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Le sentenze di morte – Le esecuzioni – Antonio Lubrano detto Porta di Massa – Come Lombardi pugnalasse Caccaviello per meritare l'onore di uccidere Forestiero, il quale avea ucciso Doria – Cirillo e Zellosiello – L'Aversano, suo delitto e sua morte – Storia di un boia ingannato e di un omicidio in extremis – Odii contro i camorristi – I Napolitani e i Provinciali – Scene di sangue.
Eravi pertanto una pena assai più terribile della sospensione temporanea e della espulsione definitiva: la morte. – Ne era colpito il compagno sleale, che avesse ingannato o tradito la società, sia con frodi o ruberie commesse a di lei pregiudizio, sia pel tentativo d'adulterio con la moglie di un camorrista, sia con denunzie, o con semplici indiscretezze, sia infine (ma contro quest'ultimo delitto la setta non fu sempre molto severa) per un atto qualunque (furto, sfregio o assassinio) eseguito dietro le istigazioni o nell'interesse di una persona estranea alla società.
La pena di morte era pronunciata solennemente dopo un dibattimento formale, da cui l'accusato, tenuto da parte, attendeva la sentenza, dibattimento nel quale un compagno veniva designato d'ufficio come pubblico ministero, altro come difensore, mentre tutti gli affiliati erano riuniti per sostenervi gli uffici di testimoni, giurati e giudici. – Promulgata la sentenza un picciotto qualunque, per lo più tratto a sorte, era incaricato della esecuzione. Se per miracolo declinava tale onore, era passibile della pena che erasi rifiutato d'infliggere, e non poteva sfuggirla se non colla fuga, perchè segnalato tosto a tutti i capi della città e delle Provincie era sicuro di trovare in tutte le prigioni, in tutti i luoghi del regno un coltello alzato sopra di lui.
Le lettere di Mormile o Mormino, che io continuo a esaminare, parlano di un certo numero di camorristi posti in giudizio nel loro ingresso al Carcere nuovo «per non aver saputo adempire a quell'obbligo che i nostri antecessori ci hanno insegnato, perchè avendo i medesimi stanziato lungo tempo in quel sito (in altra prigione) e nulla conchiudendo di aver distrutto l'infame scellerato Pasquale Capozzo, essendo infamità conosciutissima commessa dal detto Capozzo che tutta l'Europa è stata bene informata; ed abbiamo disclussionato quanto segue....»
Questo Pasquale Capozzo, che avea denunziato i camorristi, era dunque colpevole di infamia, e quindi condannato a morte. Coloro che racchiusi con lui nella stessa prigione non erano riusciti a distruggerlo, furono del pari condannati all'unanimità; la lettera di Mormile non accenna a qual pena, ma tal silenzio la lascia intendere facilmente. Ho indicato di sopra le leggi di sangue che reggevano la setta, che sono precisamente il contrario dei precetti evangelici: «Colui che rifiuterà di esser carnefice, sarà vittima. Colui che non trarrà il coltello, perirà di coltello.»
Ciro Cozzolino e Agostino Angelino (i due che non avevano distrutto Capozzo) erano dunque due uomini morti. Ma la loro esecuzione fu contrordinata per ordine del padrone dei padroni, Salvatore De Crescenzo. La società fu convocata una seconda volta e mitigò la pena. Pure Agostino avea parlato a Capozzo; erano stati veduti insieme: egli stesso lo confessava. Qualunque ne fosse stato l'argomento, tale colloquio era un delitto e una vergogna, dalla quale non potea rialzarsi. Fu tolto di barattolo, ossia proscritto dalla società, come traditore ed infame.
Questo da me narrato è un esempio di indulgenza; ma la società non commutava sempre le sue sentenze. Se Capozzo, di cui ho parlato di sopra, potè sfuggire alla pena pronunziata contro di lui, fu in grazia della prudenza di un ispettore delle prigioni, che durante alcuni mesi lo tenne sempre separato dagli altri. Il suo compagno di tradimento, Antonio Lubrano, fu meno fortunato. È tempo di narrare la sua istoria.
Antonio Lubrano nutriva antico e segreto odio contro Salvatore De Crescenzo, il grand'uomo. Era stata fatta una riconciliazione, ma l'odio non erasi spento, e questi uomini violenti non perdonano mai. I due nemici furono confinati insieme a molti altri detenuti nell'isola di Ponza, dove la reazione andò a cercarli durante l'assedio di Gaeta (se la memoria non mi inganna), offrendo loro mezzi di evadere, purchè entrassero in una banda di briganti. L'affare fu tosto concluso: De Crescenzo doveva essere il Crocco di questa armata borbonica. Ma Lubrano non lasciò sfuggire quest'occasione per vendicarsi del suo nemico. Si affrettò a denunziarlo all'autorità dell'isola. Per questo grande servizio fu graziato dal potere officiale, ma fu dal potere occulto condannato a morte!
Commise ancora un delitto gravissimo. Restituito alla libertà, si diede sfrontatamente al contrabbando: ma questo non fu il suo maggiore peccato; ebbe colpa ben più grave, cioè di esercitare tale mestiere a proprio profitto, senza parteciparne i lucri alla setta. Mi assicurano che nel mese di settembre dell'anno corrente i compagni della Vicaria mandarono a chiedergli mille ducati. La rifiutò, e per la seconda volta fu condannato a morte.
Ripreso dalla polizia il 3 ottobre, nella razzia dei camorristi ordinata e valentemente condotta a fine dal questore Aveta, Antonio Lubrano, soprannominato Porta di Massa, fu condotto nel camerone, ove erano racchiusi tutti gli affiliati della setta. Al suo ingresso si imbattè in tre uomini, che lo attendevano e che, gettandosi sopra di lui, lo scannarono. Dico tre uomini; altri assicurano fossero otto, perchè il cadavere aveva otto ferite, fatte con coltelli diversi.
Tale era la potenza della setta e segnatamente di Salvatore De Crescenzo, che avea ordinata l'esecuzione. Mormino e Zingone nulla facevano senza consultarlo, sebbene esso non fosse il capo del Castel Capuano. Egli inviò a Zingone la sentenza di Lubrano per mezzo della moglie di Mozzone: questa megera avea assunto l'incarico di recapitare la condanna di morte, nascosta in un paniere d'uva.
Ha io non ho narrato appieno questa storia tremenda.
Dissi che il condannato fu colpito da tre compagni o chi otto, secondo altri affermano. Ma un solo si attribuì (si accollò, secondo la parola sacra) il delitto. Era un semplice picciotto per nome Niccola Furiano, soprannominato il Calabrese, reazionario furente, conosciuto da De Crescenzo, pessimo soggetto, e ambiziosissimo. Per divenire picciotto erasi incaricato di sfregiare dietro l'ordine dei compagni un detenuto di San Francesco, e per entrare in questo spedale avea simulato non so qual malattia. Per divenir camorrista, si accollò l'assassinio di Lubrano.
Comunissime erano queste sostituzioni nelle prigioni dell'antico regno. Sovente il picciotto attribuivasi l'assassinio, che non avea commesso, per salire in grado; ma sono anche stati commessi delitti per conto altrui, a patto che il mandante si denunziasse in luogo del colpevole. Così avvenne di un settario, del quale mi è sfuggito il nome, che consentì un giorno a servire all'odio di un detenuto non camorrista. Questi avea un nemico nell'ergastolo, 7 ma non osando ucciderlo, ricorse ad un settario il quale gli disse:
– Lo ammazzerò, ma assumerai tu la responsabilità dell'omicidio. Ora il codice abolito era benevolo per l'omicidio commesso nell'ergastolo, in quanto che non lo puniva di morte, ogni qualvolta fosse provata la provocazione. Non trattavasi pertanto che di fornir questa prova. Di guisa che quando un camorrista o un picciotto uccideva un uomo, si ammenava colle sue stesse mani un colpo di coltello, per far credere di essere stato attaccato dalla sua vittima.
Il detenuto del quale parlo si fece dunque schiaffeggiare pubblicamente dall'uomo del quale avea ordinato l'assassinio, e questo fu poco appresso ucciso dal settario con religiosa esattezza. Per buona ventura o per miracolo, perchè tali rivelazioni son rare, la giustizia fu informata di questo negoziato. L'istigatore del delitto non fu condannato, comunque giurasse esser egli il colpevole, e l'assassino, che non avea avuto la prudenza di accomodar le cose in modo da apparir come provocato, fu impiccato.
Ho provato con un aneddoto recente, che le sentenze di morte erano rigorosamente eseguite; aggiungo ora che era proibito a un camorrista di uccidere uno dei suoi compagni senza il giudizio della setta; e sono in grado di giustificare ciò con altro aneddoto.
Uno degli uomini influenti della camorra, un proprietario per nome Antonio Forastiero, detenuto per delitto comune al presidio, d'onde era evaso poco tempo prima alla espiazione della sua pena, arrestato di nuovo, perchè sorpreso con uno stocco in mano, fu accusato dai giornali e denunziato da un camorrista chiamato Vincenzo Doria, come autore di un'estorsione di 200 ducati, commessa a pregiudizio di un negoziante. Avvertito di ciò la sera stessa della denunzia. (24 agosto 1861), Forastiero saltò sul letto ove dormiva il delatore, e gli diè tre colpi di pugnale, senza chiederne licenza agli altri compagni.
Il ferito fu trasportato allo spedale di San Francesco, ove spirò la notte istessa. Prima di morire egli avea accusato Forastiero della sua morte. Tosto Caccaviello (il capo della camorra nello spedale) egli altri compagni che v'erano detenuti (il Capraio, Gennaro Morra, l'Orefice ec.), chiesero di esser condotti per qualche ora alla Vicaria. Questo favore fu loro concesso due giorni dopo. Appena giunti nel camerone dei camorristi, tutti i compagni si riunirono, tennero consiglio, e decisero quanto segue.
Il capo interino che avea sostituito il titolare (questi era precisamente quell'Antonio Mormile di cui abbiamo esaminato la corrispondenza, il quale trovandosi malato aveva passato la notte dell'assassinio allo spedale), il capo interino, io diceva, il contarulo e il camorrista di servizio furono scacciati dalla camorra, per aver permesso un omicidio nell'assenza e senza il permesso del capo eletto. Gli altri camorristi presenti all'atto furono sospesi per un anno. Forastiero venne condannato a morte.
Debbo dire però che la sera stessa del delitto i compagni presenti eransi riuniti in un angolo del camerone, e avevano lungamente discusso in presenza di Forastiero, il quale trovavasi all'angolo opposto della stanza, circondato da alcuni amici ciecamente a lui devoti. Testimone di questa scena, da lui veduta a traverso l'inferriata, l'ispettore Luigi Baculo, dal quale ebbi queste notizie, previde che si sarebbe ancora versato del sangue. Tosto risolvè di separare Forastiero dagli altri camorristi; l'assassino fu messo a parte, e, cosa strana, suo malgrado!
Peraltro, fra i compagni sospesi per non aver impedito l'omicidio trovavansi due uomini, Garofaniello e Lombardi, i quali pregavano Mormile (ritornato dallo spedale e presente al giudizio) di inviarli a San Francesco, ove speravano rientrare in grazia, rendendosi indispensabili. Ma Caccaviello che era ritornato allo spedale, ove era direttore della camorra, nulla volle fare per essi, rimproverandoli di essersi resi complici di un barbaro assassinio, senza il consenso de' loro superiori. Finì per tanto per mitigare questo rigore, ricevendo da essi alcune piastre; ma mentre accettava il danaro facea segretamente dire a Mormile di non cedere alle loro istanze. Lombardi e Garofaniello si accorsero tosto di questo maneggio e risolverono di vendicarsi. Ben si scorge che questa è una storia complicatissima, piena di fasi diverse e atta a svelare tutti gli intrighi della setta.
Ora avvenne che il 3 settembre, il capo Caccaviello chiamò un picciotto di sgarro per nome Telorosso e gli ordinò di scacciare dalla udienza, ossia dalla sala, un certo numero di visitatori, i quali erano venuti per vedere i detenuti. Questo atto arbitrario sollevò clamori. Garofaniello e Lombardi vollero profittare del tumulto, ed ebbero la trista idea di simulare un principio di rissa nell'intendimento di provocare una vera lotta, ove sarebbe intervenuto il capo, il quale nella mischia potrebbe esser ucciso... per sbaglio. Il piano riuscì. Chiamato in soccorso da uno dei combattenti, Caccaviello si gettò fra i pugnali e cadde morto. Lombardi si vantò di aver ammenato il colpo, e tutti glie ne resero omaggio. Non è infatti un lieve onore quello di colpire a morte un capo dei camorristi. L'avventurato vincitore ottenne immediatamente la gloriosa missione di uccider Forastiero.
A tale effetto gli fu donato un coltello da uno de' suoi compagni di spedale. Fu convenuto che il terribile camorrista, che avea illegalmente ucciso Doria, e che per questa irregolarità era condannato dalla setta, sarebbe attratto, ignoro per quali manovre, nella prigione di San Francesco. Lombardi doveva trovarsi alla terza inferriata del corridore, che conduce alla sala di chirurgia. Là avrebbe atteso la sua vittima, e mentre passava l'avrebbe scannata.
Avvertito di ciò, Forastiero pregò l'Ispettore a inviarlo a San Francesco in mezzo ai suoi nemici: parlava di ucciderli tutti, e forse lo avrebbe fatto. Ma il signor Luigi Baculo, come è facile immaginarlo, non desiderava questa carneficina. Inviò il condannato a Portici, nella prigione di Granatello, ad espiare il suo ultimo delitto; spirata la pena, questo feroce bandito deve ritornare nella prigione di Aversa, per terminare l'espiazione di quella dovutagli per il primo reato.
Un camorrista non avea dunque il diritto di uccidere uno dei suoi compagni, senza la licenza degli altri. In compenso, al di fuori della setta poteva assassinare chi più gli piaceva. Così il famigerato Filippo Cirillo non ricevè che felicitazioni per il delitto che fece commettere or fa una dozzina danni.
Egli aveva reso alcuni servigi all'ispettore Michele Ruggiero; gli chiese in cambio un favore, che l'onesto funzionario dovè rifiutare; ignoro qual fosse. Tosto nella mente del camorrista l'ispettore fu condannato a morte. Un picciotto per nome Zellosiello, per salire in grado, si incaricò dell'assassinio. Cirillo dovendo esser trasferito in un'altra prigione disse al picciotto: «Aspetta la mia partenza – ventiquattrore dopo uccidi l'ispettore.» – Zellosiello aspettò la partenza del suo signore: ventiquattro ore dopo l'ispettore era morto.
Arrestato, interrogato, tradotto in potere della giustizia, condannato a morte, il picciotto non pronunziò una sol volta il nome di Cirillo. Fu alla perfine impiccato questo valoroso ribaldo! – Re Ferdinando ne ha graziati molti, che non valevano costui!
Ma questo era il lato bello della setta. Io mi sono studiato di non esagerarne i colori, e spero che mi sarà resa questa giustizia: ho detto, a mo' d' esempio, dei servigi che rendeva ai detenuti: ho anche constatato che nel 1848 essa rispettò i prigionieri politici. Ma aggiungo che anche allora vi furono affiliati, i quali fecero il contrario, testimone quel Giuseppe d'Alessandro soprannominato l'Aversano, che tentò di provocare un moto reazionario nella Vicaria. I liberali si consolavano della loro cattività cantando inni patriottici; ma l'Aversano li consigliava a tacersi, e un tal giorno, per rispondere alle loro manifestazioni coraggiose, ammutinò i suoi uomini al grido di Viva il Re. Ne nacque una contro dimostrazione e un tumulto spaventevole: cinque liberali furono presi, stesi sopra una tavola, e subirono cento colpi di verghe. Tale era il modo di procedere sotto il paterno regime de' Borboni. Rispetto all'Aversano, provocatore di queste turbolenze, fu graziato, e divenne ben presto spia e capo di sbirri. Arrestato più tardi nel 1860 con Manetti per il famoso colpo di bastone dato in mezzo alla strada al signor Brénier, ministro di Francia, fu dalla setta condannato, a quanto credo, a morte. Un certo Lombardi gli si avvicinò nella prigione, e l'uccise.
Ho detto anche della fratellanza che univa i camorristi, e ne ho data in prova la sentenza pronunziata contro Forastiero, che aveva ucciso uno dei compagni. Ma io debbo aggiungere che inimicizie terribili scoppiavano talvolta fra questi uomini, uniti da tanti interessi comuni, e che queste inimicizie si spingevano spesso ad atti stranissimi.
Mi è stato citato l'esempio di un uomo che per vendicarsi di uno scherzo insolente, non osando attaccare l'offensore, di lui più abile nel maneggiare il coltello, covò il suo odio e il suo risentimento per ben quindici anni. Durante questo tempo il camorrista che egli voleva uccidere (Luigi Russo) correva di prigione in prigione, di città in città, cercando d'acquistar tempo di fronte a una sentenza di morte, dalla quale appellava sempre, e che fu tre volte confermata, ad Avellino, a Potenza, a Salerno; finì per appellar nuovamente a Napoli. Che fece allora il suo nemico per eseguire il suo funesto progetto, che da sì lungo tempo avea concepito? Nel convincimento che la sentenza sarebbe stata confermata dalla Corte di Napoli, chiese ed ottenne il posto di boia. «Luigi Russo, perirà di mia mano!» esclamò egli sicuro della vendetta! – Ma ohimè! avea contato, senza i giudici di Napoli. L'uomo, che dovea di sua mano perire, fu assoluto!
Si narra ancora la storia di un camorrista terribile, che erasi ritirato dal mondo, e non abbandonava la sua casa per una malattia di petto ond'era afflitto. Mentre soffriva, come il leone morente, gli fu annunziato che uno de' suoi compagni avea scherzato sul conto di lui in una taverna della Vicaría. Sempre la solita storia della pedata dell'asino! – Saltò allora dal letto, prese il coltello, corse alla taverna, e trovandovi quegli che egli cercava, lo uccise. Poi, estenuato da questo sforzo supremo, tornò a casa e morì.
Ma questi non sono che odii da uomo a uomo; ve ne erano de' più terribili fra i partiti formati nella setta, ora intorno ai capi, ora, bisogna dirlo, a servizio degli uomini che si succedevano al governo. Fui assicurato che sotto i Borboni, e anche qualche tempo dopo la loro caduta, vi furono due camorre, una favorevole, l'altra ostile al potere, il quale si serviva della prima per combattere o contrabbilanciare la seconda. Non ho notizie precise per provare questo fatto, ma ciò che mi è noto positivamente è che sotto i Borboni queste rivalità fra gruppi di compagni si manifestarono in gravi conflitti.
Posso citare in proposito alcune pagine assai interessanti, che tolgo da un romanzo del signor Alessandro Avitabile, intitolato Carlo il discolo, pubblicato a Napoli or sono alcuni anni. La parola romanzo non spaventi il lettore. Il signor Avitabile mi assicura che egli ha ritratto la scena al naturale, senza aggiungervi una circostanza, nè esagerarne i colori: ha soltanto cangiato i nomi.
Ma, riaprendo questo libro, vi trovo una descrizione tremenda delle prigioni, quali erano sotto Ferdinando II. Citerò dapprima questo brano che introdurrà il lettore sul lugubre teatro dell'avvenimento: egli vi troverà la conferma di molti fatti da me già indicati.
«Il carcere del Popolo sta sotto a quello denominato dei Nobili, ed è scompartito nel seguente modo. La prima stanza serve per l'udienza, ed ha di fronte un cancello di ferro per il quale si scende nell'interno, e due porte a diritta, per una delle quali si va a cinque piccole segrete, chiamate le camerelle, e per l'altra in un stretto corridoio, onde si ascende alla cappella dei condannati a morte. Entrando per il cancello anzidetto, si scendono dei gradini e si va al pianterreno, il quale è diviso in diverse stanze per uso di sottochiavi, ed in cinque ampissimi cameroni, che per antica consuetudine si chiamano dai carcerali il primo del pane, perchè colà tutt'i giorni si fa la distribuzione del pane e della minestra; il secondo degli strappuntini, perchè vi sono i migliori letti; il terzo della taverna, perchè da esso si va ad un gran cortile circondato da alte mura, nel quale vi sono vari focolari per uso dei prigionieri, ed un finestrone che dà luce ed aria al carcere dei Nobili, unico luogo per il quale possono vedersi e parlarsi i detenuti dei diversi carceri; il quarto lo chiamano il cameroncello, per essere il più piccolo di tutti; il quinto poi, perchè il più vasto ed abitato dalla gente più povera, vien denominato dei disperati. Il pavimento dell'intero carcere è di selice, ma levigato al par del più fino marmo per il continuo attrito dei nudi piedi dei malfattori che l'hanno calpestato e lo calpestano, la maggior parte dei quali è affamata, lacera, sucida da fare spavento, a malgrado che ad essi tutti i dì venga distribuita un'abbondante minestra o di pasta o di riso o di legumi ed un pane: cibo bastante a potersi disfamare se coloro, nemici finànco della loro esistenza, non ne vendessero la metà per il vile prezzo di un grano. Vien pur dato loro un piccolo materasso, chiamato dai prigionieri faldo, per dormirvi sopra; e la maggior parte di quegli esseri, chiamati uomini, lo cedono a quelli che vogliono dormire più comodamente, per il compenso di quattro o al più cinque grana alla settimana, contentandosi di giacere essi sulla nuda terra, e ciò fanno non solo la state, ma anche nel più rigido inverno. Due volte l'anno poi si dà ai più miseri e laceri una camicia, un paio di calzoni ed una giacca, oggetti che quella perduta gente, senza neanche vestirsene una sola volta, mandano subito a vendere per vilissimo prezzo; e tutto ciò fanno per alimentare quei vizi che li trascinarono alla colpa, e che gli hanno fatti divenire nemici della società e di Dio. Questi luridi e spiacevoli esseri, tristi abitanti di quel lugubre luogo, passano le intere ore della loro vita nell'ozio, cantando oscene canzoni, bestemmiando, giocando, e pensando al giorno nel quale finiranno la pena e ritorneranno liberi in mezzo alla società, non per divenire migliori ed utili al loro simile, alle loro famiglie desolate, giacchè nella maggior parte di quei cuori il sentimento della virtù non ha mai sede; ma per darsi di nuovo alla crapula, al furto, all'uccisione.»
Ecco ora la dolorosa storia della rissa fra i provinciali e i Napolitani. Il Giuseppe, di cui vi si parla, era un nuovo detenuto entrato di recente nella Vicaría.
«Giuseppe scese nel carcere, e nel primo camerone s'incontrò con Antonio Ottaiano, capo della camorra dei provinciali: il quale era un uomo di circa quarantanni, di statura bassissima, smilzo della persona, di viso scarno, con occhi fieri e truci, che nell'insieme davano al suo aspetto gran somiglianza con un uccello di rapina. Egli era vestito alla foggia dei briganti, ed il solo distintivo, che portava dell'onorifico grado occupato da lui nel carcere, era un berretto rosso con galloni d'oro ed altri ricami.
«Questo essere era seguito da altri due camorristi vestiti come lui: il solo ricamo del berretto era più piccolo, e ciò per indicare la differenza del grado. Uno di quelli prese Giuseppe per un braccio e lo presentò al capo, dicendogli: «Questi è un nuovo ospite.» E Giuseppe che conosceva gli usi del carcere, giacchè non era quella la prima volta che vi veniva, si tolse il berretto e baciò con molto rispetto la mano del capo della camorra, il quale gli diresse le seguenti parole:
– Quando sei venuto?
– In questo momento.
– E perchè sei disceso quaggiù senza prima presentarti a me?
– Vi son venuto per cercarvi e fare il mio dovere.
– Va bene, va bene. Di quale provincia sei?
– Son Napolitano.
Antonio, beffandolo, ripetè la parola con molta ironia e disprezzo, ed uno dei due del suo seguito nello stesso modo soggiunse: – Napolitano vuol dir lo stesso che scemo.
«Giuseppe lo guardò con un poco di risentimento, e l'altro manigoldo che gli stava più vicino gli die uno schiaffo sì forte, che lo fece restare stordito per più d'un'ora.
Giuseppe si mise a piangere per la rabbia e pel dolore, e mordendosi il berretto disse: – Ma questa è una soverchieria! io non ho fatto nessuna mancanza.
«Ed il capo con maggior disprezzo di prima gli rispose: – Hai ragione, povero galantuomo: fanne querela ai bravi, ai coraggiosi tuoi compaesani, acciocchè ti vengano a vendicare. – E volgendosi ad uno de' suoi seguaci, proseguì: – A questa creaturina darai un posto nel quinto camerone in mezzo ai disperati.
– Ma io, soggiunse Giuseppe, non ho negato di pagare il diritto, e per conseguenza....
– Pagherai il diritto ed andrai colà. Va' via, poltronaccio.
«E ciò dicendo, Antonio accompagnò le parole con un calcio, ed uno dei bravacci gli die una forte spinta, e l'altro un pugno. In tal guisa quel malvagio, oppresso da altri più malvagi di lui, s'allontanò fremendo d'ira e desiderando un coltello, un'arma qualunque per vendicarsi. Nel camerone della taverna si incontrò con alcuni suoi amici di vecchia data, i quali, vedendolo piangere e scorgendogli la guancia tutta arrossita, gli domandarono che cosa gli fosse accaduto. Giuseppe raccontò loro l'ingiusto oltraggio ricevuto, e loro chiese un coltello per vendicarsi; ma uno di quelli, mordendosi le mani per il dispetto, disse:
– Noi qui non ne abbiamo: quei millantatori ci han tolte sino le sferre, e perciò fanno i bravi.
– Ma datemi un pezzo di legno, l'appunterò, e con quello gli caccerò l'anima dal corpo.
– Sì l'appunterai, e con quale istrumento?
– Con un poco di vetro, coi denti.
Ed un altro soggiunse: – Per ora bisogna aver prudenza, io spero che subito ci verranno le armi da sopra; il capo della società me le ha promesse.
– Sì; Filippo (che così chiamavasi il capo della camorra del carcere dei Nobili) promette sempre e non attende mai: egli vorrebbe tutto accomodare con le parole, e qui ci vuol sangue.
– Hai ragione: bisogna scrivere ad Alberico; egli è il solo uomo di coraggio che sta sopra ed è capace di una risoluzione; a lui l'ergastolo non fa paura: egli fa il camorrista per amore, e non per interesse, come tutti gli altri, i quali sono buoni solo a prendersi il sabato la porzione del guadagno.
– Sì, scrivigli, ed in nome di tutti, e digli che noi non vogliamo più soffrire questa ingiusta ed infame tirannia.
– Sì, vado; ma qualcuno di voi venga a farmi la guardia, acciocchè io non sia sorpreso.
– Andiamo, disse uno degli interlocutori, e partirono.
«Indi a poco Giuseppe udì chiamarsi ad alta voce da un camorrista, il quale poco dopo lo raggiunse, e dandogli con molto disprezzo una spinta, gli disse: – E così fai il sordo? Tu sei venuto con cattiva idea quaggiù: tu vuoi vivere poco: presto, dammi una piastra.
– Una piastra? gli domandò Giuseppe.
– E per qual ragione?
– Oh bella! per la tua entratura ed il posto.
– Una piastra è troppo, io non l'ho.
– Ma via, non far parole inutili, e caccia il danaro. – E così dicendo lo prese per i petti del vestito e gli diè parecchie scrollate.
– Ma ve lo ripeto, in questo momento non posso darvi nulla, perchè non ho danaro: quest'oggi, quando verrà mia madre, vi darò tutto ciò che vorrete.
– Ora va bene, ora parli ragionevolmente, – disse il camorrista togliendogli il berretto dal capo; e dopo averlo guardato con attenzione, gli domandò – Questo gallone è fino? Vuoi venderlo?
– Ebbene, te lo restituirò quando mi darai la piastra.
«E detto ciò, partì portandosi il berretto, e Giuseppe, rimordendosi per la rabbia più forte di prima le mani, chiese di nuovo un'arma ai suoi compagni per vendicarsi; ma quelli, inculcandogli pazienza per il momento, andarono tutti uniti a raggiungere l'amico che stava scrivendo la lettera, per informarlo del nuovo accaduto.
«La lettera fu subito fatta e mandata al suo destino per persona sicura. Alberico se la fece leggere dal segretario della società, 8 e nell'udirne il contenuto sbuffò per la collera. Poi corse dal capo della società, e lo pregò di far riunire tutti i compagni in consiglio. Quando quel nobile consesso fu riunito, il giovane Alberico prese la parola ed espose ai compagni tutto ciò che gli era stato scritto, e finì il suo animatissimo discorso con dire: – Sì, noi non possiamo, nè dobbiamo soffrire più a lungo gli abusi dei provinciali: se loro perdoneremo anche questa volta, ci faremo una bruttissima figura, ed i nostri fratelli dei bagni e degli ergastoli avranno tutto il dritto d'accusarci e chiamarci vili ed infami per tutta la nostra vita.
«Le sue parole entusiasmarono i compagni, i quali ad unanimità decisero che bisognava, che subito si fosse convocato il consiglio delle due camorre per decidere definitivamente sul fatto; ed al momento si spedì ravviso al capo della società del carcere del Popolo, che nello spazio di un'ora si fosse riunito coi suoi compagni nel cortile.
«Allora gli aspiranti a divenire camorristi, chiamati dai carcerati piciutti di sgar, si armarono di bastoni, ed andarono a fare sgombrare tutta la gente del camerone detto Sant'Onofrio, ove sta il gran cancello che guarda sul cortile; quei di giù fecero lo stesso nel cortile, ed in pochi minuti i due luoghi rimasero perfettamente sgombri da tutti quelli che non appartenevano alla camorra. I componenti della società dei provinciali, vestiti col massimo loro lusso e preceduti dal loro capo, scesero nel cortile, e si sedettero dirimpetto al finestrone. Poco dopo quei di Napoli, vestiti anch'essi in gran gala e preceduti dal loro capo, andarono a prender posto vicino al gran cancello. Radunato così il gran consiglio, incominciò la discussione, della quale noi daremo un breve cenno. Il capo dei Napolitani domandò se tutto ciò ch'era scritto nella lettera mandata ad Alberico fosse vero, e quello dei provinciali nulla negò. Allora Alberico prese la parola, e con aspri modi rimproverò quei di basso, e terminò col chiedere loro una soddisfazione. Il suo discorso finì con gli applausi dei suoi compagni, e con fischi e derisione di quei di giù; al che i Napolitani si scagliarono come leoni inferociti sui ferri del cancello per abbatterlo; ma quello era troppo saldo per rompersi a così fatti sforzi, e la loro ira altro risultato non ottenne che la maggiore ilarità dei sottoposti. Dopo pochi minuti per i gridi e le minaccie dei due capi ritornò il silenzio, e le due fazioni ripresero i loro posti, e riprincipiarono le trattative. I Napolitani chiesero di nuovo una soddisfazione, e il capo dei provinciali con tutta gravità rispose: «La domanda è giusta, e l'avrete.» Indi parlò all'orecchio d'un suo compagno, il quale partì, e dopo pochi istanti ritornò trascinando per un braccio un vecchio di sessantanni, dalla faccia sparuta, vestito di luridi cenci e coi piedi scalzi Arrivato quel misero innanzi al detto capo, lo salutò rispettosamente, e questi sorridendo gli disse: – Come ti chiami?
– Francesco Carrozza, rispose il vecchio tutto tremante.
– In Napoli.
– Ma propriamente in Napoli?
– Sì signore, io sono di Porta Capuana.
– Evviva! del quartiere dei bravi, degli uomini di coraggio. – Quindi si rivolse verso il cancello, e con diabolico sarcasmo diresse a quei di sopra queste parole: – Compagni e fratelli di Napoli, voi ci avete chiesto una soddisfazione, e noi provinciali ve l'accordiamo, ed è questa.
«Così dicendo, prese per la spalliera una sedia, e con quella si mise a percuotere il disgraziato vecchio, finchè quel misero non cadde per terra privo di sensi ed immerso nel proprio sangue.
«Quest'atto di barbarie e crudeltà fu eseguito in mezzo ai gridi, alle imprecazioni ed alle minacce dei Napolitani ed al disprezzo dei provinciali.
«Alberico alla prima percossa che fu data a quel misero diè un urlo pari a quello d'una tigre ferita, e come un forsennato s'allontanò. Indi a poco tornò strascinando pei capelli lo spaventato avvocato Imbroglia, e con voce fatta rauca per l'ira gridò: – Antonio Ottaiano, ora spetta a me; guarda.
E gli mostrò l'uomo che tenea pei capelli.
– L'avv. Conti, disse con rabbia il provinciale.
– Sì, il tuo amico, il tuo difensore, l'uomo nato nello stesso tuo paese.
«Ciò detto sguainò un coltello che portava nascosto sotto la giacca, e brutalmente, senza curarsi dei lamenti di quel disgraziato, lo ferì più volte nel viso.
«Alla vista di quel sangue nel cortile si levò un gridò di vendetta: tutti sguainarono i nascosti stili, e giurarono morte a tutt'i Napolitani. Quelli di sopra ripetettero il giuramento contro i provinciali. A queste selvagge e crudeli scene ne successero delle altre più selvagge e più crudeli. Gl'individui delle due società si scagliarono come forsennati sopra tutti coloro che incontravano, i quali non appartenessero alle loro provincie, e dopo pochi istanti fin dalla strada s'udivano le minacce degli assalitori, le grida dei percossi, i lamenti dei feriti. Quella barbara battaglia, quella disumana carneficina, tra gente che parlava lo stesso linguaggio, nati in paesi poco discosti, governati dalle stesse leggi, educati dalla stessa religione, durò circa un'ora, e finì solo per i sovrumani sforzi e tratti di coraggio dei custodi, dei soldati, e delle autorità di polizia accorsi ai primi gridi.
«Quando l'ordine fu tornato mercè la forza in quei malaugurati luoghi, furon dati solleciti soccorsi ai feriti, la maggior parte dei quali erano i più pacifici e miseri carcerati: i facinorosi furon divisi e chiusi nelle diverse segrete»
Tali erano i costumi dei camorristi nelle prigioni. Usciamo ora da questo inferno, dicendo col Poeta:
Per correr miglior acqua alza
le vele
Omai la navicella del mio ingegno,
Che lascia dietro a sè mar sì crudele.»