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Lo spirito umano nella sua feconda e concreta unità contiene un doppio processo che accenna alla doppia sua essenza, risultando egli dal ritorno che fa l'eterna nozione in se stessa, dopo di avere attraversata l'esteriore natura. Essendo egli ideale e reale insieme è ben ragionevole che abbia un processo teorico e un altro pratico. Col primo egli idealizza la natura, la transustanzia, per così dire, nella sua propria sostanza, e dice a lei, secondo la bella similitudine dell'Hegel, come disse Adamo quando ebbe veduta Eva: – Tu sei ossa delle mie ossa e carne della mia carne. – Col processo pratico al contrario egli attua se stesso, o improntando del suggello ideale la circostante natura e pigliandone possesso riconoscendola per sua, come fa nella sfera del dritto; ovvero contrapponendo la sua subbiettiva essenza alla obbiettiva realizzazione, come fa nella sfera della morale; o finalmente accordando questi due lati discordanti nella unità concreta della famiglia e dello Stato.
Di questi tre momenti pei quali procede lo spirito pratico giudico essere più rilevante quello su cui si fonda la morale. Nella natura del diritto e dello Stato s'incontrano forse minori difficoltà; nè le controversie che si sono agitate su questi temi risalgono tanto lungi, quanto quelle che toccano la morale. Ed infine si possono ben dissolvere gli Stati, quando la loro obbiettiva consistenza entra in conflitto coll'interna nozione; laddove la morale non solo sopravvive al loro sfasciamento, ma ha virtù di ricostruire su più saldi fondamenti gli scrollati edificî. Quando di fatto il mondo greco cominciò a tralignare e minacciava rovina, Socrate ne meditava il restauro fondandosi sulla morale, cioè riconducendosi a quel principio, da cui lo Stato realmente rampolla, e segnalando fin d'allora quel principio che divenne famoso col Macchiavelli di ricondurre ai principî le vacillanti istituzioni. La morale, oltre a questo vincolo con cui si lega al mantenimento dello Stato, ha una relazione non meno stretta colla religione. E benchè io non creda col Kant che il contenuto religioso sia esclusivamente morale, non però può negarsi che questa non abbia grandissima parte nella forma religiosa. Anzi la morale del Cristianesimo essendo raccomandata come la più ragionevole e la più pura, è dovere della scienza esaminarne i principî, discuterne il valore, e trovare nei simboli religiosi quell'occulta ragione, che sola può spiegarne l'esistenza e la durata.
Un discorso sulla morale può parere dunque troppo angusto, se si guarda all'ampiezza dell'argomento ed alle moltiplici attinenze che ha colla Scienza, collo Stato, e con la Religione. Io ho il proponimento di ristringermi alle vedute più considerevoli, e quanto allo sviluppo storico della scienza della morale, io mi restringerò al periodo da Kant in qua.
Vero è che la scienza della morale comincia in Grecia e con Socrate, e che i suoi sommi discepoli Platone ed Aristotile la condussero ad un'altezza non superata se non da quest'ultima epoca di ritorno dello spirito sopra dì sè. Pure noi possiamo agevolmente passarci di una esposizione delle loro dottrine, col proposito di ricordarle soltanto quando verrà in acconcio nella teorica che esporremo.
Lo spirito umano, se si paragona con la natura, ha questo di particolare, che egli se ne distingue. Cotesto distinguersi, cotesto negarsi infinito, costituisce la sua essenza, ed è insieme l'assoluta libertà. Ciò che è il non essere nella logica, questo non essere tanto comunemente disconosciuto; ciò che poi è il tempo nella sfera della natura, questo medesimo è la libertà nella sfera dello spirito. Non solo è la libertà, ma è tutto lo spirito, il quale intanto differisce dalla natura in quanto se ne distingue, in quanto può farne astrazione, in quanto può negarla: lo spirito è appunto questa negazione infinita della natura. Ma egli negando la natura ritorna sopra di sè; e questo negativo ritorno costituisce la sua individualità. L'individualità dello spirito è la sua libertà: egli è lui perchè fa astrazione da tutte le altre cose. E poichè il pensare non è altro se non che questa medesima distinzione; per ciò una stessa è la radice del conoscere e del volere, e l'uno non può stare nè concepirsi senza dell'altro.
La libertà poi considerata sotto questo aspetto è la volontà medesima e non quello che volgarmente si dice libero arbitrio, il quale ne è una forma particolare ed anche accidentale, ed ecco come.
La libertà essendo la infinita negazione di ogni altra cosa, non ha per contenuto adeguato se non sè stessa. Un contenuto esterno sarebbe necessariamente finito essendo altro da lei. Quando adunque la libertà si determinasse per un oggetto esterno, ella nel far suo quell'oggetto, non potrebbe realizzare tutta se stessa. La libertà, per realizzarsi tutta quanta, ha bisogno di porre per suo contenuto non una determinazione particolare, ma la libertà stessa. Ciò significa che ella nel determinarsi deve rimanere libertà: Per far questo non si deve credere che la libertà debba restare forma vuota ed indifferente ad ogni determinazione e ad ogni contenuto; ma bensì si deve intendere che la libertà sollevando il suo contenuto all'universalità ed alla razionalità, lo fa cessare di essere particolare e lo proporziona alla sua infinità.
Era invalsa nelle scuole, specialmente nella wolfiana, la consuetudine di riporre l'essenza della libertà nel libero arbitrio. Da una parte si metteva il libero arbitrio come una forma indifferente ad ogni determinazione; dall'altra parte si mettevano le determinazioni opposte; tutta la libertà si faceva consistere nel potere scegliere l'una a preferenza dell'altra. Ma era codesta la vera libertà? No: era invece l'accidente della libertà, era l'arbitrio, il capriccio. Da questa mancanza di precisione nelle idee vennero infinite ed inutili dispute. Gli uni concedevano all'uomo la libertà, gli altri gliela contrastavano; ed entrambi avevano ragione, perchè muovevano da principî isolati ed opposti. Se la libertà è la pura indifferenza, la pura indeterminazione, essa non esiste realmente, perchè nel manifestarsi, nell'operare, bisogna che appaia in una determinazione. Che io possa appigliarmi ad un partito opposto, ciò appare soltanto quando già ne ho prescelto un altro.
Per comprendere la libertà nella sua concretezza, è d'uopo ricordare che il contenuto individuale dello spirito umano è ricco di tante determinazioni, che gli sono altrettanto essenziali quanto la libertà. Se per la libertà lo spirito esiste per sè, per le inclinazioni, per gl'istinti, egli esiste per un altro. Intanto egli è un solo individuo e la contradizione deve conciliarsi in un modo assoluto e soddisfacente. La libertà è autonoma, e nessuna cosa estranea è capace d'imporle la legge, o di determinarla. Il contentamento delle inclinazioni individuali dipende per contrario dal conseguimento di un oggetto esteriore. Finchè questo accontentamento rimane esclusivamente mio, esso è l'opposto della sfera della libertà. Ma il sensibile è anch'esso razionale, e come tale capace di una universalità che possa farlo assurgere alla dignità di contenuto libero dello spirito. Quando ciò avviene la contradizione che prima era apparsa tra l'universale forma della libertà, ed il particolare contenuto della passione sparisce e cede il posto alla loro armonia. Lo spirito, che dell'appagamento sensibile vede la razionalità, non lo considera più come estraneo ma come facendo parte della sua natura medesima; ed in tal caso non si determina più per un altro, ma bensì per sè stesso.
Fino dalle prime ricerche che si fecero sul bene morale, si disegnarono chiaramente questi due lati opposti da cui risulta. Il bene per Platone contiene la saggezza ed il piacere; la felicità per Aristotile non è scompagnata dalle virtù; talchè per entrambi il bene deriva dalla contemperanza dell'ideale e del sensibile, sebbene in Platone prevalesse l'elemento della virtù, ed in Aristotile quello della felicità. Due scuole posteriori ruppero quest'armonia, e gli Stoici riposero il bene nella sola virtù, come gli Epicurei nella sola felicità. La storia della filosofia morale si riassume in queste due posizioni, o di porre a capo della morale uno dei due principii sopraccennati a discapito dell'altro, ovvero di tentarne l'accordo. Il diverso modo di concepire la conciliazione di questi due elementi opposti è il solo criterio con cui si possono giudicare i sistemi morali.
Sopra di essi ha esercitato un'influenza innegabile il Cristianesimo, la cui morale volendo aspirare ad una purità forse soverchia non ha sempre tenuto il giusto mezzo, ed ha fatto inclinare gli spiriti verso l'antica esagerazione stoica. Nel sensibile, o secondo la frase evangelica, nella carne e nel mondo si è voluto vedere due nemici dell'uomo come se l'uomo non fosse composto di carne e non vivesse nel mondo. Per tale influenza, della libertà si è fatta una vuota forma che corre dietro ad un ideale che non potrà raggiugnere giammai. Gl'istinti si sono convertiti in ostacoli che impediscono ancora più di conseguirlo.
I primi i quali hanno cercato di ricomporre questa discordia tenuta per irreconciliabile, e che nell'uomo hanno veduto del divino tanto a considerarlo nella sua sfera volitiva quanto nella sensitiva, sono stati Giordano Bruno e Spinoza. Per essi l'accordo non solo è possibile, ma è necessario: la libertà non solo può prendere a suo contenuto le passioni, ma deve prenderle, e volgerle a realizzare l'universale sua essenza. L'individuo non deve vedere nella legge un tiranno estraneo e prepotente, ma la sua propria nozione che tende continuamente a tradursi in atto.
La vera nozione della legge morale si trova dedotta scientificamente la prima volta nell'imperativo categorico di Kant e da lui si può dire che prenda origine la dottrina speculativa della legge e del dovere. Kant dimostrò che la legge morale non può essere estrinseca alla libertà; che una libertà la quale fosse sottoposta ad una legge esterna perderebbe coll'autonomia anche la propria essenza. Una libertà eteronoma, cioè avente una legge in un altro fuori di sè, sarebbe una contradizione nei termini. La libertà è legge a se stessa e nel determinarsi per sè, consiste la moralità delle sue azioni. L'imperativo categorico inchiude un comando di determinarsi assolutamente per sè, e differisce dall'imperativo ipotetico il quale comanda un'azione che serve di mezzo alla felicità. Mentre quest'ultimo imperativo prescrive di far qualche cosa per ottenerne un'altra, l'imperativo categorico al contrario ordina di fare una cosa per se stessa perchè il farla è dovere. Ed è dovere perchè l'azione si converte colla legge, e si può adottare come massima, secondo la quale noi possiamo operare in tutti i tempi, in tutti i luoghi. La libertà la quale opera in tal modo, opera secondo la sua nozione; e tale azione è egualmente libera e necessaria; libera perchè prodotta dalla libertà, necessaria perchè è secondo la nozione della libertà. La sintesi della libertà e della necessità costituisce il dovere.
Ma affinchè si deduca il dovere nelle sue speciali esplicazioni, è mestieri sapere quale sia la nozione della libertà. Questa nozione non è determinata da Kant, avendo egli considerata la libertà come una pura forma, come una vuota identità nella quale per ciò non può cadere la contraddizione. Nè basta ciò che egli ha soggiunto, essere l'imperativo categorico l'universalità dell'azione medesima che si fa, perchè in questo caso si presuppone già l'azione. Spiego più chiaramente questa difficoltà. Il furto, per esempio, non è un'azione morale; perchè adottandosi come massima del volere in tutti i tempi, in tutti i luoghi, si distruggerebbe la proprietà; e niuno la vorrebbe vedere distrutta, neppure il ladro.
Il furto dunque, secondo Kant, è immorale, perchè contradice alle altre azioni del ladro medesimo, le quali si fondano sul dritto di proprietà. Tutto questo è vero; ma chi non si accorge che per fare questo ragionamento bisogna ammettere che si dia il dritto di proprietà? Se la proprietà non ci fosse, la contradizione fra le azioni del ladro non avrebbe luogo. Ora la proprietà è un contenuto, che non si trova nella nozione di libertà come l'espone Kant. La libertà per Kant non ha nessun contenuto, e perciò non se ne possono ricavare le determinazioni necessarie, che si chiamano doveri speciali. Tutto al più se ne può conchiudere che bisogna operare secondo la libertà; ma quali cose bisogna operare per trovarsi in conformità colla libertà e colla legge? Kant non lo dice nè può dirlo. E non può dirlo perchè egli dell'uomo non ha considerato tutta la ricca individualità, ma soltanto una vuota forma che non contiene nulla e da cui perciò nulla si può ricavare. La libertà, come la descrive Kant, o la ragion pratica o l'imperativo categorico che si voglia dire, è una vasta solitudine dove non apparisce traccia di determinazione. E intanto questa solitudine è sublime, manifestando il concentrarsi dello spirito subbiettivo sopra di sè, l'affrancarsi da ogni esterna determinazione, il darsi la propria legge, e finalmente il considerare tutte le cose fatte per lui, e lui fatto per se stesso. Kant ha rialzato la dignità umana dando il vero concetto della persona; ed insieme ha fortificato la potenza della legge formando la religione del dovere. Egli è tanto saldo in questa convinzione, da trovare nella morale del Cristianesimo due grandi difetti, l'uno di riporre la legge morale nella volontà di Dio; l'altro di essere determinato alla virtù dal sentimento dell'amore. La volontà di Dio, qualunque si fosse, è sembrata alla mente severa di Kant una legge esterna; l'amore, per quanto purificato sino a diventar carità, è parimente per lui un sentimento, una passione, ed egli non esita un istante a sbandirlo come contrario al puro dovere.
Le pagine in cui Kant tratteggia l'ideale del dovere sono delle più eloquenti che si possano dare parlando di così austeri argomenti. Non so tenermi dal riferirne il cominciamento.
«Dovere! parola grande e sublime, tu che non hai nulla di aggradevole nè di lusinghiero, e comandi la sommessione senza pertanto usare minaccie proprie ad eccitare l'avversione ed il terrore, affine di scuotere la volontà; ma che limitandoti a proporre una legge la quale s'insinua da sè stessa nell'anima e la sforza al rispetto, se non può sempre all'obbedienza, e dinanzi alla quale si tacciono tutte le inclinazioni, benchè sordamente cospirino contro di lei; quale origine è degna di te! Dove trovare la radice del tuo nobile germoglio, che respinge fieramente ogni alleanza colle inclinazioni, quella radice dove bisogna collocare la condizione indispensabile del valore che gli uomini possono dare a se stessi!»
B. De Saint-Hilaire nella descrizione che Aristotile fa dell'uomo magnanimo crede raffigurare dipinto il carattere del greco filosofo: a me, leggendo queste parole di Kant, sul dovere ricorre nell'anima tutta intera la sua biografia, e sotto le dottrine del filosofo sento battere il cuore dell'uomo. A compiere la teorica del bene supremo secondo Kant ci rimane di esporre l'altro elemento che insieme colla virtù concorre a costituirlo. Questo elemento è la felicità.
L'uomo è autonomo, considerato come ragione pratica e libertà; egli è eteronomo considerato come essere sensibile e sottoposto alle leggi della necessità naturale. Operando come autonomo egli deve non sol rispettare nella sua libertà la legge morale, ma altresì trovare in lei il solo motivo della sua determinazione. Perchè un'azione fosse morale non si richiede soltanto la sua conformità colla legge; ma si richiede di più che essa sia stata fatta per la sola rappresentazione della legge senza mescolanza di altri estranei motivi. È questo ciò che Kant chiama il respingere fieramente l'alleanza colle inclinazioni; lo che forma forse la sublime esagerazione della morale kantiana.
Ma l'uomo vive nel mondo e come essere sensitivo vi è inevitabilmente legato. A soddisfar le sue inclinazioni egli non può fare a meno degli obbietti sensibili. L'uomo basta a sè stesso per essere virtuoso, ma per essere felice ha bisogno del mondo esterno. La felicità è l'eteronomia dell'uomo, come la moralità è la sua autonomia. Questa proporzione che corre fra l'uomo come intelligibile e l'uomo come sensibile è il fondamento dell'antitesi che Kant rinviene tra la virtù e la felicità.
Egli, d' altra parte, sente che l'uomo virtuoso merita felicità, perciò crede ristabilire ad ogni costo quell'armonia che non sa trovare nel mondo e la cui mancanza pertanto lo addolora. Quanto meno esigente deve essere l'uomo virtuoso nel fare il suo dovere disinteressatamente e senza la mira di diventar felice, tanto più è degno di esserlo; e la felicità non cercata è per Kant un premio riservato all'austera e disinteressata virtù.
Qui la morale di Kant si sottrae a questo mondo e per effettuare l'armonia, tenuta come necessaria, ricorre al sovrano bene, a Dio. In lui trova il modo di concedere come premio la felicità a quei virtuosi che l'hanno meritata ma che da sè non avrebber potuto procurarsela.
Per tal guisa l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima entrano come postulati per potere compiere il sistema della morale che altrimenti rimarrebbe senza armonia, e si conchiuderebbe colla disperata conseguenza che l'uomo virtuoso non può essere felice.
Il sistema di Kant in questa parte, come in tutte le altre, ha mantenuto quell'antagonismo tra l'intelligibile ed il sensibile, che costituisce il vizio radicale del suo principio. Prima di ricorrere ad un altro mondo per cercarvi l'accordo tra la virtù e l'appagamento delle inclinazioni sensibili, bisogna tentare di farlo in questo mondo medesimo e di vedere se veramente nell'uomo la forma della ragione ed il contenuto sensibile sono così opposti e irreconciliabili come ha creduto. – E se l'accordo non è possibile in questo mondo per l'ostinata reluttanza dei termini, come sarà poi possibile in un altro? Egli stesso si è dovuto accorgere che per mutare di mondo che si facesse, i termini non avrebbero mai cangiato di natura; ed egli invece di fare un accordo tra il sensibile e l'intelligibile è stato costretto totalmente a lasciare il primo e ad immaginare un regno di puri spiriti.
Come emendare questo difetto della morale kantiana e come conciliare tutto il contenuto della personalità umana colla forma assoluta della legge e della libertà? Ecco il problema che bisognava risolvere dopo di Kant.
La libertà nella infinita indeterminatezza è ancora in uno stato astratto e per concretarsi le fa mestieri di darsi delle determinazioni. Ogni determinazione è un limite, talchè parrebbe che per passare in atto dovrebbe perdere la essenza che ha, ed acquistarne una opposta.
L'opinione volgare ha creduto conservare la libertà, lasciandole la scelta tra una determinazione e l'altra e riducendola a ciò che si suole chiamare libero arbitrio. Ma lo spirito non è mai tanto poco libero, quanto nel determinarsi a caso ed accidentalmente. Si potrebbe anzi soggiugnere che questa specie di apparente libertà compete eziandio agli animali bruti, i quali tra un oggetto sensibile ed un altro pare che possano dare ancora la preferenza. La nozione della libertà non può discendere sì basso.
Per trovare ove ella veramente riposi bisogna avere in mente le categorie logiche del finito e dell'infinito. Il vero infinito non è quello che esclude da sè il limite, ma quello che lo comprende come un momento che gli è essenziale e che ha già sorpassato. Similmente la vera libertà non è quella che esclude ogni determinazione, ma quella che se le appropria e le comprende come sue, cioè appartenenti alla sua nozione, e come mezzi necessarî per renderla concreta. La necessità che si oppone alla libertà è soltanto la necessità esterna della natura; ma non già la necessità intrinseca che scaturisce dalla propria nozione dello spirito. Questa ultima necessità si converte colla libertà perchè la nozione e la sua concretezza sono tutt'uno.
Venendo ora al nostro speciale proposito, finchè le inclinazioni sensibili si portano verso l'oggetto naturale per trovarvi la loro soddisfazione, questa determinazione benchè voluta e scelta dallo spirito gli rimane sempre esterna, quando in essa non vede altro che un momentaneo sensibile appagamento de' suoi bisogni. Che se all'incontro egli solleva quelle particolari determinazioni del suo subbietto fino all'universalità della nozione e vi scorge un momento necessario per la realizzazione della stessa, quella particolarità sparisce, quell'appagamento diviene razionale e la libertà non vede più in esso un contenuto estraneo, ma il contenuto suo proprio essendo anch'ella universale ragione.
Ed il sensibile può assurgere fino all'altezza del razionale, perchè esso non esiste a caso e fuori della ragione; e lo sbaglio di Kant fu appunto di averlo escluso da ogni razionalità. Finchè questa ragione rimane occulta, lo spirito può considerarla come un estraneo, e vedervi per fino un ostacolo che gli attraversa il cammino. Ma quando questa occulta ragione si svela, lo spirito vede nella natura sè stesso, e nel sensibile non più un ostacolo, ma un mezzo a compiere i suoi destini. Il diritto di proprietà in tal modo apparisce come la presa di possesso della natura; e la moralità di un'azione fa vedere che lo spirito non riconosce della natura se non quanto egli vi pone del suo. La libertà così non riconosce altro limite che sè stessa: ella rimane infinita nella sua determinazione, perchè la determinazione è un elemento della sua nozione. L'armonia della universale essenza della libertà colle sue speciali determinazioni costituisce il concreto bene morale.
Da qui si vede che il bene morale non può aver luogo, se non nell'individuo libero; e che un bene immaginato come un ideale posto a rincontro della libertà è una mera astrazione. Ma allato al bene spunta il male, come il dubbio, secondo la similitudine dell'Alighieri, rampolla a piè del vero. La libertà, la quale come ragione, può e deve sollevare la determinazione particolare all'universalità della nozione e non darle valore se non in quanto è universale; può ancora soffermarsi al valore particolare per cui quella determinazione si appartiene al nostro soggetto e così privarla della impronta della moralità. Questo circoscriversi della libertà nella sfera del particolare e del finito; questo non ritornare sopra di sè come universale nozione ma come particolare soggetto è appunto l'origine del male. – Il male ha dunque la medesima sorgente del bene, perchè entrambi scaturiscono dalla libertà, e perchè la libertà è universale ragione e particolare soggetto nello stesso tempo.
Se non che nel bene essa concilia questa contradizione, riducendo il particolare all'universale, ed invece nel male essa lascia la contradizione irreconciliata, dando un infinito valore a ciò che per sè stesso è finito.
L'origine del male è stato uno dei problemi più misteriosi della scienza morale; e la religione ne ha fatto anch'essa un mistero. Essendosi considerato il bene soltanto come positivo, non si sapeva più ove collocare la sorgente del male. La natura è buona, l'uomo è fatto pel bene; Iddio autore dell'una e dell'altra, si diceva, è assolutamente buono: d'onde è potuto dunque scaturire il male ed insinuarsi nel mondo? Tale era il tormentoso problema che si proponeva la religione e la filosofia ad un tempo. E la religione rispondeva col mito di Satana che aveva pervertita la prima coppia innocente. La filosofia dava la magra risposta, che Dio aveva creato l'uomo buono, ma che gli aveva permesso di fare il male. Tanto è vero che quando si disconosce il valore necessario delle idee, si deve per forza ricorrere ad arbitrarie permissioni che non spiegano nulla. Il bene ed il male rappresentano nello spirito quella eterna ed inevitabile lotta che si ravvisa dalle prime categorie della logica fino agli ultimi contrasti della storia umana.
Ma l'ammettere come necessaria la coesistenza di questi due contrarî non importa che l'uomo debba essere per necessità malvagio. L'uomo anzi è fatto per realizzare il bene, e s'egli fa il male è perché si arresta a mezza via, e trascura di ricondurre le sue subbiettive e finite determinazioni al loro universale ed infinito valore.
Lo spirito concreto è un processo vivente, i cui gradi esprimono le determinazioni della sua realtà, ed hanno tutti un valore maggiore o minore, secondo che più o meno si vanno avvicinando all'ultimo risultato. Le relazioni che corrono fra lo spirito e la natura costituiscono la sfera del dritto la quale si aggira tutta intorno alla proprietà. Le relazioni che lo spirito medesimo, considerato come infinita libertà, ha con sè stesso considerato come particolare individuo, costituiscono la sfera della morale che si fonda tutta sul dovere. L'accordo di queste due sfere del diritto e del dovere costituisce la verità di entrambe, e l'obbiettività del dritto e la subbiettività del dovere si trovano conciliate nell'unità dello Stato.
Noi abbiamo testè accennato come la libertà dovesse fare suo contenuto le inclinazioni subbiettive e particolari. Queste inclinazioni possono ridursi a due, all'amore ed all'interesse, le quali abbracciono in sè l'infinita varietà delle umane passioni. L'amore è la negazione della propria individualità in grazia di un altro. L'interesse al contrario valuta gli altri per riguardo al proprio soggetto. L'amore unisce, l'interesse divide. Entrambi però possono diventare ragionevoli, e perciò onesti e virtuosi. L'amore razionale cioè considerato come processo necessario per lo sviluppo della nozione dell'uomo è il fondamento della famiglia. L'istinto naturale viene nobilitato dalla ragione, e nella concretezza della famiglia si trova la prima conciliazione del dovere e della passione.
L'interesse che è stato considerato come il fomite dell'egoismo, ed in cui non si è veduto altro che l'opposto della virtù, può anch'esso temperarsi come dice Spinoza, secondo i consigli della ragione e divenire onesto e virtuoso nella società civile.
L'interesse è nocivo quando si considera come particolare, a discapito dell'interesse altrui: è onesto poi quando si considera come interesse generale che non esclude il ben essere di nessuno. Questa conciliazione, che la filosofia morale negli ultimi tempi ha compito mediante un esame più diligente della natura dello spirito, era stato intraveduto da Spinoza colla sua solita perspicacia e chiarezza. Ecco come egli ha parlato dell'amore e dell'utile. «Gli uomini, ei dice, non possono nulla desiderare di meglio per la conservazione del loro essere che questo amore di tutti in tutte le cose, il quale fa sì che tutte le anime e tutti i corpi non formino per così dire che una sol'anima e un solo corpo; di maniera che tutti si sforzino, per quanto è in essi, di conservare il loro proprio essere, e nel medesimo tempo di cercare ciò che può essere utile a tutti; d'onde seguita che gli uomini governati dalla ragione, cioè gli uomini che cercano ciò che loro è utile secondo i consigli della ragione, non desiderano niente per se stessi, senza desiderarlo egualmente per tutti gli altri, e per conseguenza sono degli uomini giusti, probi e onesti.»
Si è molto gridato contro questa dottrina, e parecchi vi hanno veduto il pervertimento del senso morale ed il predominio dell'utile sopra il dovere. Ma è tempo di non lasciarsi ingannare dalle parole e dai pregiudizi divenuti autorevoli per antichità. – Oggi si debbono esaminare le idee nel loro giusto valore e procedere disimpacciati e liberi nel cammino della scienza. Il dovere e l'utile sono due momenti astratti che la virtù deve saper conciliare. Se la virtù deve avere una esistenza nel mondo, essa deve consistere nell'armonia dei contrari o nel mezzo, come diceva Aristotile. Questo mezzo è da trovarsi nell'accordo della ragione e delle inclinazioni umane; dunque la virtù non può sopprimere uno degli elementi da cui risulta. E se si dice, come ha scritto Saint-Hilaire che la virtù abita in cielo, e che in terra se ne trovano debolissimi vestigî, allora la cosa cangia di aspetto; se non che non tocca a noi parlare di virtù ignorate ed inaccessibili. Anche in ciò noi troviamo una veduta del medio-evo, che per la predominante influenza teologica vedeva nel mondo il regno del male, e non cercava di trovare il bene se non in altra più fortunata regione. Per noi nello Stato si compiono i destini dell'individuo, e si realizza l'accordo della ragione e delle passioni umane senza mutilare l'uomo e senza credere che un Dio invidioso, come diceva Spinoza, guardi con rincrescimento l'appagamento ragionevole dei nostri desiderî.
Lo Stato contiene in sè l'unità primordiale della famiglia fondata col vincolo dell'amore, e la divisione posteriore degli interessi che nascono dallo scindersi di quella prima unità, e che si riaccordano nell'unità più vasta e più concreta dello Stato.
Riassumendo i progressi della filosofia morale nell'età moderna, noi crediamo poterli ridurre ai seguenti capi. Primo, la legge morale considerata come interna, e come identica colla nostra ragione e colla nostra libertà. Secondo, rialzata la dignità umana, per avere fatta la persona fine a se stessa, e mezzo a nessuno. Terzo, il contenuto della libertà trovato in lei stessa, in quanto che le determinazioni esterne si tramutano in interne col comprenderle come ragionevoli. Finalmente il vero concetto dello Stato, come quello che concretizza obbiettivamente la morale nel costume e che rende universali le passioni particolari degl'individui, e perciò le rende razionali ed armoniose.
È debito di giustizia confessare che i primi due capi, cioè l'autonomia della libertà ed il valore infinito della persona umana, sono stati messi in rilievo da Kant; gli altri poi, intraveduti da Giordano Bruno e da Spinoza, sono stati rigorosamente dedotti e scientificamente collegati coi due primi dal più profondo dei pensatori moderni, dall'Hegel.