Marco Monnier
La camorra: notizie storiche raccolte e documentate
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V. ORIGINI DELLA CAMORRA.

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V.
ORIGINI DELLA CAMORRA.

Questioni di etimologia e di vestiario – La camorra in IspagnaRinconete e Cortadillo – La confraternita di Monopodio – La camorra fra gli Arabi – Il camorrista e Sancho Pança – La baratteria – La camorra sotto i vicere a Napoli – I due tratti di cordaRapporti dei Gesuiti sui camorristi – La garduna – Gli uffiziali pubblichelli – I bonachiUmili scuse dell'autore.

Omai il lettore conosce la camorra, i suoi costumi, le sue leggi, la sua potenza nelle carceri, le sue ramificazioni in città. – Importa ora studiarne le cause e le origini: forse mi si dirà (e taluno lo avrà già detto) che avrei dovuto prender di qui le mosse. Ma il mio argomento è sì poco conosciuto, che è malagevole parlarne, serbando una rigorosa regolarità cronologica. Se io dovessi scrivere la storia d'Italia, a mo' d'esempio, non vi sarebbe alcun inconveniente a esordire collo stabilimento dei Pelasgi e degli Illiri, perchè la sola parola Italia, scritta sul frontespizio del libro, evocherebbe nei lettori più illetterati la gloriosa immagine della penisola

Che Appennin parte, il mar circonda e l'Alpe.

Ma il titolo di camorra non poteva suscitare che idee vaghe e confuse. Stimai quindi necessario definirla da prima. Quando ci imbattiamo in un uomo a noi ignoto, non gli si chiede, onde egli venga, ma chi egli sia; il perchè ho stimato dover descrivere prima il torrente melmoso, e indicarne poi le scaturigini.

D'altra parte a propriamente dire non havvi genesi della camorra. Intorno alle origini di una setta che porta questo nome, nulla dice la storia, e la tradizione non risale oltre il 1820. Per ottenere qualche semplice notizia su tal punto oscurissimo bisogna avventurarsi sul terreno dubbioso della etimologia. Io ho cercato di avere notizie dai dotti, ed ecco quanto mi hanno insegnato.

Secondo taluni, camorra non è che una corruzione del vocabolo gamurra, indicante un vestiario grossolano simile assai alla chamarra degli Spagnuoli. La parola camorra si trova spesso nelle antiche commedie in dialetto, e designa sempre una specie di abito cortissimo o di giacchetta. – «Le facettero vedere camorra de telette di Spagna» – dice un vecchio libro napolitano. – (Pentamerone, III, 10).

Da ciò può concludersi che questo abito popolare era indossato in altri tempi da una genia di bravi e di lazzaroni, che presero il nome dalle loro vesti. Due circostanze avvalorano questa presunzione; i camorristi portano ancora un abito simile, e i bonachi in Sicilia (setta dello stesso genere) sono così chiamati perchè portano la bunaca, «giubbone di velluto che li copre sin sotto il cinto ed ha una grande tasca di dietro.» – Il dizionario siculo di Mortellaro, che fornisce questa spiegazione, aggiunge che una parola simile, bumaca, esiste nel dialetto calabrese. Questa è una maniera assai astuta per insinuare che la camorra non nacque in Sicilia, ma vi venne del continente: i lessicografi non dimenticano l'amor del luogo natio.

Il mio dotto amico, signor de Blasiis, professore all'Università di Napoli, avendo istituite per me alcune indagini nella Biblioteca Nazionale e avendomi aiutato colla sua gentile erudizione in questa parte difficile del mio lavoro, ha scoperto nella voluminosa raccolta intitolata Monumenta historica patriae (Cod. Dipl. Sard. tom. 1. pag. 358, n. 1) una compagnia quae facta futi in Kallari dicta de Gamurra, associazione de' mercanti di Pisa, riuniti nell'Isola di Sardegna e armati di arbaleti, di corazze e moschetti per la difesa del paese. La fondazione di questa compagnia rimontava al principio del secolo XIII.

A malgrado di queste curiose notizie e di queste dotte ipotesi, il comune degli etimologisti si attiene alla semplice interpretazione che fornisce il più volgare dizionario spagnuolo. Al di de' Pirenei, camorra significa querela, rissa, contestazione, disputa. Buscar camorra, vuol dire cercare noci; hacer camorra cercar lite. Il nome di camorrista esiste nel linguaggio popolare, e designa il cattivo soggetto. Vi è duuque da scommetter cento contro uno che la setta, eminentemente querula, de' camorristi napolitani ha tratto di il suo nome e per conseguenza è una importazione spagnuola.

Si trovano d'altra parte negli antichi costumi spagnuoli alcune vestigia di un'associazione simile, che proteggeva i vizi onde sfruttarli. In grazia all'abile traduzione di L. Viardot sono conosciute le novelle di Cervantes. Or se taluno si prende la pena di rileggere la seconda (Rinconete e Cotardillo) vi troverà la storia di due ladri apprendisti, ammessi nella confraternita di Monopodio. Questa rassomigliava alla camorra ed era di lei più scellerata. Era una riunione di ladri stabiliti a Siviglia, i quali dividevano i loro lucri colla polizia e col clero. «È nostro costume, confessa il capo, di far dire ogni anno un certo numero di messe per il riposo delle anime dei nostri defunti e benefattori, prelevando, per l'elemosina del prete che le celebra, una parte di ciò che viene da noi rubato. Queste messe dette e pagate in tal guisa arrecano, a quanto si assicura, grandi vantaggi a quelle anime, per via di naufragio (voleva dire per via di suffragio); sotto il nome dei nostri benefattori comprendiamo il procuratore che ci assiste, l'alguazil che ci corregge, il boia che si muove a pietà di noi, quegli infine che, quando uno dei nostri corre per la via ed è inseguito dalle grida al ladro, al ladro, arrestatelo, arrestatelo, si getta in mezzo e raffrena la folla che si precipitava dietro il fuggiasco, dicendo: Lasciate andar quel povero diavolo: assai è disgraziato, che vada in pace e che sia punito dal suo stesso peccato.» – Leggendo queste linee, si crederebbe che vi si parlasse non di Siviglia, ma di Napoli, non dei costumi di tre secoli indietro, ma di quelli dei nostri giorni.

La confraternita di Siviglia formava una società a parte come la camorra: aveva la sua lingua, il suo codice, si giudicava da medesima e si attribuiva sui propri membri il diritto di vita e di morte. Monopodio, il capo di questi birbanti, «aveva dato loro l'ordine di prelevare su tutto quanto rubavano qualche elemosina per l'olio della lampada di una santa immagine che si venerava in città.» È lo stesso di quello che fanno i camorristi per i quadri della Madonna, che si trovano nelle prigioni.

Un altro punto di contatto fra le due società consisteva nel tempo del noviziato. A Siviglia i novizi si chiamavano fratelli minori; dovevano pagare una mezza annata sul primo loro furto, portavano ambasciate ai fratelli maggiori sia alle prigioni, sia nelle loro case, per conto de' loro contribuenti e adempivano mille offici subalterni. I fratelli maggiori avevano tutti un soprannome, e aveano, come i camorristi, il diritto di entrare a parte di tutto ciò che gli applicati portavano nella massa comune. Il capo distribuiva il prodotto totale delle industrie diverse fra i subordinati e gli agenti, dopo aver prelevato ciò che spettava agli alcadi e agli alguazils. In grazia di tali precauzioni, le pattuglie passavano dinanzi ai luoghi ove erano ricoverati i banditi e non v'entravano mai. Questi si spargevano nel mattino per la città, dove ciascuno era obbligato a commettere qualche delitto. Spesso la confraternita si incaricava delle vendette private, e Monopodio teneva un registro esatto delle commissioni che riceveva dai suoi clienti. Ecco alcune partite tolte da quel registro.

«Al sarto gobbo soprannominato il Silguero (calderino) sei colpi di bastone per conto della signora che ha lasciato in pegno la sua collana. Esecutore il Desmochado (il mutilato)» (Un camorrista di Napoli avea il soprannome di Mozzone, che suona lo stesso.)

«All'oste della Lucerna, dodici colpi di bastone di prima qualità, a uno scudo il colpo. Ricevuto un acconto per otto. Termine stabilito sei giorni. Esecutore Maniferro

«Nota degli sfregi da farsi in questa settimana. Il primo al mercante sul canto della via. Prezzo cinquanta scudi: trenta sono già stati pagati in conto. Esecutore Chiquiznaque

Ecco lo sfregio de' camorristi. Recan maraviglia questi punti di somiglianza fra le due società, soprattutto quando si pensa che Cervantes non ci ha fornito in questa novella un quadro di fantasia per incastrarvi qualche avventura romanzesca, ma invece ha fatto uno studio senza finzioni, senza fiorettature, di costumi infami, da lui esaminati durante il suo soggiorno a Siviglia dall'anno 1588 all'anno 1603.

Un'altra particolarità, che assegna alla camorra un'origine spagnuola, è il significato nel quale questa parola è presa dagli scrittori del dialetto e dalla gente del paese. Infatti se consultiamo il Vocabolario Napolitano di De Ritis o il Vocabolario Siciliano del Mortillaro, si vedrà che il camorrista è un biscazziere plebeo, che corre per l'osterie per estorcervi del danaro ai giuocatori a forza d'insulti e di minacce. È probabile che questo fosse il primo mestiere della setta, il cui nome verrebbe allora dall'arabo Kumar, giuoco aleatorio proibito dal Corano, produttivo di lucri fraudolenti (alea, dice il dizionario arabo e persiano di Mencirski, et aleatorius quivis ludus peculiariter quo captatur lucrum). Si può dunque inferirne che gli Arabi dessero questo vocabolo agli Spagnuoli, i quali lo trasmisero ai Napolitani, forse anche con il fatto che denotava.

È certo però che questa imposta sul giuoco era in vigore in Spagna ai tempi di Cervantes. Allorchè Sancho Pança fece il giro della sua isola di Baratteria (si noti il nome, sul quale tornerò in appresso, che significa cambio, traffico, e, per traslato, frode, tanto in italiano quanto in spagnuolo), allorchè Sancho, come io diceva, fece questo giro, accompagnato da tutti i suoi seguaci e dal suo istoriografo, senza contare i cancellieri e gli alguazils, mentre camminava in mezzo ad essi col suo bastone in mano, udì il romore prodotto dal cozzar di due spade. Erano due uomini che si battevano e che si fermarono al sopraggiungere della giustizia, e uno di essi esclamò: «Dobbiam tollerare che questa gente commetta furti, e che si getti sopra di noi per spogliarci in mezzo alla strada?» – « Calmatevi, uomo dabbenedisse Sancho, «e raccontatemi qual è la causa di questa rissa, perchè io sono il governatore

Ecco la risposta che egli ebbe. Chiedo licenza di sostituire qui una traduzione letterale, fatta da me, all'interpretazione alquanto libera del testo data da altri traduttori da me consultati. – «Signor Governatore, ve lo dirò brevemente. La Signoria vostra saprà che questo gentiluomo ha vinto ora nella casa di giuoco, di faccia, più di mille reali, e Dio sa come; io che ero presente giudicai, contro coscienza, in favor di lui molte partite dubbie: e quando sperai che mi avrebbe dato almeno qualche scudo di gratificazione, come è stile darne ad uomini della mia importanza, che se ne stanno testimoni de' cattivi e de' buoni colpi, per giudicare le frodi e per risparmiare le querele, egli intascò il suo danaro ed uscì dalla casa

Questo è ciò che faceva il camorrista napolitano nelle case di giuoco di Napoli. Ho tradotto gratificazione la parola spagnuola barato, che denota specialmente una specie di mancia pagata d'ordinario dal giuocatore che vince. E qui rammento che la imposta percepita dalla camorra di Napoli chiamasi barattolo.

L'individuo, interrogato da Sancho, aggiunge ancora: «Io sono un uomo onorevole: non ho impiego benefizii, perchè i miei genitori nulla mi hanno insegnato e nulla lasciato» (altra rassomiglianza co' camorristi), e finisce col dichiarare che, se Sancho ritardava, avrebbe fatto vomitare la sua vincita (traduco letteralmente vomitar la ganancia) al gentiluomo. «Che potete risponderechiese Sancho a questo: «Egli confessò che quanto avea narrato il suo avversario era vero, e che non avea voluto dargli più di quattro reali, perchè gli regalava spesso del danaro, e perchè coloro che speravano il barato dovevano esser modesti e ricevere ciò che loro si dava con volto gioviale, senza porsi a patteggiare co' giuocatori fortunati, a meno che non sapessero che questi aveano vinto fraudolentemente, perchè i giuocatori fraudolenti sono sempre tributari de' testimoni (mirones) che li sorprendono.» – È la camorra vera e propria, è lo sfruttare il vizio e la frode altrui. Da questo brano apprendiamo inoltre che i camorristi nelle case di giuoco di Spagna si chiamavano mirones.

È nota la sentenza di Sancho. Il gentiluomo fu condannato a pagare 200 reali al miron, e questi a partire immediatamente e star fuori dell'isola dieci anni. Chiudendo questo paragrafo osservo che la polizia di Napoli, avendo da trattar con uomini simili, pronunzia sentenze simili. Essa li scaccia dalla città e li invia, non importa dove, fino a nuovo ordine. I costumi fanno le leggi: abbiam progredito molto dopo Sancho Pança in fatto di morale e di giustizia.

Per le ragioni da me esposte è dunque probabile che la camorra si stabilisse nell'Italia meridionale con gli Spagnuoli. Però negli annali antichi di queste contrade non se ne trovano tracce, e in tale proposito è mestieri giovarsi di congetture molto confuse. È noto soltanto che la camorra non si esercitò soltanto nelle case di giuoco, ove era conosciuta e gastigata dalle prammatiche siciliane (Titolo LIII, v. I. ec ) sotto il nome di baratteria. Essa entrò nei luoghi di detenzione, che addivennero in seguito il centro della setta, e vi formò un'associazione feroce, che vivea di rapina e di assassinio. Fin dalla metà del secolo XVI il vice-re cardinale Gran Vela scriveva quanto segue (Pragm., 27 sett. 1573): «A nostra notizia è pervenuto che dentro, le carceri della G. C. della Vicarìa si fanno molte estorsioni dai carcerati, creandosi l'un l'altro priori in dette carceri, facendosi pagare l'olio per le lampade e facendosi dare altri illeciti pagamenti, facendo essi da padroni in dette carceri.» – Il pio prelato immaginò un singolar mezzo per domar la camorra: la sottopose a due tratti di corda. Ma sembra che il supplizio non bastasse. Esiste nella Biblioteca Nazionale un documento curiosissimo intitolato: Relazione dello stato delle carceri della G. C. della Vicarìa di Napoli e delle mutazioni fatteci e mantenute sino al presente 1674 per mezzo della missione perpetua istituitavi dai PP. della Compagnia di Gesù. Si rileva dal rapporto «che nelle prigioni i furti erano tali, che appena entrato uno nelle carceri s'eran già venduti li vestiti e quel che è peggio si trovava spogliato senza accorgersene, e se ben s'accorgeva non poteva parlare per timore della vita, poichè con più facilità si facevano omicidi, avvelenazioni ec. dentro le carceri che fuori. E grandi erano i maltrattamenti che si facevano a quelli che venivano carcerati o per occasione di torgli qualche danaro sotto colore che ognuno, quale entra di nuovo carcerato, li facevano pagare la lampa, o sotto altro titolo che si tace per modestia

Ma i sermoni de' Gesuiti non sortirono migliore effetto della corda del cardinale. Si narra che uno dei padri, intento a convertire un detenuto, parlandogli della grazia di Dio, non ottenesse che questa empia risposta: «Padre, se tu mi dài un carlino per comperarne tanta salsiccia, ti darò tutta questa grazia di Dio che tu mi hai offerta

Una lunga sequela di bandi, di ordinanze, di prammatiche dimostra che in que' tempi i misfatti della camorra si commettevano costantemente nelle prigioni e anche nelle città. Essa non era per anco divenuta, quale è oggi, una associazione unica o una confederazione di società alleate. Il nome di camorra non si incontra ne' documenti di quest'epoca; ma, se il nome non è ancora usato o almeno adottato nella prosa officiale e letteraria, si trova peraltro ne' malfattori di que' tempi la specialità de' reati, che distinguono la consorteria dai delinquenti comuni. Quel Giulio Monti, a mo' d'esempio, impiccato nel 1529 per ordine d'un altro cardinale vice-re, per nome Colonna, null'altro era che un feroce scherano capo di matamori plebei, che sottoponeva a taglia e riscatti, nel bel mezzo del giorno, coloro che aveano affezione alle proprie orecchie. Il suo fratello Cola Giovanni, il quale subì la stessa pena, non avea altro mestiere se non quello di sviare, di strappare e di falsificare le procedure. (Parrino, Teat. Stor. dei Vicerè, vol. I, pag. 92.)

Alcuni bandi d'Annese, di Toraldo, di Guisa promulgati durante la insurrezione del 1647 ci mostrano l'abitudine radicata di imporre tasse arbitrarie ai cittadini, e le continue estorsioni di questi bravi, cui ancora non si dava il nome di camorristi. Ma l'esistenza della setta è chiaramente indicata in un opuscolo intitolato: Barlume di fatto e ragioni a prò di tre poveri soldati alemanni del reggimenti Odiveier, come sicarii e proditori ec. da porsi ai piedi di S. E l'Eminentissimo Althann. Manca la data di questo opuscolo; ma, a forza di pazienti ricerche, il signor De Blasiis è giunto a concludere che esso fu scritto nel 1726.

Dopo aver rammentato gli abusi e le esazioni dei soldati spagnuoli durante la loro dominazione, l'autore dice: «Ma quello che era peggio, che quei tali allora militari di sì corrotti e diabolici costumi tiravano seco buona parte di sgherri e malandrini del paese, che uniti con un altro infame genere di certi bastardi di soldati, chiamati giannizzeri, dalli stessi spagnuoli Idalghi e d'onore abborriti, li quali per vilissimi uffizi fatti avessero, tutti col Don appellavansi, col confondersi il nome di cavaliere tra i ribaldi, e male a quel povero cittadino che non li rispettava, sendone giunti sino a ritirarsi in chiesa, e con certi bigliettini componeano di consideranti somme i benestanti, minacciandoli in mancanza della vita.» Da questo brano non potrebbesi concludere che la compagnia della Garduna, fondata nel 1417 in Spagna, la quale offre tanti punti di simiglianza colla camorra, siasi stabilita co' conquistatori nelle due Sicilie, riunendo in una associazione formidabile i baratori di carte, i ladri delle vie, i tirannelli delle prigioni, e tutti i sanguinari del paese?

Rispetto alla camorra più mite, quella cioè che si esercita contro i poveri venditori sui mercati, noi la ritroviamo non solo negli antichi costumi, ma anche nelle antiche leggi. Esisteva in passato una classe infima di poliziotti, nominata uffiziali pubblichelle (prubbechelle in dialetto), che si facea lecito sotto diversi pretesti di imporre ai venditori di commestibili certe piccole tasse fraudolenti per coprire le loro contravvenzioni. Lo stesso diritto oggi viene percetto dai camorristi.

Tali sono le vestigia della setta che ho potuto rintracciare nei secoli scorsi. Ben si vede che sono ben piccola cosa; pure meglio che nulla; esse provano almeno che le violenze e le estorsioni degli scellerati, che in questi giorni hanno afflitto le città meridionali, erano già ne' costumi di questi paesi fin dal regno degli Spagnuoli. Ma nulla è stato trovato che aggiunga particolarità alcuna sul graduale organamento della setta. Avrei voluto rinvenirla e assegnarle una parte nelle tremende scene del 1799, perchè sarebbe stato per me immensa fortuna di farne responsabile una società di malandrini, e di assolverne così il popolo; ma tutte le mie indagini, forse insufficienti (amo sperarlo ancora), furono inutili. Ho picchiato a tutti gli usci, ho consultato gli storici della prima rivoluzione, coloro che più lungamente avean rovistato gli archivi, lo stesso Alessandro Dumas, che non avrebbe trascurato questa particolarità così pittoresca per la sua Storia de' Borboni; ma né i dotti né gli studiosi, né Dumas stesso hanno incontrato negli scritti del tempo o nelle memorie de' contemporanei l'ombra di un solo camorrista. Un vecchio carceriere mi ha detto di saper da suo padre, cui nell'ufficio era succeduto, che i patrioti napolitani, perseguitati sotto il cardinal Ruffo, erano stati riscattati nelle prigioni da uomini violenti, forse affiliati alla setta: nulla di più ho potuto sapere. E con questo ho finito di metter in evidenza la mia scarsa erudizione in tal proposito.

Forse qualche raggio di luce verrà dalla Sicilia. L'illustre generale La Marmora è stato così cortese da chieder per me al cavalier Monale, che ora governa l'isola, una relazione sulla formidabile associazione de' bonachi, ossia sulla camorra sicula. Malauguratamente questo rapporto è opera assai difficile, e richiede maggior pazienza e maggiore studio di questo mio lavoro. Dispero dunque di ottenerlo e rinunzio ad attenderlo. Forse sarà argomento di un secondo opuscolo, che in seguito offrirò ai miei lettori.

Per ora mi attengo al poco che ho detto, e mi conforto nel pensare che alcune particolarità di più aggiungerebbero poca cosa al fondo di questo studio. Non è già nei suoi precedenti storici che è mestieri ricercare le origini della camorra: fosse antica come il mondo, la setta avrebbe cessato di esistere se non avesse altre radici tranne le sue tradizioni, altre ragioni di essere tranne i suoi annali. Più vicino a noi, nel cuore del popolo, nella sua vita, troveremo la causa del male e, trovatala, potremo combatterla. Abbandoniamo dunque i libri: studiamo gli uomini, e cerchiamo di spiegare, non con ipotesi storiche, ma con ragioni sociali, il perchè un flagello simile abbia potuto sussisterelungamente in pieno secolo XIX, in mezzo a una popolazione intelligente, e sotto il monarcato di re cristiani.


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