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PARTE SECONDA. DISCORSO SESTO. DELLO STATO. | «» |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Lo spirito dopo di essersi realizzato obbiettivamente nella natura, come dritto, e dopo di essersi determinato in sè stesso, nella sua libera subbiettività, come dovere morale, finalmente deve obbiettivarsi nella totalità di questi due lati come intero spirito. Egli deve darsi un contenuto pari a sè stesso, un contenuto che non sia nè solo obbietto nè solo subbietto, ma che comprenda l'uno e l'altro insieme. La realizzazione della sua infinita libertà non può essere perfetta nel dritto di proprietà, perchè ivi si trova in una relazione puramente esteriore, e manca il ritorno sopra di sè ossia la coscienza. Nel dovere morale si trova questa coscienza, e manca invece la relazione esterna. Lo spirito per attuarsi come vero spirito non deve porsi soltanto come soggetto o come oggetto separatamente; egli deve porsi come unità dell'uno e dell'altro.
Il contenuto vero ed adeguato della libertà è la libertà medesima; ma questa libertà deve trovarsi esistente come obbiettiva. La famiglia e lo Stato sono appunto questa libertà posta come obbiettiva.
La famiglia non è un solo soggetto, un solo individuo; e non è neppure un aggregato accidentale d'individui: essa è un'unità organica, nella quale l'individuo rappresenta un solo momento, e viene compreso in una unità superiore e più concreta. Nella famiglia lo spirito si conforma e si determina obbiettivamente. Che cosa infatti è lo spirito in sè? È un individuo che si comprende come universale. Se fosse semplice individuo, senza avere compresa questa sua identità collo universale, esso sarebbe animale e non già spirito, perchè spirito è l'individuo come universale, cioè la ragione universale in atto.
Ora nella famiglia lo spirito si pone obbiettivamente come unità dell'individuo e dell'universale. Nella famiglia l'individuo non è più per sè ma è pel tutto. La concretezza della famiglia si trova posta dunque al disopra della concretezza individuale.
Abbiamo antecedentemente accennato, che la famiglia non può venire da un contratto, ossia da un arbitrario accordo di due volontà; ed abbiamo anzi veduto, come essa si fondi sull'amore, il quale è un'inclinazione naturale necessaria alla natura umana. L'amore benchè esista sotto la forma di sentimento, e per questo riguardo assuma la veste dell'accidentalità, null'ostante esso ha un fondo sostanziale, che contiene l'iniziativa del processo della vita, e che perciò è essenzialissimo allo sviluppo della nozione di uomo.
L'amore difatti è una contradizione, anzi la più mostruosa, come dice Hegel. Per questa contradizione l'individuo sente di non bastare a sè stesso; egli si sente fatto per un altro, egli tende ad un altro, ed intanto vuol conservare ferma la sua propria individualità. L'individuo che nell'amore tende a conservarsi e a disparire insieme, con questa contradizione ci avverte, che il vero sostanzial fondamento della nozione di uomo non è tanto l'individuo quanto l'universale. La contradizione dell'amore trova la sua soluzione nella generazione , cioè nel processo per cui la vita si alterna tra i due poli dell'individuale e dell'universale.
La generazione si trova rappresentata in tutto il suo sviluppo nell'unità concreta della famiglia. Imperciocchè la famiglia contiene una duplice relazione che si potrebbero dire, una la contradizione, l'altra la soluzione, vale a dire l'amore scambievole dei genitori da una parte, ed il loro rapporto dall'altra. La famiglia è la prima unità naturale; ma il suo vincolo benchè sostanziale, esistendo nella forma accidentale di sentimento, tende a diventare più razionale anche nella forma, perciò la famiglia si scioglie, ed i figli divenuti indipendenti colla piena e sviluppata coscienza della loro individualità cessano di considerarsi come membri di questo tutto, e si pongono come centri per sè. Questo stato di disgregamento, che trammezza tra l'unità della famiglia che si è disciolta, e l'unità dello Stato che si deve ancora costituire, presenta una moltiplicità d'interessi particolari, nei quali non vi è un centro unico; ma invece ogni individuo è centro de' suoi interessi. Ognuno considera tutti gli altri individui dal punto di vista dell'interesse, e li tiene come mezzi per procurare il proprio ben essere. Se non che l'interesse proprio trovandosi in mezzo agli interessi altrui, e perciò in conflitto con questi, da quel conflitto medesimo ritrae la limitazione e la misura. – Chi ha di mira l'interesse proprio, onde assennatamente conservarlo, bisogna che non trascuri l'interesse altrui; tal che l'interesse particolare è costretto, per non annullare se stesso, a tener conto dell'interesse generale. Così dalla sfera della particolarità degli interessi, dove gli individui si trovano divisi ed in contrasto, ci vediamo per necessità trasportati nella sfera dell'interesse generale, o della società civile.
La società civile però non si deve scambiare collo Stato come per un certo riguardo l'ha scambiata Kant. Ad evitare questa confusione è d'uopo tenere in veduta, che la società civile rappresenta la conciliazione degli interessi particolari fatta mediante l'interesse comune. Ora l'interesse, comunque si riguardi, non esprime la sostanziale nozione dell'individuo, talchè l'associazione civile ha molto dell'arbitrario. Se fosse lo Stato una semplice associazione civile fondata sulla comunanza degli interessi, ciascuno sarebbe libero di entrarvi o di uscirne, secondo che trovasse ciò più confacente, più profittevole ai suoi interessi. Intanto Kant sostiene, che lo stato non solo garantisce gl'interessi particolari ma di più che ciascun individuo è obbligato di entrarvi, e che nessuno di suo proprio arbitrio può uscirne. Ora d'onde proviene questa necessità? Perchè io debbo stare in comunanza d'interessi con altri quando non trovo del mio interesse il farlo?
Tutti quelli i quali fanno originare il concetto dello Stato dal bisogno di soddisfare alle inclinazioni particolari, cadono in questa contradizione, nè possono spiegare come un individuo, il quale è entrato a far parte di uno Stato solo per proprio comodo, non possa poi uscirne quando gli aggrada, e quando questo comodo si cambia in incomodo.
Partendo da questo falso concetto dello Stato non si è saputo spiegare neppure come lo Stato avesse dritto di punire. È supposto anche che questo dritto gli venisse da un accordo fatto originariamente come estenderlo fino alla pena di morte? Come credere che un uomo abbia potuto spontaneamente rinunziare alla vita solo a fine di procurarsi una soddisfazione ai suoi bisogni, ed una più agiata esistenza? Tutte queste difficoltà e molte altre di simil genere rimarrebbero insolubili, se allo Stato si attribuisce un origine così particolare, come è l'accordo degli interessi.
Kant si è accorto che se è necessario all'uomo a far parte dello Stato, bisogna trovare la causa di questa necessità al disopra degli interessi particolari. Egli sciolse la questione, al solito, secondo il formalismo di tutta la sua filosofia. A Kant non manca certamente il rigore logico, ed ammesso una volta un principio, non tralascia di cavarne nè anche una sola delle conseguenze che vi sono implicate. Ricordando adunque che per lui il contenuto della conoscenza si ricava dalla particolare natura sensibile, e che la ragione dà poi a questo contenuto la forma della necessità, noi troviamo in questa teoria applicata al dritto la spiegazione dell'origine dello Stato.
Lo Stato per Kant non ha un contenuto proprio, come non l'ha la ragione speculativa, come non l'ha la ragione pratica. Lo Stato è per lui una forma vuota il cui contenuto si trova negli interessi particolari degl'individui. Ma questa forma vuota però è necessaria, e gl'individui debbono necessariamente sottostare alla necessità che essa impone, e nessuno può sottrarsene, perchè essa nella sfera del dritto rappresenta la ragione assoluta. Così Kant mentre fa lo Stato arbitrario ed accidentale nel suo contenuto, dall'altra parte gli accorda la necessità, considerandolo come forma. In questa teoria come in ogni altra di Kant, si affaccia sempre questa difficoltà: come è possibile che una forma possa essere priva di un contenuto che le sia adeguato? Ma prima di supplire al difetto della teoria kantiana stimiamo opportuno accennare alle due dottrine opposte sull'essenza dello Stato, tra le quali Kant, a parer nostro, ha cercato di trovare una via di mezzo. – Platone nei famosi libri della Repubblica fu il primo ad avvertire che lo Stato è un'idea più universale e perciò secondo i suoi principii, più reale che non fosse quella dell'individuo. Egli perciò considerò l'individuo come mezzo e lo Stato come fine, e movendo da questo principio cercò di sopprimere al possibile le particolarità dell'individuo per far meglio trionfare l'unità dello Stato. Onde avendo veduto nella famiglia e nella proprietà due sorgenti di divisioni e di contrasti, e quindi due ostacoli che nuocevano all'armonia dello Stato, osò distruggere l'una e l'altra, ammettendo la comunanza delle donne e la comunanza dei beni.
I genitori ed il proprietario non erano altro che lo Stato. Degli individui si teneva conto e se ne esaminavano le naturali disposizioni solo per poterli usare con maggior profitto ad attuare l'armonia di questo grandioso ideale.
La teoria di Platone sullo Stato ha un lato vero ed uno falso. È vero che l'idea dello Stato sia più concreta che quella dell'individuo, e che perciò abbia un contenuto proprio e sostanziale. Dall'altra parte poi è falso che l'universale debba sopprimere il particolare, quando invece il primo non può realizzarsi senza il secondo. L'aver Platone fatto consistere tutta la realtà nell'idea, è stato causa di avere annullato la particolarità dell'individuo anche in politica. Platone, come Kant, è coerente in tutte le sue dottrine. – All'opposto dell'ideale platonico dello Stato noi troviamo il contratto sociale di Rousseau. Pel filosofo ginevrino lo Stato non ha realtà per sè, ma è il risultato delle volontà individuali, che si accordano insieme in un contratto primitivo. Questa dottrina, come è agevole rilevare, è in perfetta opposizione con quella di Platone. Il filosofo ateniese aveva detto: lo Stato è il fine, l'individuo è il mezzo. Il filosofo ginevrino dice: l'individuo è il fine, e lo Stato è il mezzo.
Kant, come abbiamo or ora veduto seguì la via di mezzo tra le due opposte tendenze, e ritenne la volontà universale, che era il solo elemento considerato da Platone come forma necessaria e la volontà individuale alla quale sola aveva badato Rousseau come contenuto dello Stato.
Ma lo Stato, giusta l'accurata definizione che ne dà Hegel, è il mondo che lo spirito si fa da sè. Esso dunque deve presentare tutti i caratteri di un organismo bene sviluppato. I momenti di ogni organismo, come quelli di ogni nozione, sono tre; il principio, il mezzo ed il fine. Ciascuno di questi tre momenti per essere perfettamente sviluppato in sè deve contenere gli altri due; di guisa che ne avviene una mediazione reciproca, per la quale ciascun termine deve servire di mezzo allo sviluppo degli altri.
Dalle cose dette s'inferisce non potersi dire esclusivamente che l'individuo sia mezzo e lo stato fine, come sarebbe assurdo anche sostenere la contraria tesi in senso esclusivo. La verità sta nella mediazione reciproca di tutti i termini per la quale ciascuno è ad un tempo mezzo e fine; ha un valore ed una consistenza propria ed insieme serve di mezzo allo sviluppo dello intero.
Sotto questo punto di vista lo Stato ha un valore per sè, e serve allo sviluppo dell'individuo e della società civile. Il voler ristringere, come ha fatto Kant, il concetto dello Stato alla semplice condizione di mezzo ed a valersene per garantire l'individuo e gl'interessi particolari, è un dimezzare questo concetto. Nella teoria kantiana si tiene conto di un solo aspetto dello Stato, non dell'intero; si considera lo Stato come mezzo non come fine; si guarda il valore che ha verso gli altri termini e si trascura il valore proprio ed intrinseco.
Noi abbiamo detto che lo Stato è il mondo oggettivo dello spirito, mondo che differisce dal naturale, perchè questo ultimo è fatto dalla necessità, e l'altro dalla libertà. Ma entrambi hanno di comune di essere costruiti a forma di sistema, ossia razionalmente e non a caso. – Ora come sarebbe assurdo ammettere l'esistenza degli esseri particolari, e degl'individui, e negare l'esistenza dell'universale che forma la loro armonia, nel mondo della natura, altrettanto sarebbe assurdo il negare l'esistenza dell'universale nello Stato.
Lo stato è tutto quanto lo spirito realizzato come libertà. La libertà si determina o come volontà subbiettiva, come volontà particolare, o come volontà universale. Sulla prima si fonda il dritto privato dell'individuo, sulla seconda si fonda il dritto comune dei particolari che si uniscono insieme; sulla terza finalmente si fonda il dritto assoluto, o lo Stato, come volontà universale, la quale si determina per sè medesima.
Nello Stato la volontà si dispoglia di tutte le determinazioni estrinseche ed accidentali: essa non apparisce più nella forma di sentimento come nella famiglia; e nè anche nella forma d'interesse, come nella società civile; essa si determina come ragione, e perciò si determina per sè stessa, perchè la vera libertà non è altro che ragione.
Nel determinarsi come ragione, la volontà raggiugne la pienezza del suo sviluppo, e perciò nello Stato soltanto la libertà acquista piena coscienza di sè stessa. L'uomo, come cittadino di uno Stato razionale e perfetto, tocca l'apice del suo sviluppo e vale assai meglio dell'uomo che avesse una sterile e subbiettiva moralità. Imperocchè nella morale l'individuo raggiugne una perfezione che si restringe nella sua sfera subbiettiva, mentre nello Stato egli realizza esteriormente la sua interna virtù. I Pitagorici avevano in gran pregio lo Stato, tanto che si racconta di uno di essi, che a suo figlio augurava di esser cittadino di buono Stato. Benchè lo Stato debba considerarsi come il razionale ed assoluto dritto che esiste per sè, esso appunto perchè segna l'ultimo grado dello sviluppo della libertà, deve contenere i gradi precedenti. Il credere che l'universale per porsi come sostanziale ed assoluto, debba sopprimere le determinazioni particolari a traverso le quali è passato, è un'opinione erronea, che guasta il vero processo dialettico, come notammo a proposito della Repubblica di Platone. E non solo lo Stato deve contenere in sè il momento individuale e particolare, ma deve ritenerli inoltre come momenti essenziali della sua propria nozione. Perciò lo Stato razionalmente contiene tre poteri, che corrispondono ai tre gradi menzionati. Il potere legislativo rappresenta l'universalità dello Stato. Il potere amministrativo esprime il momento della particolarità e della divisione. Il potere esecutivo finalmente rappresenta il momento della individualità; è lo Stato considerato come una persona. Questi tre momenti considerati isolatamente hanno dato origine all'antica divisione delle forme del Governo.
Dove la cosa pubblica era in mano di tutti i cittadini la forma si disse democratica: dove era in mano di alcuni la forma si disse aristocratica; e dove infine era in mano di un solo si disse monarchica; anzi il Vico tracciò sopra questo sviluppo dei numeri il processo dei governi. «Incominciarono, ei dice, i governi dall'Uno colle monarchie famigliari; indi passarono ai Pochi colle aristocrazie eroiche; s'inoltrarono ai Molti e Tutti nelle repubbliche popolari, nelle quali o tutti, o la maggior parte fanno la ragion pubblica; finalmente ritornarono all'Uno nelle monarchie civili: nè nella natura dei numeri si può intendere divisione più adeguata, nè con altro ordine che Uno, Pochi, Molti e Tutti, e che i pochi, molti e tutti ritengano ciascheduno nella sua specie la ragione dell'uno; siccome i numeri consistono in indivisibili, al dir di Aristotile; ed oltrepassando i tutti si debba ricominciare dall'uno; e sì l'umanità si contiene tutta tra le monarchie familiari e civili.» 17
Prima di passare oltre notiamo la differenza che passa tra Stato e governo. Lo Stato si può meritamente dire l'ideale del mondo che lo spirito si crea ad imagine dell'eterna ragione. Il governo è la coscienza attuale di questo ideale, per quanto si è sviluppata in un popolo. Tra Stato e governo corre la stessa relazione che il Vico pone tra il vero e il certo. Quindi segue che lo Stato è sempre uno, ma che le forme di attuazione sono diverse, e che la loro perfezione si misura dall'attuazione più meno completa dell'eterno ideale.
I governi non si debbono dunque giudicare secondo il criterio del numero di quelli che vi prendono parte perchè questa considerazione numerica e quantitativa è meramente estrinseca e superficiale. Il sano criterio per giudicare la rettitudine di un governo è di vedere quanto sia lo sviluppo della libertà che in esso si trova attuato. E quando diciamo libertà, non diciamo sfrenato arbitrio, ma al contrario attività razionale. E poichè il governo dipende dallo sviluppo di questa libertà nella coscienza di un popolo; perciò ogni popolo ha quel governo che merita.
Contro questa teoria si è mosso il rimprovero di insultare alle vittime di un governo dispotico e non meritato. Questo rimprovero ha l'apparenza del vero, ed anche noi conveniamo che in un governo dispotico si possono trovare alcune anime libere e generose. Però questi saranno sempre i pochi e non la maggioranza; ed un governo è fatto per la maggioranza e non già per le eccezioni. Con questo non assolviamo i cattivi governi, ma soltanto ne spieghiamo l'esistenza. La storia assennatamente consultata e guardata nelle sue profonde ragioni è certo d'accordo con questa dottrina.
Volendo poi trovare un governo, il quale attuasse nella sua integrità l'ideale modello dello Stato, dove si dovrebbe cercare?
Hegel, a cui a torto si è rimproverato d'immolare la libertà al suo fatalismo logico, risponde così: «La conformazione dello Stato a monarchia costituzionale è l'opera del nuovo mondo, in cui l'idea sostanziale ha acquistato l'infinita forma.» 18 Da tale risposta si può facilmente argomentare come Hegel propugnasse la libertà anche nelle istituzioni civili e politiche. Coloro che l'hanno accusato del contrario, hanno scioccamente creduto che la libertà non fosse ragione, e che la politica per essere liberale dovesse contrastare colla logica.
Tornando ora ad indagare il perchè la monarchia costituzionale fosse a ritenere come l'infinita forma dello Stato ci basta accennare la sua struttura. Avendo noi proposto di mostrare soltanto le supreme e razionali ragioni dello Stato per non entrare in materie estranee a' nostri studii, ci limiteremo a toccarne i principali tratti.
La monarchia costituzionale consta di tre poteri, che sono il legislativo, l'amministrativo e l'esecutivo; perciò esso corrisponde ai tre momenti della nozione dello Stato, all'universale cioè, al particolare, e all'individuale.
Il potere legislativo appartiene a tutti, e perciò tutto il popolo mediante i suoi rappresentanti piglia parte alla formazione delle leggi. Così la legge può dirsi che realmente rappresenti la volontà universale, e non già un particolare interesse. Avvegnachè quando gli uomini deliberano insieme essi non possono volere che la giustizia. Vico fa notare ciò ed anzi crede che dalle pubbliche adunanze Platone ed Aristotile hanno cavato profitto per le loro teorie.
«Platone, ei dice, dal riflettere che in tali radunanze pubbliche le menti degli uomini particolari, che sono appassionate ciascuna del proprio utile, si conformavano in un'idea spassionata di comune utilità; che è quello che dicono: gli uomini particolarmente sono portati dai loro interessi privati, ma in comune voglion giustizia; si alzò a meditare le idee intelligibili, ottime delle menti create, divise da esse menti, create le quali, in altri non possono essere che in Dio: e s'innalzò a formare l'Eroe filosofico, che comandi con piacere alle passioni; onde Aristotile poscia divinamente ci lasciò difinita la buona legge, che sia una volontà scevra di passioni, quanto a dire volontà di Eroe. 19
Il governo costituzionale estendendo adunque alla universalità del popolo il potere legislativo attua perfettamente la nozione di legge, e conserva il momento dell'universalità, che entra essenzialmente nella nozione di Stato.
Il potere amministrativo invece è ristretto in alcuni, e rappresenta il momento della particolarità, o della divisione dell'azione del governo sulla sfera degli interessi particolari. Il principale ufficio del potere amministrativo, è il potere giudiziario; che anzi alcuni hanno ridotto a questo solo ufficio tale secondo potere dello Stato. Ammessa la legge come l'espressione della volontà universale, è necessario che le volontà particolari dei cittadini si uniformino ai suoi dettami. Questa riduzione del particolare sotto l'universale è l'opera di un giudizio. Il potere giudiziario è limitato dunque in questa sfera; esso non può oltrepassare i confini di tale applicazione, e di esaminare il valore della legge. Ciò si vuol significare quando si dice che i poteri dello Stato non debbono confondersi l'uno coll'altro. Ognuno è indipendente nella sua sfera, e può riguardarsi come assoluto; ma però l'indipendenza non importa separazione, e come vedremo or ora i poteri dello Stato debbono formare un sol tutto.
Per assicurare l'indipendenza dei giudici il più che si potesse si è istituito il giurì, nella quale istituzione i cittadini medesimi sono chiamati a fare da giudici, ed in simil guisa i giudizii vengono sottratti all'influenza governativa. Come i giudici non possono fare leggi, così i legislatori non possono giudicare; e tutti ricordano a questo proposito la risposta di quel contadino a Federico di Prussia il quale gli aveva detto che era il Re; ed a cui il contadino rispose: In Prussia abbiamo buoni tribunali.
Il potere esecutivo rappresenta l'individualità dello Stato, l'Io voglio assoluto che prende persona nella volontà del sovrano. Questo terzo potere benchè potesse trovarsi ancora diviso in un certo numero d'individui, che compongono una persona detta morale, nondimeno è più naturale e più ragionevole che si attui in una persona singola e concreta. Questa necessità è stata riconosciuta anche nelle moderne repubbliche dove il potere esecutivo è affidato ad un presidente. L'energia della volontà viene rallentata, e spesso totalmente distrutta dai contrasti o dai lenti consigli. Tutti sanno quanto nuocessero a Roma i due consoli ed a Sparta i due re i quali si trovavano quasi sempre in disaccordo e in antagonismo. La maturità dei consigli, e la lotta delle opinioni è utile, anzi indispensabile nel potere legislativo; ma quanto alla esecuzione si richiede unità e celerità di azioni, e pronto e risoluto procedere.
Riassumendo le cose dette troviamo che nella monarchia costituzionale i tre momenti della nozione dello Stato sono pienamente attuati. Questi tre poteri di cui abbiamo fatto parola rappresentano tre assoluti nel loro genere, ma tutti e tre non formano poi che un solo assoluto, lo Stato. L'assolutezza di ciascuno ha però un carattere differente, secondo la sua diversa qualità.
Il potere legislativo deve essere irreprensibile, cioè che una legge una volta stabilita non può essere più tacciata d'ingiustizia. Il potere giudiziario è assoluto di un altro modo; esso è inappellabile. Una sentenza una volta pronunziata si deve tenere per vera, e non è lecito muoverne appello o richiamo.
Il potere esecutivo da ultimo deve essere irresistibile. Esso non rappresenta la forza privata, ma la pubblica, quella che attua l'assoluto dritto; perciò contro di essa nulla debbono potere le forze dei cittadini privati, qualunque fosse la loro alta condizione. Un popolo tanto si dee stimare libero quanto più rispetta questi tre poteri, perchè in essi non deve vedere nulla di arbitrario, ma l'espressione dell'assoluto dritto, dell'assoluta ragione.
I tre poteri dello Stato, benchè indipendenti ed assoluti ciascuno in sè, sono però tanto necessariamente legati insieme, da non potere esistere l'uno senza dell'altro. Una legge la quale non fosse applicata dai giudici, ed eseguita dalla forza pubblica, sarebbe una parola morta. Un giudizio, che non si fondasse sulla legge, sarebbe un capriccio ed un torto. La forza, la quale non venisse ad attuare il dritto, che non esprimesse esteriormente la potenza della legge, sarebbe una violenza ed un potere dispotico. Perciò ragionevolmente Kant diceva, che i tre poteri dello Stato sono coordinati e subordinati fra di loro. Della coordinazione abbiamo accennato qualche cosa in questo presupporsi a vicenda che abbiamo notato tra i poteri dello Stato. Quale sarebbe ora la loro subordinazione? Il medesimo Kant con molto ingegno e con pari verità ha detto che l'organismo dei tre poteri dello Stato è lo stesso di quello del sillogismo. E ciò è molto naturale, perchè ogni nozione perfettamente sviluppata deve risolversi nel sillogismo. Di tal sillogismo il potere legislativo sarebbe la maggiore, come quello che esprime la volontà universale. Il potere amministrativo (di cui Kant ritiene il solo giudiziario) ne sarebbe la minore. Il potere esecutivo finalmente ne sarebbe la conclusione esprimendo l'individualità dello Stato rivelantesi come volontà e come forza. Lo Stato costituisce un organismo a sè, ed una persona, e come tale è autonomo e indipendente. Noi abbiamo veduto come una persona dirimpetto ad un'altra conservi la propria inviolabilità, e che la libertà si arresta là dove incontra un'altra libertà, che ha pari dritto alla indipendenza delle sue azioni. Questo momento negativo che nella sfera interna dello Stato è il fondamento del dritto privato, quando si considera uno Stato verso un altro diviene il fondamento del dritto pubblico internazionale. Uno Stato trova il suo limite nell'esistenza di un altro Stato. Ora come le singole persone debbono necessariamente entrare a far parte di uno Stato per realizzare pienamente la propria libertà, così parimenti gli Stati debbono entrare in relazioni giuridiche tra di loro, perchè l'universalità della ragione assoluta attira nella sua orbita tutte queste singole sue manifestazioni. Non per tanto non si deve confondere la relazione d'individuo ad individuo nel medesimo Stato colla relazione che corre tra Stato e Stato. Il contenuto del dritto privato è ben altro del dritto internazionale, essendo il primo finito ed il secondo infinito. Una persona che viola i dritti altrui è soggetta alla podestà punitrice dello Stato, perchè lo Stato sovrasta all'individuo. Non così avviene quando la violazione del dritto di uno Stato è fatta da un altro Stato, perchè allora essendo entrambi eguali e non potendosi l'uno arrogare il dritto di punire l'altro e nemmanco di ricorrere ad un terzo Stato, che sarebbe anche loro eguale, si deve ricorrere ad uno spediente di natura diversa che non sia il giudizio nel dritto privato. Ogni violazione del dritto implica in sè stessa la pena, come ammenda del torto arrecato. Il punire non è soltanto un dritto dello Stato, ma è, come dice benissimo Platone, un dovere: è l'ordine ideale medesimo, che nella sua dialettica porta la necessità della pena, la quale è la negazione razionale che annulla la negazione irrazionale del dritto, che aveva fatto il reato. Or dunque se la pena deve seguire ad ogni violazione del dritto, se non si trova un tribunale al quale non si possa assoggettare uno Stato delinquente, qual modo si dee tenere per punire le violazioni commesse da questi? Questo modo è la guerra. Noi troviamo che presso i popoli, ove ancora non esistevano tribunali i giudizii si definivano col duello. Vico ha da questo ricavato il principio giuridico, che i popoli credevano alla necessità della pena, e che in difetto della ragione umana si fossero appellati alla ragione divina che a loro sembrava manifestarsi per mezzo della sorte delle armi. Questo spediente, escogitato nei tempi barbari per le contese private, è rimasto come mezzo indispensabile per le contese pubbliche degli Stati.
La guerra manifesta il momento necessario dell'antagonismo nel mondo dello spirito. Se in tutta la natura ed in generale in tutte le esistenze si appalesa la lotta dei contrarii, come è possibile di evitarla nel mondo della libertà dove il contrasto è più vivo, più conscio, più impetuoso? Alcuni hanno creduto che col progresso della civiltà si potessero rimettere le controversie degli Stati ad un'adunanza suprema, dove giudici fossero tutti i sovrani. Per tal guisa si è sognata l'età dell'oro nell'avvenire, e la pace è stata vagheggiata come l'ultima mèta dove l'umanità andrà a riposarsi. Kant tra gli altri ha creduto alla possibilità di questa alleanza universale e pacifica di tutti gli Stati, ed ha scritto un disegno di pace universale. Egli medesimo però si accorge che il suo progetto è di difficile, e noi soggiungiamo d'impossibile esecuzione. Egli anzi riferisce l'epigramma di un albergatore olandese, il quale aveva fatto scrivere questa iscrizione: alla pace perpetua, e sotto aveva fatto dipingere un cimitero. La pace difatti farebbe stagnare l'umanità e la ridurrebbe all'inerzia della tomba. Come le tempeste e gli uragani sono necessarii all'atmosfera, così le guerre alla conservazione degli Stati. La guerra infine rivela una grandissima verità ed è che l'idea dello Stato prevale a tutti i fini particolari, e che la vita degli individui gli è meritamente sagrificata. Spettatori noi medesimi, nel momento che scriviamo, di una guerra nazionale, e commossi dallo spettacolo di tanto sangue cittadino generosamente versato, esultiamo nondimeno pensando che l'idea di una patria si è attuata finalmente nella coscienza del popolo italiano. L'eroico sagrificio dell'individuo allo Stato apparisce per noi come fatto splendido e glorioso nel grido con cui i moribondi della Palestro acclamano all'Italia prima di affondare per sempre fra le onde.
FINE.
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