Marco Monnier
La camorra: notizie storiche raccolte e documentate
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IV. LA CAMORRA IN PIAZZA.

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IV.
LA CAMORRA IN PIAZZA.

I camorristi per piacere – I mendicantiSegni di riconoscimento – I camorristi in guanti gialli – La camorra nelle case private – La camorra sul giuoco, sulla prostituzione ec. – Sul contrabbando – Sul dazio consumoLamenti di un padulano e di un cocchiere di fiacre – Il lotto clandestino – Gli assistiti – La carnacottara – Il camorrista usuraio e la madre de' Gracchi – Il camorrista giudice di pace – La camorra sui cocomeri, sui giornali ec. – La camorra nell'armata – Lo sfregio.

Nelle sue origini, al dire dei meglio informati, la camorra non esisteva che nelle prigioni. Ma venne tempo in cui un certo numero d'affiliati avendo subito parte della pena loro (raramente la espiavano tutta quanta, perchè la bene avventurata fecondità della ex-regina Maria Teresa forniva al re Ferdinando frequenti occasioni di esercitare la sua clemenza, sopra i delinquenti volgari ben inteso, perchè non perdonava ai prigionieri di Stato), un certo numero di affiliati, io diceva, all'uscir dai bagni o dall'isole, rimanendo privi de' benefizi che vi godevano, pensarono di trasferire la camorra nelle città. Ciò avvenne dopo il 1830, perchè prima di quell'epoca i documenti che potei consultare, la memoria dei miei più vecchi amici ricorda il minimo indizio di simil setta, fortemente organata ed esportata dalle prigioni.

Dissi di una simil setta. La camorra in fatti, nel significato generale del vocabolo, designa ben altro che l'associazione di cui fin qui ho tenuto proposito. Il vocabolo si applica a tutti gli abusi di forza o di influenza. Far la camorra, nel linguaggio ordinario, significa prelevar un diritto arbitrario o fraudolento. Tal genere di furfanteria era comune in questo paese, ed io ne dirò qualche parola per mostrare tutta la vegetazione di questa pianta venefica, che l'Italia deve estirpare; ma premetto peraltro che qui parlo soltanto di una camorra libera, esercitata da volontari per proprio conto.

Tali erano, a modo di esempio, i falsi monetari e le varietà di ladroni, così innumerevoli da far riscontro alle famose categorie del signor Canler, ove vi si comprendessero tutti coloro che vivono de' beni altrui nell'Italia meridionale, dal modesto saccolaro, che ruba il fazzoletto di tasca al passeggero, fino al feroce regio che abbrucia le campagne e saccheggia i villaggi. Ma senza abbandonare Napoli, potrei fornire singolari notizie su questa feccia di vagabondi, onde non è molto erano affollate le vie della grande città: ladri questi, mendicanti quelli, ladri e mendicanti insieme all'occorrenza, che facevan mostra di piaghe orribili, o simulavano ogni specie di infermità per ingannare il pubblico e fuorviare la polizia. La sera soprattutto Napoli era pavesata da falsi poveri, che si impadronivano delle viuzze appartate e dei quartieri deserti, e con molta arte ivi distribuivansi per tentar cattivi colpi senza correr il menomo rischio. Mugolavano all'avvicinarsi di una pattuglia, contraffacevano il grido del gallo scorgendo da lunge un passeggiero in ritardo, e mettevano lunghi gemiti quando il passeggero non era solo, starnutivano allorchè il sopravveniente era vestito meschinamente, cantavano l'Ave Maria quando l'affare sembrava buono, e il Gloria Patri allorchè annunziavano che la vittima era attesa.

In tutti questi misfatti eravi un po' di camorra senza fallo: ma i Napolitani hanno avuto torto quando ne hanno inferito che bastava esser malfattori per essere camorristi. Esiste su questo punto, nella città stessa, una confusione d'idee che si incontra anche in alcuni opuscoli scritti con molta leggerezza su tale argomento gravissimo. La camorra infatti, ed anche la camorra libera, non commetteva che una certa specie di delitti e li commetteva per mezzo dell'intimidazione. È questo carattere particolare che la distingue da tutti gli altri generi di furfanteria. Con tale specialità di industria essa era esercitata da amatori, non affiliati, nelle più alte sfere; essa si insinuava nelle amministrazioni, alla Borsa, alla Banca, nei Ministeri e perfino in Corte, cenando co' principi e barando alle loro tavole di giuoco. Ciò, che per estensione chiamavasi camorrista in guanti bianchi, era l'uomo importante che entrava in tutti gli affari, e prendeva la parte del leone, il mezzano de' sollecitatori che prelevava una commissione sui favori ottenuti, l'altezza che favoriva il contrabbando e ne divideva i benefizi col contrabbandiere, il direttore degli stabilimenti di beneficenza, il filantropo officiale che economizzava per centomila franchi di rendita sul danaro de' poveri, e nutriva la sua famiglia a spese de' trovatelli, i quali morivano quasi tutti di fame; era la camarilla tutta quanta, senza eccettuarne un solo Gran Cordone o un solo Vescovo, la quale vendeva all'ingrosso il governo ad altri camorristi, i quali lo rivendevano al minuto; era infine il re stesso che riceveva il vino dai suoi sudditi. – Si diventa pur troppo libellisti sotto certi governi, quando si vuol far lo storico!

Ho perfino conosciuto a Napoli, ma conosciuto solo di vista, grazie al cielo, un camorrista completo che tirava i dadi e giuocava alle carte, pieno di debiti e di vizi; birbo matricolato, ma ricevuto ovunque anche a corte, perchè tutti ne aveano paura. Egli portava un coltello, ed era abilissimo nell'adoperarlo. Solamente, siccome questo coltello era assai lungo e aveva nome di spada, costui non fu appiccato come assassino, ma rispettato come duellista. Uccise così molte persone, fino a che non rimase vittima di un Inglese più destro di lui.

Dando simile estensione (come si fa generalmente a Napoli) alla parola camorra, bisogna dire che questa industria violenta si esercitava liberamente non solo in tutti i quartieri, in tutte le case della città; essa si esercita ancora sotto i miei occhi. La locanda ove abito è servita, come tutte le locande, da un certo numero d'individui, dal primo all'ultimo grado di domesticità, dal cantiniere al facchino, dal cuoco allo sguattero, dal cameriere al lustrascarpe. Or bene, in questa gerarchia di subordinati, oltre gli oppressori in titolo, regna una camorra che a sua volta opprime. Questa camorra è rappresentata da una donna: sì, da una donna! – Essa ha il fuoco negli occhi e un coltello in tasca: io l'ho trovata un giorno colle mani sanguinose: mi disse ridendo, che non era nulla. È dessa che comanda. Non havvi disputa in cui non prenda parte o per l'uno o per l'altro, non rissa nella via in cui non corra a gittarsi nella mischia co bracci prostesi. Essa fa il suo piccolo commercio in casa, si appropria ciò che trova, sorveglia le contrattazioni, tassa i fornitori, preleva sopra ogni cosa il suo diritto: gli altri lo sanno, e si tacciono, perchè hanno paura.

Non basta: essa rende giustizia. Un giorno i camorristi del porto avevano estorto cinque soldi, pretendendo che ciò fosse in loro diritto, a un facchino di casa. Il pòver uomo, forte come un pesce cane, ma vigliacco come una ranocchia, se ne tornava mestamente con il suo salario smozzicato, contando sulle dita il danaro che avrebbe potuto guadagnare mettendo i cinque soldi al lotto. «Che hai tu dunque?» gli chiese la comare. – Appena ne fu informata, partì come una freccia, giunse in due salti al porto, mise sossopra cielo e terra, urlando e strepitando. La folla cominciava a riunirsi, i carabinieri accorrevano, i camorristi impaurirono e resero i cinque soldi alla donna. Un quarto d'ora dopo essa tornava in trionfo colla mano alzata, mostrando la moneta fra le sue dita. Non so se la restituisse al facchino: dichiaro solamente che la riprese ai camorristi.

Ma, lo ripeto, questa non era che la camorra per piacere, praticata da una donna, che non sarebbe riuscita, se tutti i camorristi fossero a lei assomigliati. Questo esempio prova a qual punto il male è radicato ne' costumi del paese, ma nulla offre che non si trovi più o meno segnalato in tutti i luoghi del mondo.

Ciò che qui è singolare, o almeno lo era ai tempi dei Borboni, era la setta organata in tutti i quartieri della città, avente i suoi dodici capi, come notai, e uno di questi, quello della Vicaria, a tutti superiore: la setta infine che continuamente si ingeriva in certi affari e si imponeva a tutti i poltroni, a tutti i viziosi del paese.

Il luogo ove gli affiliati entravano di diritto erano le bische più o meno autorizzate dalla polizia. Eranvi a Napoli ne' quartieri popolari e ne' dintorni della città, certe taverne mal famate, ove riunivansi i giuocatori appartenenti alle classi inculte. Incapaci a distinguere una lettera da un'altra, i lazzaroni conoscevano benissimo i numeri, scienza necessaria per il lotto, e le quattro specie di carte (coppa, spada, bastone e danaro). Ora ho detto che la camorra sfruttava specialmente i plebei; dunque in tutte le bische, ove de' fanatici cenciosi, assisi in terra, o a cavallo a panche di legno, passavano giornate e nottate intiere a giuocare ostinatamente, era certo che vi si trovava di fronte ad essi, ritto, immobile, cogli occhi fissi sulle carte, che non abbandonava di un solo sguardo, l'inevitabile esattore, che ad ogni partita pretendea parte della vincita: il camorrista.

Con qual diritto imponeva così i giuocatori? Non si è mai saputo. Erano quindici, erano cento, potevano essere mille nella taverna, un solo camorrista li teneva in rispetto, li sorvegliava, li derubava tutti. E spesso non era un camorrista, bastando a ciò anche un semplice picciotto, che si fosse trovato per caso! Ma tale vigilanza non era soltanto subita, spesso anzi era ricercata, per impedire le frodi, per giudicare delle partite dubbie. Questo testimone interessato era un buon custode: sotto i suoi occhi non si barava facilmente o impunemente: gastigava colle sue mani i baratori; toglieva di mezzo le difficoltà; aggiustava le contese; impediva le risse; si gettava, occorrendo, fra i coltelli. La polizia non aveva bisogno d'intervenire in que' luoghi pericolosi; si affidava ai compagni della setta allora tollerata.

Ho voluto veder da vicino questo singolare commercio, e mi son lasciato condurre in una bettola di pessima fama presso Fontana Medina. I giuocatori non erano affatto lazzaroni, tanto meno gran signori: portavano quegli abiti un po' logori, che qui indossano i mezzi galantuomini. In grazia di questo rispettabile vestiario, non erano sorvegliati durante le partite, ma queste finite, un uomo in giacchetta, portava una mano al suo berretto in segno di deferenza, e stendendo l'altra mano ai vincitori diceva queste due semplici parole: «la camorra!» – Era pagato senza osservazioni, salutava di nuovo e tornava al suo posto.

Non solo nelle case sospette la società imponeva tali tributi, ma dovunque si giocava alle carte. È noto che a Napoli tutto si fa nella strada: i giuocatori onesti che prendevano il fresco davanti le loro porte, e perdevan qualche ora alla scopa, alla primiera, a qualsiasi altra ricreazione inoffensiva, rischiavano sempre di veder giungere il tiranno, armato di un grosso bastone, che si poneva fieramente fra essi senza conoscerli, e faceva l'ufficio di una grande potenza a malgrado del principio di non intervento. I contribuenti aveano un bel giurare che non giuocavano di danari: erano costretti nullameno a pagare la tassa. E i discendenti di quella forte razza plebea, che sotto Masaniello armata di pietre contro le palle avea lapidato la tirannia spagnuola a causa di una nuova imposta sulle frutta, pagavano ai nostri giorni, senza mormorare, l'imposta sulle carte, tremavano di tutte le loro membra dinanzi al bastone del primo venuto. Ciò vidi io stesso, sotto le mie finestre.

Ho detto che il picciotto bastava per esigere la parte dovuta alla società, ma esso non avea facoltà di agire, se non in assenza del camorrista. Quando un compagno in titolo si presentava davanti i giuocatori, il picciotto rimetteva nelle mani di lui il danaro che avea riscosso, e ritiravasi modestamente senza chiedere il menomo salario. E se per sventura sopravveniva un secondo camorrista, che, non conoscendo il primo, volesse prender il suo posto, allora uno de' due traeva fuori di tasca due coltelli (perchè tutti, o quasi tutti, ne portavano seco due simili) e offrendo una di queste punte, come la chiamavano, al suo equivoco avversario, gli proponeva un duello che talvolta era mortale. Ciò avveniva in mezzo alla strada, e qualche volta presso un posto di soldati, i quali lasciavan fare. La folla assisteva senza profferir verbo, e si dava alla fuga, quando uno de' due bravi cadeva immerso nel sangue. – Una legge de' Borboni proibiva di rialzare i feriti! – Quando la polizia giungeva, il vinto avea spesso cessato di vivere, e il vincitore irreperibile saliva in grado, contando, come gli antichi gladiatori, nello stato de' suoi servigi un assassinio di più.

Il tributo esatto dalla camorra sul giuoco era il decimo, ossia un soldo sopra dieci. Sopra altri vizi imponeva tasse simili. Stabilita in tutti i peggiori luoghi, riceveva due carlini per settimana da ogni meretrice: un carlino da ogni lenone, senza contare il casuale, che otteneva regolarmente dagli abituati, e violentemente da quelli di passaggio. come nelle bische la setta avea l'ufficio di mantener l'ordine e lo adempiva con vigile attività. I postriboli poco sorvegliati sotto il precedente regime si mantenevano, in grazia della camorra, sotto una certa disciplina: vi si commettevano spesso delle frodi, ma non però da volgere al dramma: raramente vi avvenivano assassinii.

Pur la setta non regnava esclusivamente ne' luoghi infami. Oltre tutti i vizi, essa sfruttava i difetti del popolo, e sopratutto le sue debolezze. Faceva il contrabbando, intimorendo gli impiegati della dogana, o piuttosto prelevava un'imposta su questo commercio fraudolento, ponendo del pari a contribuzione e coloro che lo esercitavano e coloro che ne profittavano, perchè fuvvi un tempo in cui nulla entrava in Napoli per mezzo della dogana. Ma non basta. Essendo per lo innanzi la polizia assai mal fatta, la camorra spesso ne faceva le veci alla dogana e altrove, sorvegliando gli imbarchi e gli sbarchi, l'ingresso, l'egresso e il trasporto della mercanzia. Conosco negozianti di prim'ordine, che aveano al loro soldo camorristi, ai quali davano fior di piastre per assicurare le loro spedizioni. Gli invii di danaro, per esempio, erano spesso garantiti dalla sorveglianza di questa polizia irregolare. E quello che è più singolare si è che questa strana ispezione fu ben tosto organata e sottoposta a tariffa con un rigore, che era lungi dai costumi del paese. La camorra si stabilì a tutti gli ingressi di Napoli, a tutti gli uffizi del dazio, alla dogana, alla stazione della ferrovia, tassò i facchini e i cocchieri, le vetture e le carrette che dovevano trasportare le mercanzie e i viaggiatori. La tassa era rigorosamente chiesta e percepita; sempre il decimo. Un cabriolet, per esempio, per una semplice corsa costava dieci soldi, il cocchiere non ne aveva che nove; il decimo spettava alla camorra.

Era specialmente alle porte della città, presso gli uffizi del dazio-consumo che i nostri bravi attendevano le loro vittime. I giardinieri delle campagne portavano de' panieri di frutta e pagavano dapprima un soldo per paniere. Ma quello che è notevole si è che non pagavano di mala voglia. Questa imposta permetteva loro di viver tranquilli. «Or bene, amico, eccoti contento!» io diceva, or sono alcuni giorni, a un Padulano (abitante di padule; così si chiamano i terreni grassi e ben coltivati che dalle antiche porte di Napoli si stendono fino alle falde del Vesuvio e forniscono legumi a tutta la città). «Perchè contentochiese egli – «Perchè si sopprime in questo momento la camorra.» – «Ah! signore» esclamò «questa è la nostra rovina. La camorra prendeva, è vero, la sua parte, ma sorvegliava il bazzariota (mercante ambulante) al quale affidiamo i nostri frutti e i nostri legumi, e tutti questi percorritori di vie, che coi nostri panieri si spargono per la città, non mancavano di rimettere al camorrista, che ce li rendeva esattamente, i pochi soldi che avean ricavato. – Oggi vi vuole la mano di Dio per raggiungere queste birbe. Invece di un ladro ne abbiamo trenta, che prendono tutto il nostro sangue

«Ma tu, dissi a un cocchiere di fiacre, nulla hai da dire

«Io, rispose, sono un uomo assassinato. Ho comprato un cavallo morto, che non conosce le strade, non vuol passare che dai luoghi che a lui piacciono, che sdrucciola alle salite, cade alle scese, ha paura de' mortaletti e delle campane, che ieri si è impennato nella grotta di Posilippo e ha schiacciato un branco di pecore che gli impediva il cammino. Un camorrista che mi protegge, e che avea il suo pizzo (posto) al mercato de' cavalli, mi avrebbe risparmiato questo furto. Egli sorvegliava le vendite e riceveva la sua mancia dal venditore e dal compratore. L'anno scorso io avevo da vendere un cavallo cieco, ed egli l'ha fatto passare per buono, perchè mi proteggeva. È stato messo in prigione, e io sono stato costretto a comprar senza di lui questo cavallaccio. – Era un gran galantuomo

Un'altra industria assai singolare, esercitata dai camorristi, era il lotto clandestino. Ciò merita alcune parole di spiegazione. Non tutti sanno ciò che sia il lotto officiale in Napoli. La estrazione avea luogo con grande apparato ogni sabato, in una sala del Castel Capuano (il quale è anche il palazzo dei tribunali in Napoli; oggi l'estrazione ha luogo al palazzo delle Finanze) sotto la ispezione della Corte de' Conti, con la benedizione di un sacerdote, in presenza del popolo e per mano di un fanciullo, il quale estraeva uno dopo l'altro cinque numeri da un'urna di legno, che ne conteneva novanta. Questi cinque numeri erano pubblicati uno ad uno da una finestra della sala, alla folla riunita dinanzi al palazzo: la notizia dell' estrazione si spargeva immediatamente colla rapidità del fulmine in tutti i quartieri della città e fino all'estremo limite del Regno. Il filo elettrico non avrebbe potuto lottare contro questa telegrafia verbale. Mi ricordo che un giorno lasciai la Vicarìa al momento in cui l'ultimo numero era sortito: trovai una vettura innanzi al palazzo, detti dieci minuti di tempo al cocchiere per percorrere la mezza lega che separa Castel Capuano dalla locanda da me abitata. Io contavo di recar sorpresa a tutti gli abitanti di casa, apprendendo loro i cinque numeri, ancora ignoti al prossimo botteghino del lotto. Il cocchiere fece tutto quanto eragli possibile: poco mancò che una volta o due non ribaltassi, attaccò delle carrette, frisò passeggeri, dimenticò di salutare le madonne, passò innanzi alla vettura di un principe reale, a rischio di esser arrestato l'indomani, e giunse in meno di nove minuti. Tutti conoscevano già l'estrazione!

Ad una quantità di industrie dava alimento la lotteria: vi erano gli assistiti, i maghi, gli zingari, i cappuccini che vendevano i numeri; vi erano anche degli uomini fraudolenti (ammesso che quelli sopra indicati non lo fossero) che sfruttavano largamente la ignoranza popolare, fornendo prove della loro lucidità. Per esempio, dicevano al lazzarone: «Va' a giuocar tre numeri, quelli che tu vorrai; io li saprò al tuo ritorno, perchè sento lo spirito che m'invade e me li dice all'orecchio.» L'astuzia riusciva sempre, in grazia di un compare dal piede svelto, che andava e veniva con un passo più sollecito del giocatore facilmente ingannato. Tutto ciò era accompagnato da genuflessioni, estasi e smancerie devote: la vittima sbalordita pagava finalmente ciò che le era chiesto per ottenere un terno profetico; e inoltre dava alcune libbre di cera per un santo qualunque, perchè i numeri non si ottenevano senza l'intervento del paradiso. E dopo ciò, attendeva tranquillamente il sabato, sicura di guadagnare il pane per il rimanente de' suoi giorni. I numeri non uscivano, ma l'assistito diceva all'afflitto disingannato: «È per causa de' tuoi peccati. Sei un miscredente e un miserabile

Or ecco in che consisteva la lotteria de' camorristi.

Il popolo ha tutta la settimana per giuocare e non può rischiare che le minime somme, una decinca per esempio (10 centesimi e mezzo). Ma il sabato mattina, l'ultimo giorno, all'ultimo momento la più piccola messa deve essere di quattro carlini (lire 1,68). Ora è raro che un plebeo di Napoli abbia questo denaro in tasca, in specie alla fine della settimana, avendo giuocato soldo per soldo tutto ciò che possedea durante i sei primi giorni. Egli si indirizza allora al camorrista di sul canto, che tiene un ufficio clandestino di lotto. Questo trafficante riceve le messe più povere alle stesse condizioni, agli stessi vantaggi e quasi colle stesse guarentigie, che offre l'uffizio legale. La estrazione non si fa separata, e i numeri estratti alla Vicarìa sono riconosciuti dai camorristi. Se per caso un biglietto guadagna, pagano esattamente al vincitore la somma che gli spetta; anzi mostrano una certa probità nel loro mestiere di contrabbando.

Ma è un miracolo che i numeri giuocati sortano. Il lotto è il giuoco più immorale, è una partita vergognosamente ineguale fra il fisco e il popolo, che frutta al primo delle centinaia di milioni. È un tributo vergognoso imposto alla perpetua illusione del povero. Ma il povero non vuole esserne sollevato. Già due o tre volte la rivoluzione ha minacciato di insorgere se le si toglieva il lotto. Garibaldi stesso, colla sua onnipotenza, non ha potuto abolire questa istituzione più radicata della dinastia de' Borboni. Il popolo avrebbe richiamato Francesco II per riacquistare il diritto di rovinarsi in favore di lui, e di arricchire il fisco riducendosi a morir sulla paglia.

Così i camorristi addivenivano ricchi con un tal mestiere. È stata di recente arrestata una donna, la Carnacottara (rosticciera), che teneva un botteghino di lotto illecito. Essa sola vi guadagnava, ogni settimana, un migliaio di franchi!

Gli affiliati si ponevano anche il sabato sera alla porta di tutti gli uffizi ortodossi e prelevavano un diritto sul danaro vinto dai giuocatori avventurati. Un uomo di casa mia, che vinceva talvolta, dava alla camorra dieci soldi per ducato: sempre il decimo.

Si comprende ora l'industria della setta. Essa sfruttava tutti i vizi, anche quelli del potere. Rubava al governo, quando il governo, o per amore o per forza, si conduceva disonestamente.

Ora passo sopra alle altre varietà di camorristi: quello che presiedeva ai bagni di mare e riceveva da ogni stabilimento sei carlini per settimana; quello che praticava l'usure e si mostrava nella via carico di spilli, di catene, di anelli impegnati presso lui dai poveri, sfarzo ambulante che nascondeva insolentemente l'ignobile mestiere di questo ribaldo. L'usura è un male che regna ovunque, ma sopra tutto a Napoli, ove non sono state fondate che di recente le casse di risparmio. La donna del popolo che guadagna qualche danaro si affretta a cambiarlo in ori, in gioielli cioè, che impegna quando la necessità lo richiede, e in questo paese del far niente la necessità vien sempre. E spesso il suo danaro le costa anzi che recarle frutto; essa deve pagare gli interessi all'usuraio, che conserva gli ori e le impone gravi condizioni per il riscatto. La povera donna si è già indebitata per comprare una catena doro, e spesso la impegna per pagarla. Si immagini pertanto il suo tristo stato fra i due creditori che la premono. Essa abbandona fino il suo ultimo pezzo di pane per pagare da un lato e conservare dall'altro questo tristo gioiello di cui essa non gode. – E tuttavia, incredibile oppressione dell'abitudine, quelle che agiscono così hanno fama di econome: quelle che più fanno mostra d'oro sono citate come esempi di modestia, di previdenza e di virtù. È al numero degli anelli che cuoprono tutte le falangi dei suoi dieci diti, che qui si riconosce la madre de' Gracchi.

La camorra, speculando su tutte queste debolezze, insinuavasi così, in mille guise, nella vita privata dei poveri. Essa era talmente temuta, che le vittime restavano in potere dei tiranni, anche quando questi non erano più liberi. Al parlatorio delle prigioni, ove sono racchiusi, ricevono ancora puntualmente il tributo de' loro contribuenti. Io non voleva crederlo: ho voluto vedere da me, ed ho veduto.

Erano temuti, ma dico anche di più, erano rispettati. Sia che nell'origine, come crede il signor Lazzaro deputato della sinistra (ho voluto consultare tutti i partiti), abbiano continuato la cavalleria errante e si sieno associati «per difendere il debole contro la prepotenza del forte col mezzo di una forza maggiore;» sia che la violenza sia ancora nei nostri giorni il miglior titolo alla venerazione delle moltitudini, essi si erigevano in tribunale popolare e componevano una magistratura meglio consultata, meglio ascoltata di quella eletta da Ferdinando. «Nel suo quartiere» scrive il signor Lazzaro, «il camorrista esercita di fatto l'ufficio dei giudici di pace; le sue sentenze sono inappellabili e spesso giustissime, non mai disobbedite; spesso con questo mezzo si evitano dispendiosi litigi.» Ho voluto verificare quest'asserzione, e la trovai perfettamente esatta.

Ma, se con una mano il camorrista faceva qualche bene, dall'altra faceva molto male. Che lo si chieda ai venditori o rivenditori di cocomeri, i quali dovevano pagare cinque o sei tasse prima che il felice consumatore potesse mangiar questi frutti, che servono al popolo a tre usi (pe nu rano, magni, bivi e te lavi la faccia). La camorra percepiva un diritto sulla caricazione, un diritto sul trasporto, un diritto sulla scaricazione, un diritto sulla distribuzione, un diritto sulla vendita al minuto di questi frutti a sì poco prezzo, umile regalo del povero, scemando il profitto de' coltivatori e de' venditori, che non vi guadagnavano quasi nulla. – Chiedetelo ai venditori di giornali, che dopo la rivoluzione hanno inondato la città! – Quando comparisce il Pungolo, la sera, verso un'ora di notte, frotte di monelli prendono la loro corsa, e agitando il foglio ancora fradicio, si slanciano in tutti i quartieri gridando a perdigola. – O Pungolo! O Pungolo – È asciuto o PungoloNotizie e RomaNotizie e Galibardo – È bello a leggere – O Pungolo! – O Pungolo! – Il pubblico arresta al loro passaggio questi gridatori sfrenati, affannati, immaginandosi, nel vederli così frettolosi, che il foglio della sera annunzi grandi notizie. Questa corsa furibonda frutta qualche soldo ai ragazzi, che vanno e vociferano in modo da spolmonarsi fino a che v'è gente per le vie. Ma frutta una fortuna ai camorristi che, senza far cosa alcuna, senza lasciar il loro posto, esigono la parte più grossa del bottino! – Chiedetelo a quei disgraziati che sotto i Borboni servivano di cambi militari; erano comprati dalla camorra che li rivendeva ai ricchi; ma appena comprati, questi sciagurati, guardati a vista, tenuti sotto chiavi, nutriti, vestiti, battuti come negri, subivano una servitù più rigorosa di quella dei prigionieri di Stato nei sotterranei di Castel dell'Uovo!

Chiedetelo ai mendicanti stessi! – Sì, questi vagabondi di cui ho parlato di sopra, stroppiati, famelici, fanfaroni della miseria che mettevano piaghe schifose in mostra, erano sottoposti alla pari degli altri alla inesorabile rapacità della camorra. Vi era un'imposizione fino sull'elemosina. 9

La setta infine (mi preme finirla) s'era insinuata nei corpi militari: fuvvi un tempo in cui i Borboni, disperando di acclimatare la coscrizione in Sicilia e volendo frattanto trarne dei soldati, aprirono le porte de' bagni e cambiando le vesti rosse in uniformi, arreggimentarono i forzati, sotto la bandiera bianca coi gigli. Non giudichiamo troppo severamente quest'atto sovrano, che era forse un tentativo umanitario. Diciamo soltanto che fu un piano disgraziato, in cui il cattivo elemento prevalse. L'armata tosto si corruppe, la camorra vi si stabilì, e presto passò nella marina.

Poco ho da dire sulla camorra militare che, grazie al cielo, non è più un male da estirpare. L'esercito napolitano si fuse con l'esercito italiano, combinazione più felice dell'altra, nella quale la lealtà, il coraggio, lo spirito di corpo, il rispetto della bandiera, la fermezza del granatiere piemontese, il brio del bersagliere, di questo corpo vispo e gagliardo che mi l'idea di uno squadrone di fantaccini che corrono sempre davanti ad essi al fragore vivace della lor musica; tutte queste qualità del grande esercito hanno invaso i coscritti di Napoli che marciano e si battono ora come vecchi soldati. Vedo passare tutte le mattine un reggimento, sotto la mia finestra; esso si compone di uomini presi a caso nell'intiera Italia; non riconosco già più il napolitano, il piemontese, il siciliano, il lombardo. Noi siamo tutti Italiani, mi diceva un fantaccino abruzzese, che avea perduto l'accento circonflesso eternamente aperto della sua provincia.

Bisogna però confessare che un piccolo numero di uomini del mezzogiorno ha tentato di introdurre la camorra nell'esercito italiano. Inutile dire in che consistesse questa camorra: il lettore ne sa già abbastanza per immaginarlo da medesimo. Era, come ovunque, una associazione de' violenti contro i deboli, un sistema di estorsioni sopra il soldo, sul rancio, sul pane, un traffico organato sopra i fornimenti, un accrescimento di obblighi imposto alle reclute, abusi inveterati che esistono in tutti i paesi, in tutte le riunioni di uomini, principiando dai collegi. Ma più perniciosi e più violenti erano a Napoli, perchè si costituivano in setta e formavano una oppressione organizzata.

Gli sforzi de' camorristi non ebbero presa sull'esercito italiano; la loro cospirazione sventata e smascherata non condusse ad altro resultato che a cuoprirli di confusione. Si ebbe il buon senso di infliggere a costoro la pena che più poteva paralizzarli, il ridicolo: furono esposti nel campo con un cartello sul petto nel quale stava scritto questo nome già infamante: Camorrista. 10 A datare da questa esecuzione non hanno più spaventato alcuno, e son derisi dalla stessa gente del loro paese.

Non ho dunque più da discorrere della camorra nell'esercito. Io rammento soltanto che essa era venuta di Sicilia d'onde avea condotto lo sfregio, una delle operazioni ordinarie della setta, una delle pene che essa infligge o applica al bisogno per conto altrui, in ispecie al di dello stretto. A Napoli s'incontra con uguale facilità un uomo sfregiato come uno studente tedesco: si può scommetter a colpo sicuro che egli è stato sfregiato da un camorrista. Ma è particolarmente sulle donne che questa barbarie veniva commessa, in un accesso di collera o di gelosia, qualche volta anche a sangue freddo e dopo una sentenza. Gli sfregi divennerofrequenti fra il 1830 e il 1840 che fu necessaria una legge speciale per reprimerli; fu decretato che ogni ferita, che avesse sfigurato il volto di chi l'avea ricevuta, sarebbe punita con raddoppiamento di severità. Fu anche proibito agli uomini di portare sopra di de' rasoi, istrumento ordinario di questa sorte di supplizi. Ma come punire violenze di cui niuno si lagnava, eranvi testimoni che parlassero, e neppur le vittime stesse? Sarò creduto se affermo sul mio onore che queste disgraziate (Victor Hugo direbbe queste miserabili) si affezionavano con una specie di furore all'uomo che le avea sfigurate? – «Bisogna che egli mi amiesclamava una di esse, mostrando sulla gota una larga piaga d'onde usciva sangue, «bisogna che mi ami!» La folla s'era riunita, sopravvenne un agente di polizia, il quale chiese ciò che era accaduto. – «Non è nulla» rispose ella, «ho preso questo rasoio, ridendo, per imitare quel giovane quando si fa la barba: io non v'ho badato troppo e mi sono tagliata: ecco tutto. Io non scherzerò più coi rasoi





9 Fino sulla devozione! A Frattamaggiore (provincia di Napoli) regnava un camorrista temutissimo, colpevole di molti delitti, e anche di un assassinio. Si chiamava Sossio dell'Aversano. Una delle sue industrie era sfruttare i preti, ai quali non temeva di estorcere del danaro. Prendeva loro fino tre soldi per messa...



10 Ecco i provvedimenti presi recentemente dall'autorità militare per impedire che la camorra entri nell'esercito. Sono disposizioni diramate dal ministro della guerra a tutti i comandanti superiori. Questo prezioso documento, che mi è stato comunicato, conferma e completa i ragguagli che ho dato su questo flagello.

1. Esercitare una severa vigilanza nei ridotti e bettole ove i camorristi si adunano facilmente per promuovere il giuoco ed esigere la camorra.

2. Osservare bene quelli che hanno anelli, catenelle o laccetti in colore nero o verde, capelli con ciuffetto e gli altri segni innanzi detti, essendo questi distintivi tutti dei camorristi.

3. Usare severa sorveglianza per coloro che cercano di entrare negli ospedali militari con finte malattie, colla speranza di esercitare colà più agevolmente la camorra.

4. Nelle riviste degli effetti nelle caserme, adoperare la massima attenzione e rigore per scoprire se si conservino armi negli zaini od altrove, o se si abbiano somme eccessive di danaro che si esigono come dritto di camorra.

5. Vigilare se si tengono corrispondenze attive coi luoghi di pena nel napolitano, sede abituale dei capi della camorra.

6. Fare di tanto in tanto delle riviste inopinate agli effetti del soldato.

7. Osservare se nei ranghi o nelle caserme si facessero alle volte segni con piegate di occhio, o con le mani o in altra maniera.

8. Procurare di rendere oggetto di ludibrio e disprezzo i camorristi per annullare il prestigio che essi tentano di esercitare.

9. Vigilare che i giovani soldati, e le reclute al loro arrivo non abbiano ad essere intimoriti o influenzati da coloro che si hanno in sospetto di camorristi.

10. Verificare con tutta attenzione gli stati matricolari (figliazioni) nei quali sono designate le punizioni per furti, giuoco, ferimenti, affine di sorvegliare maggiormente coloro che le avessero sofferte; sorvegliare pure attentamente quei militari che dalle figliazioni suddette risultano aver fatti passaggi di corpo, allorchè facevano parte dell'esercito delle Due Sicilie.

11. Inculcare che siano denunziati i camorristi, quando si conoscano dai compagni, siccome esseri indegni e da espellersi, inviandoli in corpi di punizione; vigilare poscia sulle corrispondenze di questi ultimi co' soldati dell'esercito.



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