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Se finora abbiamo discorso delle forme principali, nelle quali lo spirito riduce ad universalità il reale, ora, per compiere la serie delle sue produzioni, è necessario sviluppare il processo inverso secondo il quale egli concretizza la sua idealità.
Lo spirito è un distinguersi dalla natura, e cotesta distinzione forma la sua subbiettività posta di rincontro all'obbiettività delle cose naturali. Ma egli non solo è un subbietto, perchè a tal riguardo anche un animale potrebbe dirsi tale, egli è di più fornito di consapevolezza; ed un subbietto consapevole si dice persona.
Lo spirito come persona è fine a se stesso: egli è per sè mentre le altre cose prive di personalità sono per un'altra. Nel trovarsi dunque lo spirito dirimpetto alla natura si ha da una parte una finalità compiuta in sè, dall'altra le cose naturali mancanti di finalità in sè e perciò capaci di servire ad un fine posto fuori di loro. Lo spirito nel far servire alla realizzazione dei suoi fini la natura, se ne impadronisce e la fa sua.
Lo spirito come subbietto particolare è finito; ma come subbietto consapevole è infinito, ed è infinito perchè la coscienza implicando un ritorno sopra di sè, si conchiude e si compisce in se stessa come un circolo. Questa circolarità dello spirito è la sua vera intimità. La persona dunque contiene in sè una contradizione, essendo finita ed infinita, finita come soggetto, infinita come consciente. Egli cerca di risolvere questa contradizione e di uscire dalla sua subbiettività particolare rompendo i limiti del soggetto ed impadronendosi anche dell'obbietto. Se lo spirito non fosse anche infinito, egli non sentirebbe la necessità di obiettivarsi cioè di trasferirsi dal soggetto nell'obbietto. Lo spirito fa, per così dire, questo trasferimento, perchè oltre all'essere subbietto è ancora ragione universale.
L'animale, il quale è soltanto subbietto, può bensì col processo pratico servirsi degli oggetti naturali, ma egli non può improntare in essi quel carattere di universalità per lo quale le cose diventano proprietà, perchè esso non è una persona, esso non è ragione. Ora la proprietà è l'estendere la nostra personalità alle cose: l'io trasferito alla cosa la fa diventare mia; ma questa estensione e questo trasferimento sono possibili soltanto colà ove l'io e la cosa son compresi entrambi sotto un termine comune, quale è la volontà libera.
L'idea della proprietà discende adunque dal concetto di persona e dalla necessità che ha questa di rendersi concreta, mediante l'essere determinato e particolare della natura. Tutte le spiegazioni che si sono date dalla più parte dei giuristi sull'origine della proprietà hanno avuto di mira la sua origine storica, il quando ed il come la proprietà sia cominciata, non già la sua origine logica, cioè il perchè essa sia cominciata. Si è chiesto se l'occupazione primitiva, o il lavoro, o un patto posteriore abbia sanzionato la prima volta il diritto di proprietà, senza badare che tutte queste esterne significazioni presuppongono il dritto medesimo di proprietà; e che un animale il quale occupi un luogo e che anche vi lavori, non per questo si dirà mai esserne il proprietario.
Il fatto non è mai il dritto benchè esso sia la condizione indispensabile della manifestazione del dritto.
Il dritto di proprietà costa di due termini, della persona e della cosa, e della relazione che passa fra questi due termini ed in virtù della quale la persona vuole la cosa. È la volontà soltanto quella che costituisce sola il fondamento della proprietà. Si può sentire una cosa, si può desiderarla, si può occuparla; non pertanto non si dirà mai che quella cosa sia divenuta nostra, se ancora non si è voluta. E ciò è ragionevole e legittimo perchè le altre facoltà ci appartengono come a semplice particolare soggetto, laddove la volontà esprime la nostra universale e razionale essenza.
Il possesso è un segno al quale le altre persone possono riconoscere che una cosa è già divenuta proprietà di un'altra persona e che perciò non può diventare propria di alcun'altra; ma questo segno non appartiene all'essenza del dritto ed è soltanto la sua esteriore manifestazione. Da ciò deriva che il possesso preso una volta perdura sempre, perchè si riferisce all'atto della volontà il quale è permanente, come è permanente tutto ciò che è razionale. Se la proprietà consistesse nel sensibile ed attuale possesso, cessato questo, cesserebbe quella. Perciò Kant distingueva con molta avvedutezza il possesso transitorio e sensibile dal possesso permanente e intelligibile.
L'altro termine della proprietà, o il termine oggettivo, è la cosa. La persona non potrebbe mai diventare propria di un'altra persona: ciò ripugnerebbe alla nozione della personalità, che noi abbiamo non ha guari sviluppata. Il diritto di proprietà si riferisce sempre ad una cosa, e non mai ad una persona. La distinzione di diritti impersonali e reali, la quale è comune presso i giuristi, ed è stata adottata anche dal Kant, non è esatta. Quando anche si dice di avere dritto verso una persona, s'intende sempre che questo dritto si riferisca non alla persona, ma a qualche cosa che la persona debba dare o fare.
Kant ritenne questa divisione dei dritti, perchè egli volle dedurla dalla determinazione astratta delle categorie di sostanza, di causa e di reciprocità di azione. Egli però chiamò dritti reali quelli che hanno per termine esterno una sostanza; dritti personali quelli che si riferiscono ad una causa, e finalmente dritti misti o reali e personali insieme quelli che si riferiscono ad una persona considerata anche come cosa.
Secondo questo criterio Kant ammise confusamente insieme tanto il dritto di proprietà, che ricavò dalla prima categoria di sostanza, quanto i dritti derivanti dai contratti dedotti dalla categoria di causa, quanto finalmente i dritti relativi alla famiglia, che ricavò dalla categoria di reciprocità di azione. Il difetto del Kantismo è sempre lo stesso in tutte le sue applicazioni e consiste nel formalismo delle sue categorie e nel prescindere che fa dal valore del contenuto reale di queste forme. Così nel caso nostro, la persona si può ella considerare come una semplice causa? Non abbiamo veduto noi il complesso di tutti gli elementi che si richieggono a costituire la personalità? Certo che la persona è anche una causa ma è di più un subbietto, una volontà libera, una coscienza: si possono dunque trascurare questi altri elementi? Si può considerare la persona come una causa soltanto? L'inconveniente di siffatta considerazione incompleta e formale risalta chiaramente quando si vede che la persona, la quale è obbligata verso ad un'altra persona può astenersi di adempire la obbligazione, talchè il preteso dritto personale si risolve nel dritto reale. Ma ciò apparirà meglio quando vedremo in che consiste il contratto.
Vediamo ora se la famiglia si può dedurre dalla categoria di reciprocità d'azione. Kant ha detto: una persona non può servirsi di un'altra persona perchè la persona non può essere mai mezzo. Pur nondimeno se una persona si serve di un'altra, e quest'altra vicendevolmente si serve della prima, allora la dignità della persona non è menomata, perchè essa riacquista in ricambio tanto quanto perde. Da questa categoria di reciprocità Kant deduce il matrimonio che è il fondamento della famiglia.
Ma anche qui Kant trascura il contenuto delle categorie, per non considerare che la sola forma, e per ciò confonde la famiglia colla proprietà, mentre queste due specie di diritti appartengono a due sfere diverse. Imperocchè nella proprietà la persona si concretizza nel mondo esterno, cercando di porre se stessa nella cosa. La cosa però non può essere capace di contenere l'universalità della ragione; questo primo grado di concretezza non può bastare allo spirito. Niuno al mondo si contenterebbe di essere soltanto proprietario.
La persona cerca perciò di realizzarsi in un'altra persona. L'amore è questa contradizione per la quale la persona nega se stessa per un'altra persona. Il vincolo che annoda due persone è l'amore, non la sterile reciprocità di azione della categoria kantiana. Questa tutt'al più può spiegare il circolo dei mezzi e dei fini che s'intrecciano insieme a formare un organismo, ma non basterà mai a spiegare il contenuto vivente della famiglia. La persona che ama non cerca nella persona amata un mezzo per realizzare se stessa: ella si sente naturalmente unita con un'altra e questa unità non è l'effetto di un calcolo, ma è data immediatamente dalla natura.
La sfera della famiglia, considerata e nella relazione vicendevole dei genitori ed in quella che passa tra loro e la prole, è fondata tutta quanta sull'amore, su questa unità immediata dello spirito obbiettivo. Essa è assai ben distinta dalla pura sfera del dritto la quale si circoscrive nei limiti della proprietà. Questa confusione del dritto di famiglia e del dritto di proprietà si trova nell'antica legislazione romana dove il padre di famiglia era tenuto come padrone della moglie e dei figli e poteva disporre della loro vita e della loro sostanza, come un proprietario oggidì potrebbe fare delle cose sue. Questa strana confusione sorgente di molte barbare conseguenze nella vita pratica proveniva dalla mancanza del vero concetto di persona. La persona nel dritto romano non era riconosciuta come data dalla natura ma come formata dallo Stato.
Da questo medesimo principio derivava la sanzione della schiavitù. Ed era ben ragionevole, giacchè se la personalità era data dallo Stato poteva anche perdersi, e la perdita della personalità portava la schiavitù.
Oggigiorno la dignità della persona umana è stata riconosciuta nella sua vera nozione; talchè nè si può perdere nè si può menomare per nessun modo. L'uomo rimane sempre libertà infinita anche in mezzo ai ceppi ed alle catene.
Alcuni avrebbero voluto introdurre una distinzione negli elementi da cui risulta la persona umana, ed avrebbero preteso che lo spirito non può essere oggetto di proprietà altrui, ma che il corpo potrebbe esserlo benissimo. Questa distinzione, che si potrebbe piuttosto chiamare separazione della persona umana, non è sostenibile. Lo spirito può fare astrazione dal suo corpo e considerarlo come un altro nella sfera morale dove si tratta delle relazioni intrinseche della sua persona, ma non è così nella sfera del dritto. Egli riguardo agli altri è una persona, non come astratto spirito, ma bensì come esistente in un determinato corpo. Dunque la libertà ed il suo infinito valore, nella sfera del dritto, si comunica eziandio al corpo insieme al quale la libertà costituisce l'intera persona umana.
Circoscritta la sfera del dritto nei limiti della proprietà, ed esclusa dal suo dominio la personalità, continuiamo ora a svolgere le determinazioni ulteriori della proprietà, fin che queste non ci conducano ad una determinazione più concreta. Noi abbiamo veduto come il possesso non consistesse soltanto nella attuale detenzione della cosa; e come oltre a questo possesso sensibile, ve ne fosse un altro ideale ed intelligibile il quale dura mentre l'altro passa. Questo secondo possesso che corrisponde meglio del primo alla nozione di proprietà, deve essere ancora manifestato esteriormente modificando in modo stabile la natura della proprietà. Il possesso che adempie a questa condizione è il lavoro, il quale apponendo una nuova forma alla cosa naturale, manifesta per conseguenza la presenza della volontà umana e la sua reale attività nel mondo. Se l'occupazione dunque è la prima forma di possesso, con cui si manifesta in modo sensibile il dritto di proprietà; il lavoro è la seconda e più perfetta forma con cui quel dritto non solo apparisce verso la cosa, ma altresì la modifica nella sua natura.
La cosa non solo può essere occupata e modificata dalla persona, ma essendo priva di finalità propria, essa è destinata a servire ai fini della persona. Questo uso che noi abbiamo dritto di fare della cosa propria fino ad annullarne l'esistenza a nostro servigio, dimostra evidentemente che la cosa non ha consistenza e valore per sè, ma bensì per la persona. Senza di ciò noi non potremmo annullarla per servircene. L'uso mostra adunque, che la cosa non ha dirimpetto alla persona una pari consistenza, perchè essa può essere annullata nel suo essere determinato e la persona no. Con l'uso la proprietà finisce, e questa forma, in cui lo spirito aveva trasferito la sua personalità, si chiarisce sproporzionata alla universalità dello spirito, e per tale sproporzione si annulla.
La proprietà non ha ragione di essere che per l'uso. Le cose acquistano valore in quanto la persona se ne può servire pe' suoi fini. Di modo che le cose si stimano utili non per la loro particolare natura, ma per la determinazione generale dell'uso a cui possano servire. Così le particolari forme delle cose naturali spariscono nella indifferenza del concetto generale dell'utile. È per tale indifferenza che le cose più disparate possono essere ridotte ad una valutazione comune. Questa valutazione è il prezzo.
Ponendo un prezzo alle cose la persona mostra il dominio che ella ha sopra di loro, ed insieme l'indifferenza in cui si trovano le cose, per la quale indifferenza esse non valgono per quello che sono, ma per quello a cui servono, perciò i valori sono essenzialmente relativi dipendendo dal giudizio che l'uomo se ne fa.
Fino ad ora abbiamo veduto la proprietà come risultante da una relazione tra una volontà libera da una parte, ed una cosa dall'altra. La volontà libera in questo rapporto si trova come una particolare volontà verso ad una particolare cosa. Frattanto lo sviluppo della nozione del dritto porta che la volontà subbiettiva e particolare, che si realizza nella proprietà, possa procedere più avanti, per realizzarsi in ultimo come volontà universale. Ad avviarsi verso questo ultimo risultamento, bisogna prima passare per un termine intermedio, il quale è la volontà comune.
Quando due volontà s'identificano nel volere una medesima cosa, ma in modo che una volontà lasci la proprietà della cosa e l'altra l'acquisti, questo accordo costituisce il contratto. Il contratto suppone dunque due volontà libere in modo che costituiscano una volontà comune. La particolarità della volontà subbiettiva sparisce nella volontà comune, e la sfera del dritto si allarga, perchè da un rapporto semplice di una volontà colla cosa si passa al rapporto doppio di due volontà tra di loro e della volontà comune verso la cosa.
Ciò nullostante nel contratto la cosa rimane sempre come il termine obbiettivo dove convergono le volontà. Quindi non possono chiamarsi contratti quegli accordi tra le volontà che non hanno di mira una cosa. Non è un contratto il matrimonio, come pretendeva Kant, perchè le persone non possono essere considerate come le cose sotto l'aspetto del loro uso. Hegel perciò ragionevolmente rimproverava a Kant di avere presentato il concetto del matrimonio nella sua inverecondia. Kant invero era tanto persuaso che il semplice uso scambievole costituisce il fondamento del matrimonio, che aveva riprovato la poliandrìa, la poligamia, ed il concubinato, solo perchè l'uso non sarebbe stato eguale e nelle stesse condizioni da ambe le parti.
Per la medesima ragione non si può considerare come contratto il fondamento dello Stato, secondo che ha opinato Rousseau nel suo Contratto Sociale. Ma di ciò che spetta allo Stato noi ci dovremo occupare in un apposito discorso, perciò qui ci limitiamo ad osservare, che il non avere badato al diverso contenuto della proprietà, della famiglia e dello Stato, ha condotto Kant e Rousseau a confondere le determinazioni tanto diverse della proprietà e della personalità, come ancora le altre della volontà particolare, della volontà comune, e della volontà universale. Nella proprietà la volontà si manifesta come particolare, nel contratto come comune, nello Stato come universale.
Questa volontà universale, la quale è l'ultima concretezza a cui possa giugnere la ragione, come pratica, sebbene logicamente apparisca come il risultato dello sviluppo della libertà, nulladimeno è presupposta anche nei primi gradi di questo sviluppo. Il dritto non è tale se non per una legge che lo sanzioni, e questa legge, o, come Kant la chiama, imperativo giuridico, è appunto la volontà universale, che si presume nel dritto di proprietà privata, e che poi si realizza come Stato. Onde nello stato di pura natura non vi sono a rigor di termini dritti, perchè questi suppongono la garanzia dello Stato civile. Che se dall'altra parte sembra, non potersi dare Stato civile senza la preesistenza dei dritti individuali, tal contradizione apparente è dileguata in questo modo. L'individuo è capace di avere dritti per natura; ma questi dritti sono provvisorii, se non vi si aggiunge la garanzia dello Stato, il quale solo li può rendere completi e difinitivi.
L'imperativo giuridico è formulato da Kant così: Opera colla tua libertà esteriormente in modo che le tue azioni possano coesistere con quelle degli altri. La possibilità della coesistenza di più volontà libere insieme costituisce dunque il fondamento del dritto.
La legge giuridica si assomiglia alla legge morale, nel modo come Kant le ha formolate, in questo, che entrambe cercano di evitare la contradizione. La legge morale evitando la contradizione fra le azioni di uno stesso individuo, esige che una persona debba operare in modo che possa operare sempre così in ogni tempo, in ogni luogo. Questa legge per essere adempiuta non richiede altro che l'esistenza di una persona libera. La legge giuridica richiede un elemento di più, vale a dire l'esistenza di un'altra libertà, colla quale la mia libertà debba poter coesistere. La sfera del dritto dunque riguarda la libertà individuale nella cerchia delle azioni esterne, ed il rapporto con altre libertà; mentre la sfera morale riguarda il rapporto della libertà con se stessa come pura, interiore libertà subbiettiva.
Tanto la legge morale o l'imperativo categorico, quanto la legge giuridica o l'imperativo giuridico, consistono per Kant in un'identità vuota e senza contenuto. Noi riparleremo di questo difetto a proposito della legge morale. Che cosa significa il potere coesistere con altre libertà? Non potrei io accordarmi liberamente con altri di considerare come dritto ciò che non lo è, o viceversa? Ed in tal caso la legge giuridica non avrebbe un valore accidentale ed arbitrario?
Il contenuto della sfera giuridica è la persona in quanto opera esternamente, dunque la formola precisa in cui essa legge si deve esprimere è questa: Opera esternamente come persona, e rispetta negli altri la personalità. In questo caso la legge è ben definita in se stessa perchè io so fin dove si estende la sfera del mio dritto. So che essa spazia tanto largamente, per quanto si estende l'attività della mia persona, so finalmente che essa si deve arrestare soltanto dove trova un'attività personale simile alla sua. Una persona non può offendere, o impedire l'azione libera di un'altra persona senza distruggere la nozione sua medesima. Dunque il dritto, secondo questa legge, si trova definito nel concetto di persona e della sua libera esterna manifestazione; mentre nell'imperativo giuridico di Kant questa determinazione intrinseca del dritto manca e si fa dipendere dall'accidentalità dell'arbitrio.
La persona operando esteriormente pone un termine estrinseco il quale sebbene sia la manifestazione della libera volontà, nondimeno sottostà pure alle leggi necessarie della natura. Questa necessità esterna si chiama forza, e la forza usata come sussidio esterno del dritto si chiama costrizione. Che se poi questa medesima forza non s'impiega a sostegno del dritto, ma invece lo infrange e lo viola, allora si chiama violenza.
Nella sfera del dritto dunque, a differenza di quella della morale, noi c'incontriamo nella forza talvolta considerata come forza giuridica e talvolta invece considerata come violenza. Nella legge morale il subbietto non essendo fuori di sè e non determinandosi che per se stesso non è soggetto nè a costrizione nè a violenze. Se ciò ha luogo nella sfera giuridica, è perchè in essa vi è sempre un oggetto esterno o una proprietà che è la materia del dritto. Ed in quanto lo spirito si determina in un essere determinato della natura, egli sottostà alla forza non già come spirito, ma nella sua esterna determinazione. Senza la forza il dritto non avrebbe reale esistenza.
Ma la forza quando manifesta la libertà è razionale e legittima; e perchè ha ragione di essere è positiva. A rincontro quando invece di esprimere la libertà la nega, allora essa non ha nessun valore, non ha ragione di essere, è puramente negativa; perciò ne viene la conseguenza che essa porta con sè la propria negazione, e la reintegrazione di ciò che prima aveva distrutto. Un dritto violato dalla forza reclama dunque di essere ristabilito. Qui si trova ancora il fondamento della pena, del quale parleremo più ampiamente discorrendo dello Stato.
Per la limitazione estrema che il dritto trova nella libertà altrui nasce il dovere giuridico, il quale è essenzialmente relativo al dritto. Ciò che in me è dritto, in tutti gli altri individui liberi è dovere. Il dovere giuridico perciò si diversifica dal dovere morale, perchè quest'ultimo è assoluto ed il primo è correlativo al dritto altrui.
Il dritto ed il dovere giuridico rappresentano ciò che vi ha di sostanziale e di assoluto nelle singole volontà individuali. Essi scaturiscono dalla legge giuridica la quale rappresenta la volontà universale; e questa ha per contenuto la ragione.
Kant ha chiamato questa volontà non universale ma comune. Noi troviamo per lo meno inesatta la terminologia kantiana. Il comune non è l'universale: due volontà individuali le quali si accordassero in una cosa, come succede nel contratto, formerebbero bensì una volontà comune, ma non già l'universale. La volontà universale esprime la forma assoluta e razionale della volontà; nè in lei può trovar luogo l'accidente e l'arbitrio; mentre al contrario la volontà comune può essere benissimo il risultato di un accordo arbitrario ed accidentale. Replichiamo, che la volontà comune costituisce l'essenza del contratto; ma che la legge è superiore al contratto e non può derivare da essa.
La nozione di dritto si esplica dunque per tre gradi, che sono la volontà particolare, la volontà comune, e la volontà universale; cioè rapporto della volontà alla cosa, rapporto di una volontà particolare con un'altra volontà anche come particolare; e finalmente rapporto di una volontà particolare colla volontà universale ed assoluta, cioè colla volontà spogliata di ogni accidente e considerata come ragione.
Nel dritto di proprietà la volontà si trova determinata con un che di esterno; e questa determinazione è accidentale.
Nel contratto la volontà si trova determinata anche verso qualche cosa di esterno; ma questo esterno è pur esso una volontà. Questa determinazione è anche accidentale, ma questa accidentalità è arbitrio, vale a dire l'accidente proprio del soggetto libero: qui non è più solo l'accidentalità della cosa, ma accidentalità della persona.
Infine questa accidentalità sparisce nella sanzione assoluta del dritto, perchè questa non dipende da un accidente nè dall'arbitrio, ma dalla forza assoluta e irresistibile della ragione.