soggetto ed un oggetto in questa prima classificazione rimane confusa o coll'uno o coll'altro. Per fissare la pura azione come rapporto che tramezza tra i suoi termini, si richiede un'astrazione e perciò uno sviluppo maggiore ed un progresso più visibile verso lo schietto universale. Così, a modo di esempio, quando io dico la parola Amore fisso con questa parola una qualità del mio animo. Quando poi dico Amare, io non considero più la qualità ma l'azione; io esprimo questa azione come sussistente per sè, e perciò come indipendente dal mio subbietto. – Da tutto ciò si può argomentare che tra le lingue evvi una gerarchia di parole; e che sebbene tutte le parole esprimono un'astrazione dal particolare sensibile, nulladimeno alcune vi sono più legate, come i nomi delle cose e le loro qualità; altre meno come quelle che esprimono rapporti di pertinenza, di tempo, di luogo e via via; altre finalmente contengono la massima astrazione possibile, quella cioè di considerare l'azione in sè stessa, e non già come una semplice qualità che si trova in un soggetto.
Non tutte le lingue sono capaci di esprimere tutti questi gradi differenti di astrazioni, anzi il verbo non si trova che nelle lingue più sviluppate e più idonee ad esprimere le fine gradazioni del pensiero. Le lingue rudimentali, quanto sono ricche in parole che significano le cose e le loro qualità, tanto sono impotenti a manifestare le loro relazioni e specialmente quella grandissima e profondissima contrassegnata dal verbo.
Il Max Müller e con lui i più accreditati filologi classificano tutte le lingue attualmente parlate nel mondo in tre vasti gruppi e famiglie designate col nome di lingue turaniche, lingue semitiche e lingue ariane. Nelle turaniche16 il verbo manca del tutto, ed i popoli che le parlano vi suppliscono o colla posizione delle parole o con nomi che esprimono qualità.
Nelle semitiche e nelle ariane il verbo vi si trova ma però non nel medesimo grado di sviluppo, talchè a rigor di termine si può ritenere che il verbo puro, e liberato da tutte le determinazioni proprie del nome, non si trova che nelle sole lingue ariane.
Da questa causa il Prof. Lignana da noi citato un'altra volta, inferiva che la sola razza ariana fosse capace di avere una filosofia; e non ha guari il Bonghi osservava che i popoli le cui lingue sono prive del verbo non sono potute pervenire a formare nè lo Stato nè l'Epopea, che rappresentano il pensiero e l'esistenza obbiettiva. Onde mettendo assieme le riferite osservazioni dei prelodati Professori possiamo conchiudere, che dove il pensiero non arriva a svincolarsi dalla esteriorità dell'obbietto ed a riposare in sè stesso come in obbietto vero e proprio, ivi non sono possibili le più potenti produzioni dell'arte e della scienza nè il più saldo vincolo che stringesse gli uomini in società.
La lingua contiene in sè la storia dell'umano pensiero, e chi sa vedere ben addentro nelle trasformazioni della parola, può in essa leggere la trasformazione progressiva dello spirito. Tanto è vero ciò che mi scriveva una volta l'illustre Barone Bunsen, che la filologia ha verso la filosofia lo stesso rapporto che la paleontologia ha verso la scienza della vita. Le parole contengono la filosofia rudimentale, ed i recenti studi su la filologia comparata ci provano chiaramente che le lingue hanno uno sviluppo, e che questo sviluppo procede secondo le leggi medesime con cui si sviluppa il pensiero; perocchè la parola è il pensiero inviluppato e quasi nascosto in un suono.
Il Max Müller distingue nella formazione di ogni linguaggio tre periodi, dei quali alcune lingue si sono fermate al primo, alcune altre al secondo e infine alcune altre hanno raggiunto il terzo.
Il primo passo di ogni lingua, come se ne vede un esempio vivente nella lingua chinese e siamese, come incomincia ha le sole radici senza nessuna modificazione; talchè ogni radice è una parola monosillaba. Queste lingue perciò sono chiamate monosillabiche e corrispondono a quello stato dello spirito in cui le rappresentazioni esistono nello stato di isolamento e non hanno mutuo legame.
Il secondo stato comincia ad esprimere ancora una certa relazione, che lega insieme queste sparpagliate rappresentazioni; e poichè questo legame non è intimo, si esprime pure nelle parole con una fusione tutta esterna, che si suole chiamare agglutinazione. Le lingue pervenute a questo grado si dicono agglutinative.
Finalmente questa relazione può diventare più profonda, ed esprimere il processo, l'azione reciproca delle cose; ed allora la parola medesima acquista un certo movimento, un certo sviluppo per il quale la radice non rimane più inerte ed isolata come nel primo grado, nè tampoco si addossa ad un'altra radice come nel secondo, ma genera delle modificazioni che sono come l'espressione della sua fecondità e della sua concretezza. Questo movimento interiore della parola si chiama flessione nella doppia forma di declinazione e di coniugazione.
Da questo breve cenno sull'intrinseco valore delle lingue si può rilevare che il loro sviluppo corre parallelo collo sviluppo del pensiero; perchè ivi si può rappresentare l'organismo sistematico del pensiero dove la parola si trova di avere anche essa raggiunto il suo organismo. La scienza speculativa non è possibile se non per l'istrumento delle lingue ariane che son le più perfette tra le lingue a flessione.
Conchiudiamo dunque questo discorso intorno alla scienza facendo riflettere sui punti più importanti del nostro ragionare che a parer nostro sono questi tre. Primo, che il contenuto vero della scienza è l'identità dell'ideale e del reale: la coscienza che lo spirito assoluto sia l'autore di tutte quante le cose. Secondo, che la forma della scienza sia il sillogismo, il quale solo esprime il processo o la mediazione dello spirito. Terzo infine, che lo strumento indispensabile della scienza si trova in quelle lingue che per la loro sviluppata flessione sono capaci di esprimere l'organismo della forma interna della scienza, cioè del sillogismo; giacchè la flessione nella lingua è ciò che nel pensiero è il sillogismo.
Le lingue semitiche si suddividono in tre branche principali che sono l'aramea, l'ebraica e l'araba.
Le lingue ariane abbracciano sette branche principali, le quali poi si suddividono anch'esse in altri linguaggi.
Le principali sono la branca teutonica, l'italica, l'ellenica, la celtica, la slava, l'indiana e l'iranica.