Marco Monnier
La camorra: notizie storiche raccolte e documentate
Lettura del testo

II. LA CAMORRA NELLE PRIGIONI.

«»

II.
LA CAMORRA NELLE PRIGIONI.

Le prigioni della Vicaria – L'olio per la Madonna – I diritti dei camorristi – I poveri sfruttati – Il giuoco forzato – Il vino ed il tocco – Come un prete divenisse camorristaNotizie sopra i coltelli – Il bastone del CalabreseUtilità della camorraDiego Zezza – Il CaprarielloCorrispondenze fra i camorristi – I capi Mormile e ZingoneSalvatore di Crescenzo, il grand' uomoCodice penale della camorra – Il diritto di grazia.

Quando un delitto qualsiasi, un assassinio, a mo' d'esempio, ovvero opinioni liberali, conducevano un prevenuto nelle prigioni di Castel Capuano (o, come più comunemente si chiamavano, alla Vicarìa), dopo aver varcato la gran porta di questo palazzo, costruito dal re Guglielmo nel secolo XII, e dopo aver percorso la galleria che circonda la corte, esso giungeva per una grande scala ad una porta assai bassa, dalla quale un uomo di statura mediana non poteva passare senza togliersi il cappello. Questa porta, o meglio queste due porte (dacchè ve ne erano due simili), sormontate entrambe da affreschi religiosi rappresentanti una Madonna e l'Angiolo che liberò san Pietro, s'aprivano e si richiudevano sulle due prigioni, nelle quali erano confusamente raccolti i malfattori e gli amici del progresso: la prigione de' nobili, e quella del popolo.

Parlo del passato, perchè descrivo questi tristi luoghi nello stato in cui si trovavano sotto il monarcato di Ferdinando II. Copio la mia descrizione da un quadro dipinto al naturale da una delle più costanti vittime de' Borboni, Alessandro Avitabile, drammaturgo fecondo e patriotta incorreggibile. Sotto il precedente regime egli veniva arrestato ad ogni istante, senza che gli se ne dicesse il perchè, e dopo qualche mese era posto in libertà, senza una parola di scusa: egli passava cosi metà della sua vita sul teatro, e l'altra metà in prigione. Oggi è impiegato superiore nella Questura di Napoli.

Quando il prevenuto, a seconda del suo stato, avea varcato o l'una o l'altra porta, giungeva in una piccola stanza, dove trovavansi i cancellieri e una specie di scriba, il quale registrava il nuovo arrivato e chiedevagli (frase invariabile) se contava prender il pane e la minestra del fisco. Dopo di che il carceriere in capo conduceva il prigioniero nella sala che gli veniva destinata.

Da quel momento esso cadeva nelle mani de' camorristi. Un bravo si avvicinava a lui colla mano stesa o meglio alzata, e cominciava dal chiedergli danaro per il lume della Madonna. È noto che a Napoli la immagine della Vergine non solamente è affissa su tutti i canti delle vie, ma anche nelle botteghe le più profane, nei caffè, nelle taverne e perfino ne' postriboli. Le prostitute, alla pari delle donne oneste, si addormentano la sera, sotto l'immagine della Madre di Dio, che esse, per devoto pudore, tengono velata durante le loro turpitudini. La Madonna può dunque a maggior ragione essere anche nelle prigioni venerata dai malfattori e dai camorristi incaricati di fornire l'olio della lampada, che deve stare accesa dinanzi a lei. A tale effetto, essi richiedono una contribuzione a tutti i detenuti, e guadagnano per tal modo di che illuminare la città intiera. È questo un costume immemorabile, del quale si ritrovano le traccie ad ogni passo, risalendo nella storia di Napoli, fino alla conquista spagnuola, e nella storia della Spagna fino al medio-evo. L'olio per la Madonna fornì in ogni epoca pretesto ad ogni sorta di frodi, e alla più umile di tutte, cioè all'accattonaggio.

Ma, pagato l'olio, il detenuto non potea dirsi libero dai camorristi; nelle mani dei quali rimaneva fino a che non uscisse dalla prigione. Non poteva muovere un passo, senza avere alle calcagna un uomo fatale che gli facea sentire tutto il suo peso, che lo stancava con un'implacabile vigilanza. Lo sventurato non godeva neppure di quel po' di libertà, che lascia il peggior carcere: ogni atto il più indifferente di lui era non solo spiato, ma sottoposto rigorosamente a contributi; non eragli lecito mangiare, bere, fumare, giuocare senza la licenza del camorrista. Doveva un decimo sopra tutto il danaro che gli perveniva. Pagava per aver il diritto di comprare, pagava per aver il diritto di vendere. Pagava per ottenere sì il necessario come il superfluo, pagava per aver giustizia, come per ottener privilegi: pagava perfino quando, più povero e più nudo delle mura del suo carcere, era costretto a privarsi di tutto. Quelli che rifiutavano di sodisfare tali imposte correvano rischio d'essere uccisi a colpi di bastone. La maggior parte de' prigionieri si rassegnava a questa crudele schiavitù, e si lasciava togliere soldo per soldo tutto il danaro dall'infaticabile oppressione di uno di codesti tristi, il quale però lo proteggeva contro gli altri, e bisognando, si batteva per la sua vittima, dopo averla spogliata dell'ultimo suo cencio.

Volete ragguagli precisi sulle estorsioni de' camorristi di Castel Capuano? Ho potuto consultare in proposito molti antichi prigionieri politici, e fra gli altri il signor Michele Persico (già deputato) e il signor Fittipaldi (oggi ispettore delle Poste), i quali subirono questo singolare dispotismo e lo studiarono con seria attenzione. Essi mi hanno narrato che la camorra disponeva di tutto, cominciando dalle armi, delle quali tollerava o proibiva l'uso. Quando un prigioniero di un certo grado era condotto alla Vicaria, riceveva bene spesso non dai carcerieri, ma dai settari, di quelli assai più potenti, la licenza di portare un coltello a propria difesa. In tal guisa avvenne che all'arrivo alla Vicaria del signor Michele Persico e del barone Carlo Poerio, si presentò loro dinanzi un compagno di carcere (oggi onest'uomo), il quale, fatta una profonda riverenza, disse offrendo loro due stili: «Prendete, eccellenze, noi vi autorizziamo a portare queste armi

Ma, oltre alla tassa regolare che il camorrista imponeva ai prigionieri di buona condizione, assegnava ad essi i domestici destinati al loro servizio; ve ne erano di tre specie: i servi, i chiamatori e i quartiglieri: questa gente non era affiliata, ma soggetta alla setta, la quale dava loro l'impiego, e questa la sottoponeva poi a contributi.

Ma, e lo ripeterò più d'una volta, la camorra guadagnava più specialmente co' poveri. Aveva pe' ricchi un certo rispetto, o almeno esercitava minor influenza su di essi, non potendo costringerli alle sue voglie per mezzo di bisogni urgenti o di vizi ignobili; mentre i poveri erano i primi a richiedere, per tutti gli atti della loro vita, l'assistenza interessata de' compagni. Così molti detenuti vendevano a vil prezzo ad un camorrista, non solo le vesti che ricevevano due volte all'anno, ma anche metà della minestra e del pane quotidiano. Il camorrista rivendeva quelle vesti e quel vitto ai fornitori delle prigioni, che vi trovavano il loro tornaconto, e che rinviavano e gli uni e gli altri ai detenuti, senza il menomo scrupolo; circolo vizioso dove due sorta di speculatori si arricchivano a spese di alcuni sventurati, poco vestiti, peggio nutriti, strappati, affreddoliti, affamati

Ma perchè questi sciagurati vendevano la minestra e gli abiti? Per fumare un sigaro, per bere un bicchier d'Asprino, più spesso per giuocare, unica distrazione possibile. Ora il tabacco, il vino, il giuoco, erano in poter della camorra. Così il danaro, che la setta avea pagato per togliere ai detenuti la lor veste nuova o il loro vitto, tornava fatalmente alla setta, la quale speculava sui piaceri dopo aver speculato sui bisogni. basta: i camorristi costringevano i prigionieri a giuocare, offrendo loro imperiosamente un mazzo di carte: que' malaugurati erano obbligati a giuocare sotto pena di esser bastonati.

Una fra le ordinarie ricreazioni della prigione era la mora o come la chiamano a Napoli il tocco. Tutti gli Italiani e anco gli stranieri conoscono presso a poco questo divertimento popolare: due giuocatori alzano il pugno chiuso e lo lasciano cadere, aprendo un certo numero di dita (a loro capriccio) e gridando un numero qualsiasi. Il numero da essi annunziato deve corrispondere alla somma delle dita aperte da ambedue i giuocatori. Se questo calcolo di mero caso è giusto (se per esempio io grido cinque, aprendo tre dita, mentre il mio avversario ne apre due), si guadagna un punto. E poichè i pugni si alzano e ricadono insieme, e i due numeri sono annunziati nel tempo stesso, e ciò con lestezza e con cadenza, il giuoco diviene assai singolare per il nuovo capitato che non vi intende nulla.

Or bene. La mora o il tocco occupava giornalmente gli ozi della Vicaria. Vi si giuocavano delle bottiglie di vino, vendute dalla camorra, la quale avea il monopolio di questo commercio. Dopo averle pagato il vino, le si davano due soldi per ogni partita: dal che ne resultava che in brev'ora i giuocatori non aveano più un obolo. Allora rivendevano ai loro tiranni, per aver di che giuocare, il vino che aveano comprato; ma il danaro, che ne ritraevano, tornava ben presto in tasca dei camorristi, i quali, non contenti di aver ricevuto due volte il prezzo delle bottiglie, le bevevano invece alla barba dei giuocatori alterati e tre volte derubati.

Con queste piccole industrie, la camorra guadagnava molto danaro, che era da lei diviso col custode maggiore della Vicaria. Il signor Fittipaldi, che ha tenuto dietro a tali raggiri, mi ha assicurato che in questa sola prigione, e in una sola settimana, i proventi della setta ascesero a 280 ducati (circa 1200 lire italiane).

Siffatti esempi mostrano che i detenuti si lasciavano spogliare di buon animo. Ve ne furono per altro alcuni che scossero violentemente il giogo, e ebbero a lodarsene. Fra gli altri io ne conosco due, che, imprigionati sotto i Borboni per opinioni politiche, tennero un contegnofiero, la prima volta che la camorra tentò di porre le mani addosso ad essi, che fecero cadere ai loro piedi queste bestie feroci. Le tigri della vigilia divennero l'indomani miti come agnelli. A vederlipieni di sommissione e di umiltà si sarebbe creduto per un istante, che avessero presi i nuovi arrivati per loro capi. Non era però così: i camorristi s'inchinavano per i primi sotto la legge che essi stessi aveano imposta: alla pari delle loro vittime, essi piegavano al diritto del più forte.

Avvenne un giorno che un prete calabrese gettato in prigione per avventure galanti, fu avvicinato al suo ingresso da un camorrista; il prete non potè dargli un soldo per la lampada della Madonna, perchè non aveva danari. Il camorrista allora divenne cattivo e alzò il suo bastone. «Ah! (esclamò il prete, che era calabrese, e quindi uomo di coraggio) tu non saresti sì fiero, se io avessi un'arme sopra di me.» – «Non ve difficoltàrispose il compagno punto nell'onore. E corse subito nella sala vicina, dove chiese al suo capo due coltelli. Bisogna in proposito che io dica che in tutte le prigioni la società avea un deposito di armi, così bene nascosto, che i carcerieri e i sorveglianti non lo scoprivano giammai. Questo deposito era chiamato la pianta, ed era sempre sotto la custodia e a disposizione del capo4. I compagni si dirigono a lui per aver coltelli, quando ne hanno bisogno, astenendosi di portarne indosso nella prigione per il timore di esser frugati e disarmati dai gendarmi.

Il camorrista tornò dunque con due coltelli simili, ne offrì uno al prete e si pose in guardia: ma ho detto che il prete era calabrese: fu quindi il più destro, e uccise l'avversario. Allora soltanto fu preso dalla paura, perchè si sentì doppiamente minacciato e dai rigori della giustizia e dagli odii della setta; si credè sotto il pericolo di due condanne di morte. Ma con sua grande meraviglia sfuggì, Dio sa come, all'uno e all'altro rischio. Non solo il potere occulto abbuiò l'affare, forse per non compromettere la sua autorità, ma inoltre il prete, mentr'era per coricarsi, trovò sul letto una massa di soldi; era la sua parte del barattolo, che gli veniva distribuita come a un nuovo fratello: Egli la ricevè da quel giorno di settimana in settimana, durante tutta la sua prigionia.

Un fatto simile e recentissimo mi è stato narrato da un calabrese, ma questi era laico. Uscendo una sera da un'osteria, ove avea vinto al biliardo, fu aggredito da un uomo armato di un nodoso bastone, che gli chiese parte della sua vincita. «Con qual dirittochiese il calabrese. «Per la camorra» rispose l'altro. Il primo rifiutò nettamente, e perchè quegli alzava il bastone, il calabrese trasse uno stile. Il camorrista fuggì immediatamente.

Il giorno appresso, verso la medesima ora, uscendo dalla stessa osteria, il calabrese incontrò un altro uomo, che si avvicinò a lui col bastone non alzato ma steso, e gli disse: «Prendete, eccellenza.» – «Cosa vuoi tu che io prenda?» – «Questo stocco, che ho l' onore di offrirvi per il vostro bel contegno di ieri sera

Il calabrese ebbe un bel rifiutare il singolare dono; furono tante le insistenze dell'altro, che alla fine dovè contentarlo Da quell'epoca egli si vede salutare da plebei che non conosce, e che lo considerano come camorrista.

Ma tali esempi di ribellione sono ben rari, in specie nelle prigioni, dove è impossibile sfuggire all'oppressione della camorra. I detenuti subiscono tanto più umilmente questa tirannia, in quanto che spesso la invocano o la invocarono come una tutela. Alla Vicarìa, ove erano racchiusi confusamente tutti i prevenuti, innocenti o colpevoli, nell'isole, nei bagni, negli ergastoli ove i liberali vivevano uniti con gli assassini, siffatta tutela era necessaria agli onesti contro la brutalità de' loro compagni di pena. È anche probabile che in origine (e mi piace constatarlo per spiegare l'universale adesione, che ha per così lungo tempo mantenuto il prestigio della setta) la camorra fosse stabilita nell'interesse de' detenuti e per loro difesa. Certo è che anche sotto i Borboni la setta manteneva nelle carceri una specie di tranquillità e di sicurezza. Assumendosi il monopolio della violenza e del disordine, gli affiliati proibivano agli estranei d'imitare il loro esempio e di violare i diritti che si erano attribuiti. Estorcevano danaro, ma cuoprivano i ladri; avevano stili, ma confiscavano quelli altrui; pugnalavano all'occorrenza, ma impedivano gli assassinii. Così tutti coloro che tenevano alla propria borsa e alla propria vita si mettevano volentieri sotto il patronato della setta. Ogni detenuto avea il suo camorrista.

Inoltre l'autorità affidava ai compagni la cura di mantenere l'ordine. Ogni mattina, all'ora di alzarsi, questi andavano a trarre i detenuti dai letti che loro avevano affittati essi medesimi al prezzo di un carlino il giorno, o dai pagliericci concessi loro dal Fisco, e li riunivano per la conta, ossia per l'appello ordinario. Facevano rispettare la disciplina con quell'autorità di che difettavano i custodi. Il signor Persico mi ha narrato che un giorno, in sua presenza, uno dei più feroci accrastatori della città di Napoli, imprigionato per avere assassinato prima, poi spogliato un capitano spagnuolo sulla pubblica via, si permise una impudente infrazione ai regolamenti di Castel Capuano. Fece venire la sua mina (druda) al parlatorio e si trattenne lungamente con essa. Abbiate prudenza, gli disse uno dei suoi amici, o custode ce talea coi rubini (il custode vi spia co' suoi occhi). Ma il bandito non tenendo conto dell'avvertimento, il custode venne in persona a ordinargli di lasciare quel luogo; al che il detenuto rispose con insulti e scherni. La scena minacciava di finir male; il custode non ardiva venire alle mani col terribile facinoroso, che avea ucciso un capitano spagnuolo. Come adoperò egli pertanto per togliersi dall'imbarazzo? Chiamò in suo aiuto Diego Zezza, il camorrista.

Questo Diego Zezza era uno de' più forti adepti della setta. Avea per arme un rasoio infisso nel manico, col quale ammenava gravi ferite. Giungeva dalla prigione di Aversa, ove aveva tagliato la testa ad un uomo con quell'arme formidabile. Si avvicinò dunque senza timore al feroce accrastinaro, e presolo per i capelli, sotto gli occhi della sua amante (terribile oltraggio) sbatacchiò la testa di lui a più riprese contro il cancello, poi lo gettò sopra un letto, dove costui non osò moversi. Ben si scorge come la camorra, in caso di bisogno, rendesse de' servigi.

Questo Diego Zezza ebbe una trista fine. Racchiuso in seguito a Montefusco, sollevò contro medesimo, per gli abusi della sua violenza, una vera cospirazione. Perì assassinato non dai suoi confratelli, ma dai suoi compagni di galera.

Tale istoria me ne fa ricordare un'altra, che avvenne nell'ergastolo di Santo Stefano. Un camorrista de' più pericolosi, soprannominato Caprariello, vi era racchiuso. Una congiura, fu ordita anche contro di lui: ad un segnale convenuto, tutti i forzati lo assalirono con gridi di rabbia: si difese lungamente, ne ferì nove, quattro de' quali morirono. Si battè come un leone, correndo da un piano all'altro e anche per le gallerie sovrapposte, che circondano la corte del Bagno. Confinato finalmente in un canto della galleria superiore, non potendo più fuggire, e non volendo rendersi, salì sul parapetto di un arco, dove si difese ancora per qualche tempo, poi si precipitò nella corte, ove si sfragellò per la caduta. Gli assalitori non ebbero in loro mano che un cadavere mutilato.

Ho parlato de' servigi resi dalla setta alle autorità delle prigioni. Rispetto a quelli che essi rendevano ai detenuti, basta che io rammemori la storia del soldato napoletano, reduce di Lombardia. Egli avea fatto, a malgrado degli ordini di Ferdinando, la campagna del 1848: imprigionato al suo ritorno, fu spogliato nel suo ingresso alla Vicarìa di una forte somma in oro che portava in dosso. La camorra si incaricò di ritrovare il ladro, e vi riuscì: anche la somma fu ritrovata.

E ora, se si vogliono cogliere in flagranti questi singolari malfattori ed entrare nel segreto de' loro affari intimi, basta percorrere una corrispondenza curiosissima che il signor Aveta, questore di Napoli, cortesemente mi comunicò. Sono una quarantina di lettere, sorprese recentemente in una prigione, sottoscritte tutte col nome di Antonio Mormino, o Mormile, capo dei camorristi detenuti al Carcere Nuovo (prigione costruita espressamente per essi, se non m'inganno, in un canto del Castel Capuano). Queste lettere sono indirizzate a Don Vincenzo Zingone, che comandava i settari trasportati all'ospizio di San Francesco per causa o pretesto di infermità. Nulla havvi di più strano dello stile e dell'ortografia di questa corrispondenza di frodi. Ogni lettera ha un carattere differente, il che prova che Mormino, il capo onnipotente che avea diritto di vita e di morte su i suoi sottoposti, non sapeva scrivere. In ogni prigione la società ha un segretario, che giura segretezza entrando in ufficio; se manca al giuramento, è pugnalato.

Tutte le lettere che ho sotto gli occhi cominciano con questa fraseCaro compagno e compagni tutti – e la formola finale è generalmente la seguente: Tutti i compagni con me salutano tutt'i compagni con voi. – Ogni lettera è divisa per articoli, ognuno de' quali comincia con la parola Dippiù, congiunzione che sembra indispensabile. Quando lo scrittore non ha più alcuna cosa da dire, conclude con questa frase sacramentale: E non altro.

Non parlo della lingua dello stile, che somigliano a quelli de' comuni forzati. Noto soltanto l'estrema cortesia di Mormino verso Zingone, che sembra fosse a lui superiore o di lui più anziano, perchè ogni prigione era indipendente dalle altre, e i capi trattavano fra loro da eguale a eguale. Ma certi brani mi fanno credere che Zingone fosse stato l'iniziatore del giovane capo, che gli indirizzava lettere così rispettose e lo salutava ossequiosamente (vi ossequio, gli diceva, i più distinti saluti).

Passiamo ora all'oggetto di queste corrispondenze. 5 Vi si trattano gli affari interni della società; si parla di decisioni prese, di pene inflitte, di grazie accordate, di danaro da distribuirsi, della partenza, o dell'arrivo di un compagno, degli interessi comuni, e talvolta degli interessi privati de' camorristi. Mormino referisce esattamente al suo confratello tutto quanto avviene nella prigione, gli chiede consiglio o gli porge istruzioni, lo interroga o gli notizia sugli affiliati dubbi, gli trasmette le risoluzioni della società intorno ai detenuti che sono all'ospizio; gli invia danaro, o si scusa o di non inviargliene: «per spartere lo carusiello fa acqua la pipa» dice talvolta allegoricamente.

Queste lettere sono importanti finalmente a causa dei nomi che hanno rivelato alla polizia, tutti accompagnati di un soprannome pittoresco o faceto, testimoni Pasquale Legittimo detto Mozzone, Ferdinando Miele, detto chi t'è vivo? Giovanni Sigillo, detto Cannetella, Ricciardelli, detto Ciucciaro, Carmine Lonone detto Paparuolo, Carlo Delicher detto Svizzarotto (il che mostra che i figli dell'Elvezia a servizio del re di Napoli non sdegnavano di affiliarsi ai ladri), Niccola Furiano, detto Calabrese.

Nulla è più piacevole della imperturbabile gravità di Mormino, quando parla delle discussioni della setta. Invoca spesso le lezioni dei suoi predecessori, le tradizioni degli antenati. Non rende conto di una seduta della camorra senza far precedere il suo rapporto da questa frase liturgica «I miei doveri mi hanno chiamato a convocare la società per discluzionare quanto segue ec

Avanti di mostrare con qualche citazione la forma e il fondo di queste lettere debbo notare una cosa importante, cioè la esattezza e la regolarità di queste comunicazioni da una prigione all'altra, a malgrado di tutte le sorveglianze. Ho inteso dire che i custodi stessi servivano di messaggeri ai malfattori, ma credo piuttosto che individui estranei alla prigione, talvolta sconosciuti, si incaricassero di questo piccolo servizio di posta, testimone la raccomandazione scritta sull'esergo di molte lettere, «Date cinque soldi al latore

Ecco frattanto uno di questi manoscritti che copio testualmente, come modello di stile e di ortografia, sottolineo i nomi propri, e correggo fra parentesi le parole troppo strane.

«Caro Combangnio (Compagno)

«Dopo di avervi salutate con lunione (l'unione di tutti i compagni) vi rimette le vostre tangende, avvoi (a voi) e il combangnio Richezza dovete avere dieci carlini mene due granaOttaiano e il Monaciello li trasano (entrano) sei carlini e mezzo. – Bascolo sette carlini e mezzo – Per Simonetta la sua tangenda resta ibedita (impedita) – Tutta la summa ascende a quattro docati e uno grana. Dovete dare di mene (meno) al combangnio Richezza 27 grana da sopra alla sua tangenda perchè mi deve dare dui carlini e 7 grana a Branchale. La summa resta a rimettervi 37 carlini e quattro grana.

«Dippiù questa mana (mane) la Società si è benignate che tutti i camorristi che stavano in punizione labiamo (li abbiamo) alzate la mana (alzato la mano) e stanno in Società. Dippiù li camorristi che stavano alla sinistra che non passavano voti sono state messi al loro posto, come anche pratticate voi per Cazzarola che si rattrova allo Spitale. – Dippiù quando venne Salvatore decriscenza (de Crescenzo) cerchai grazia per li camorristi in punizione. Noi tutti solo giopovamo (ci opponemmo) per il Ciucciaro in ricuardo della lettera che mandai (mandò) a Pizzifalcone al combangnio Andolfo, che la detta lettera pregiudicava la Società. Noi abbiamo chiamate Andolfo per prendere condo (conto) di questa lettera e il detto Andolfo giasicurato (ci ha assicurato) che lui non aveva mai ricevute la lettera, giurando sul suo onore, e così questa mattina abbiamo parlate sul condo del Ciucciaro, non avendo trovate in chondravenzione, labbiamo alzate la mana (gli abbiamo alzata la mano) anche allui (a lui) cioè alla sinistra della Società. Non aldro. Mi dico per sembre e mi segna (segno)

il vostro combangnio
Andonio Mormino

Ho riferito questa lettera per intero, perchè è piena d'insegnamenti: ma essa abbisogna di un lungo commento. Antonio Mormino comincia dall'inviare al suo confratello Zingone la parte di camorra, che spetta a lui ed ai suoi subordinati nell'ospizio di San Francesco. Così i malati ricevevano regolarmente la loro tangente. La distribuzione del danaro estorto era fatto loro ogni settimana, alla pari degli altri. Le parti erano ineguali e la somma dei debiti contratti dai camorristi era prelevata su quella che doveano ricevere. Questa retribuzione era il soggetto ordinario e principale della corrispondenza fra i capi della setta.

Un altro punto meritevole di nota in questa lettera è l'alzata di mani, vale a dire la grazia accordata ai camorristi in pena, dietro l'intercessione dei loro confratelli. Così coloro che stavano alla sinistra furono amnistiati: subivano la pena più mite, cioè la privazione dell'onore del voto, non de' loro diritti pecuniari. – Vi erano pene anche più dure, ma ne parleremo in appresso.

Tratteniamoci un momento sulle grazie. Esse si accordavano, come ho detto, dietro le preghiere di un camorrista influente, ordinariamente d'un compagno giunto di recente in prigione, di cui si festeggiava l'arrivo con indulgenze plenarie. Così al giungere di Niccola Avitabile nel carcere nuovo della Vicarìa, la società riunita alzò le mani a Niccola Furiano detto il Calabrese, a Carlo Delicher detto lo Svizzarotto, a Carmine Pullo, detto Ciucciaro, lo stesso di cui si parlava nella lettera che ho notata di sopra «Bene inteso però, dice Mormino (di cui non riproduco l'ortografia), codesta società vi comunica di far sentire al Ciucciaro che i compagni di codesto carcere l'hanno rimpiazzato col laccio alla gola; 6 qualmente gli direte al medesimo che facesse conto che questa mano avesse avuto la camorra – ma un'altra piccola cosa che di disordine commetterà in questo spedale, vi autorizzo toglierlo di bel nuovo la camorra e rimetterlo al Presidio

Ecco ora una pena più grave, la privazione della camorra e l'invio al presidio, cioè in stato di sorveglianza. Questa pena equivaleva ad una sospensione temporaria, che privava il condannato di tutti i suoi diritti. La sospensione poteva durare un mese o due; con essa si punivano le infrazioni leggiere. Così nella lettera medesima, di cui ho citato un brano, trovo sospeso per un mese un Giuseppe Aiello, perchè aveva mancato di rispetto al camorrista di giornata. Un altro Ignazio Giglione è sospeso per un anno, perchè, essendo di giornata, avea mancato al suo dovere.

Ma queste pene erano raramente subite fino al termine fissato dalla sentenza. Come grandine piovevano le grazie. Così allorché il famoso Salvator De Crescenzo, il principe dei camorristi, il bravo, il saggio per eccellenza, il grand'uomo, come lo chiama Mormino, fece solennemente ritorno alla Vicarìa, col cappello in capo, col pugno sull'anca prendendo il passo su tutti, alzando la fronte innanzi a tutte le autorità, scartando i capi, eclissando le stelle, come il re Sole, egli estese la sua clemenza su tutti i delitti de' suoi sudditi, ch'ei si degnava di chiamar ancora suoi fratelli. Zingone fece qualche osservazione intorno a due picciotti di sgarro, ma Mormino si affrettò a rispondere: «Alzate le mani, perchè è un perdono generale invocato da Salvatore De Crescenzo; soltanto, se i delinquenti ricadranno in fallo, rimetto la loro sorte alla sublima vostra saggezza

Un'immensa acclamazione di gratitudine accolse l'amnistia concessa da De Crescenzo.

«Noi non bastano lingue (scrive uno de' graziati, Carmine Roselli) di poter ringraziare e l'una e l'altra società (quella del Carcere nuovo e quella di San Francesco) mentre noi non meritavamo!» O sacrosanta umiltà di un tagliaborse! Noi siamo ladri, assassini al bisogno; peccatucci! Ma abbiamo violate le leggi della camorra; ecco il delitto che pesa sulla nostra coscienza. Se la Corte di Assise ci assolvesse, essa non farebbe che il proprio dovere, ci degneremmo di farle neppure un saluto. Ma cadiamo in ginocchio davanti al compagno misericordioso che ci perdona!





4 Tre coltelli almeno erano sempre nelle mani del capo, che li portava seco malgrado ogni sorveglianza. Un ispettore di prigioni mi ha narrato, che avendo saputo dell'esistenza di questi tre coltelli, ordinò una perquisizione così minuta che finì per trovarli (chiedo scusa della particolarità) nella buca della latrina. Un quarto d'ora dopo fece una nuova visita nel camerone dei camorristi: i capi aveano già tre coltelli nuovi! – Toglieteceli (disse uno di essi all'Ispettore) – fra un quarto d'ora ne avremo altri tre.



5 In alcune (e pongo queste osservazioni in nota per non impinguare troppo il mio racconto) vi sono brani oscuri e spesso inintelligibili, come questo che spaventerebbe un commentatore dell'Alighieri: «Ciò che avete praticato in persona di Vincenzo Russo sta tutto bene, perciò il sonno di Napoleone il Grande fu bene decifrato da quei dotti che lo seguirono.» Questo Vincenzo Russo era un compagno sleale che avea, credo, rubato degli oggetti d'oro senza avvertirne la società. Per punirlo, gli furon tolti l'oriuolo e gli anelli sospetti, ma gli si lasciarono gli abiti, perchè, scrive Mormino, «non vogliamo che si dica che gli abbiam tolto anche i suoi cenci

Talvolta lettere intiere sono allegorie. Ne ho una datata da Aversa, 12 luglio 1862, e indirizzata da un certo Giuseppe Cangiano al suo capo Antonio Mormilo. Vi si parla di un cavallo malato, ristabilito della sua bruciatura, ma sempre zoppo, che è stato mostrato al veterinario, il quale non sa che farvi. «Caro compagnorisponde Mormilo, «mi dispiace che la zoppia alla gamba del cavallo. Dietro lungo tempo che è stato alla mia casa è stato inguaribile, perciò cercate i mezzi farlo guarire, che poi lo manderemo di nuovo all'erba e non altro.» Suppongo che questo cavallo sia un cristiano malmenato dai camorristi.

Oltre le lettere di Mormino, questo fascio di carte contiene autografi di semplici compagni. Sono in generale biglietti di raccomandazione, co' quali si chiedeva a Zingone la sua protezione per un camorrista o qualche volta anche per un profano ben disposto a prò della camorra. Cosi un galantuomo (sic) nominato Michele Canduglio viene indirizzato al capo de' camorristi come un uomo «che ha diritto ad ogni riguardo, perchè era benevolo co' compagni. Un altro, Salvatore Lombardo, è segnalato all'attenzione di Zingone come un picciotto di sgarro di buona morale. Un altro, Carlo Scarpato, è caldamente raccomandato dal suo figlio in una lettera patetica che fa venir le lagrime agli occhi. «Consideratelo» scrive Pasquale Scarpato «come il vostro proprio padre». Ora questo padre e questo figlioteneramente uniti avean di recente insieme consumato a mano armata un furto di dodici mila ducati.

Un fatto mi ha colpito in questa corrispondenza da me esaminata: non vi ho trovato una parola di politica. Una sola lettera fa eccezione a questa regola e stuona colle altre per una certa aria di bravata e di insubordinazione. La riferisco testualmente: è indirizzata a Vincenzo Zingone, ma le prime parole mi fanno credere che non sia di un camorrista, mentre gli affiliati si danno fra essi il titolo di compagni, non quello di amico.

«Caro Amico.

La borsa non mi è stata più rimessa, poi debbo dirvi che non sono stato mai in Casoria detenuto, che si doveva dare danari per mangiare ed altro. Ho ricevuto in San Francesco delle buone azioni da voi, ma debbo dire che ne ho avuto de' brutti dispiaceri da non dimenticarli!! E spero sdebitarmi del bene e del male ricevuto da taluni che non voglio dire le loro qualità fisiche, morali e politiche, che farei vergogna a tutta la società civile e particolare.

Vi saluto di cuore. Addio con i veri amici liberali costituzionali (sic) per ora. Quando poi si capisce da tutti la Costituente (sic) allora sì!

Vostro servo ed amico

Michele Silvestri.

Vicaria, 19 luglio 62.»



6 Vale a dire coattivamente.



«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License