Marco Monnier
La camorra: notizie storiche raccolte e documentate
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VI. RAGIONI SOCIALI DELLA CAMORRA.

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VI.
RAGIONI SOCIALI DELLA CAMORRA.

Progressi attuali del popolo – Suo demoralizzamento sotto i Borboni – La paura – I terrori dei letterati – Gli attendibili – I terrori degli stranieri – Le violenze militari – I terrori religiosi – L'inferno – I terrori di re Ferdinando – La persecuzione dei liberali – La camorra della polizia e la polizia della camorra – La colonia di Tremiti; dove passasse il danaro dei deportatiPerchè la setta fosse rispettata.

Quando il diritto del più forte regna in qualche luogo, a chi dobbiamo attribuirne la colpa? A chi lo impone, o a chi lo sfrutta? No: a chi lo tollera e a chi lo subisce. Quindi, se la camorra ebbe sì lunga vita a Napoli, dobbiamo accusarne il popolo e il governo.

Cominciamo dal popolo, e anzi tutto rendiamogli giustizia. Ha pregi veri e talune virtù, che non incontrai altrove, spinte fino alla passione; e la parola non è esagerata. Così il sentimento della famiglia, il rispetto ai vecchi, la venerazione filiale, per cui i figli conservano al padre e alla madre il titolo di gnore (signore), e consegnano ad essi, anche quando da fanciulli sono addivenuti uomini, tutto il danaro che guadagnano col lavoro: la veemenza negli affetti, la cieca devozione per gli amici, la tenacità negli amori, che uno sguardo solo basta talora ad accendere e che durano castamente per lunghi anni, fino a che l'amante, accumulando soldo a soldo, non abbia comprato il letto e ammobiliata la casa, ove ricevere la fidanzatafedelmente attesa: la carità infine sotto tutte le forme, le elemosinelargamente distribuite, i soccorsi prestati senza interesse, l'adozione che fanno i poveri dei figli de' più poveri. Non cito che i fatti che vengono sotto la mia penna e che accadono tutti i giorni sotto i miei occhi.

Aggiungo che dopo la rivoluzione il popolo ha fatto progressi sociali notevoli. Coloro che hanno occasione di trattare con esso non lo riconoscono più, tanto l'aria vivida della libertà gli ha aperto l'intelligenza. Il lazzarone de' tempi andati, che dormiva per le vie e non chiedeva al re che di non abbandonar il suo sole, il vagabondo pittoresco più non esiste: il suo stesso nome quasi è scomparso dal dialetto, o almeno non è ricevuto che in mala parte: lo si , lo si respinge come un insulto. L'uomo del popolo ha preso il nome di popolano. Non porta più il costume leggero che gli si attribuiva nelle litografie: la camicia e i calzoni di grossa tela, il cappuccio o il berretto frigio di grossa lana, le calze e le scarpe di carne, come dice Cervantes. Questo semplice vestiario non si trova che qua e fra i pescatori di Carmelo o di Mergellina. Il popolano non ha adottato la blouse turchina degli operai, ma indossa veste e sotto veste, e cuopre il suo capo di un piccolo berretto, o di un cappello di feltro, porta pantaloni che scendono fino ai piedi, calzati di cuoio, alla pari di ogni altro individuo. Lavora, lascia crescere i suoi baffi, impara a leggere, ha un'opinione politica, appartiene alla Guardia Nazionale. Gli schernitori ne ridono, gli artisti ne piangono, ma il popolo se ne avvantaggia (e questo è quel che monta), e il mondo progredisce.

Ma non ho parlato che del vestiario e di un certo progresso intellettuale della plebe: sarebbe ben piccola cosa questo progresso, se non si operasse anche nel suo carattere. Or bene: non credo farmi illusione, dichiarando che anche su questo proposito il popolo ha molto acquistato. Non consiglierei allo straniero, nei tempi che corrono, di bastonare con tanta facilità, come altravolta potea fare, il suo commissionario o il cocchiere del suo fiacre. La dignità individuale si è ritemprata in queste aure libere che dalle cime delle Alpi scendono fino alle falde degli Appennini. Ho veduto ieri co' miei occhi un popolano, il quale schiaffava un borghese azzimato, che lo avea colpito colla sua canna. Quando vi prendevate scherno di un semplice pescatore prima di Garibaldi, egli rideva stupidamente, quasi fosse schiacciato dal peso de' vostri sarcasmi. Ma oggi abbiate prudenza: sa parlare libero e rispondere franco: non ne abusate, vi replicherebbe e vi vincerebbe.

Mi spingo più oltre: ho notato nel popolo una certa energia collettizia che si è mostrata più d'una volta nelle occasioni importanti, e che a più riprese ha coraggiosamente espresso il voto nazionale. Ma dopo questo elogio meritato, che constata la felice influenza della rivoluzione, dopo questi sintomi di rigenerazione che ci fanno sperare le virtù di un popolo libero, sono costretto dal mio argomento a mostrare ciò che fosse collettivamente addivenuta questa plebe sotto il governo demoralizzatore de' Borboni. Già lo accennai nel mio opuscolo sul Brigantaggio: lo ripeto oggi per porre in luce le vere cause della camorra. Dopo la caduta di Murat fino al governo di Garibaldi, Napoli fu governata da un tiranno, più assoluto, più degradante, più tristo, più fatale della sequela di pessimi monarchi, che durante questo mezzo secolo ascesero il trono già tarlato di Carlo III: e questo tiranno, che spense le intelligenze, avvilì gli spiriti, corruppe le coscienze, tenendo il popolo sotto la più brutale e la più inesplicabile oppressione, fu la paura!

E per non trovarmi in dissenso con alcuni patrioti un po' suscettibili, specialmente col deputato Antonio Ranieri, napolitano per eccellenza, che mi ha vivamente rimproverato queste asserzioni, ripeto che parlo del popolo napolitano sotto i Borboni, senza risalire più su nella sua storia. Non ho dimenticato la rivoluzione di Masaniello, le trenta o quaranta insurrezioni della fedelissima Napoli. Riconosco che in questo paese tutte le ribellioni fortunate scoppiarono nelle vie, e so che l'opposizione de' lazzaroni impedì alla inquisizione di esser feroce contro di essi. Infine, come prova suprema e terribile dell'energia popolare, ho appena bisogno di ricordare gli inesorabili furori del 1799!

Ma dopo la Restaurazione, questa vitalità a poco a poco venne meno, non calmata, ma doma da una strana oppressione, che usò violenza agli animi senza raddolcirli. Un fitto velo venne steso sul popolo napolitano, un vapore pestilenziale lo avvolse e lo assopì. Ho veduto questo paese prima e dopo il 1848: vi sono tornato spesso dopo lunghi soggiorni all'estero: nulla varrebbe ad esprimere l'isolamento morale, in cui io mi trovava tornando di Francia o di Germania. Era sempre lo stesso golfo, lo stesso ardente Vesuvio, colla sua cresta di fumo, co' suoi colori rosei e turchini, ove scorgevo Sorrento al cader del sole, come un vago giardino posto in mezzo a questa costa rotonda, ripiena di sinuosità innumerevoli fra la serenità del cielo e la limpidezza delle onde. Ma, voltate le spalle al panorama per guardar gli uomini, voi cadevate in una tristezza e in uno stupore desolante. Trovavate un popolo isolato dall'Europa intiera, straniero a tutte le questioni che agitavano i due mondi, imprigionato in una splendida cella, ove non entravano le idee, le credenze, le conquiste materiali del secolo nostro. Se, per avventura, in un luogo pubblico dicevate una parola intorno ai grandi avvenimenti contemporanei, la folla si allontanava da voi, come da un provocatore sospetto, assoldato dal commendator Luigi de' baroni Aiossa. Vi erano, è vero, uomini istruiti, splendide intelligenze fra questa moltitudine ottenebrata e velata da una triplice nube, ma dovevano ricorrere, per vivere in Europa, a sotterfugi, che avrebbero stancato la pazienza di un benedettino, e l'astuzia di un contrabbandiere. Per mezzo delle legazioni straniere aveano giornali, riunivano libri che andavano a cercare sotto i letti de' librai, i quali li ricevevano per contrabbando, e li rivendevano a peso d'oro: poi scavavano nascondigli nelle mura delle loro camere per ricettarvi prudentemente i frutti illeciti e proibiti. Infine nascondevano colla maggior cura la loro scienza, il loro ingegno, consacrando il loro zelo a farsi dimenticare, e chiedendo a Dio di restare sconosciuti o disconosciuti per liberarsi col favore dell'oscurità dalle persecuzioni della polizia.

Ma, prima di acquistar la fiducia e la intimità di uomini siffatti, occorreva superare muraglie di bronzo. Non aprivano il loro animo che ad amici da lungo tempo esperimentati per comunanza di sofferenze e di privazioni. In pubblico e dinanzi agli indifferenti simulavano l'ignoranza de' lazzaroni o l'imbecillità di Bruto. Ogni nuovo capitolo era sospetto, e le conversazioni finivano al suo ingresso, o svanivano in ciarle frivole sui balli del giorno innanzi, o sull'opera che si rappresentava la sera. Una diffidenza cautelata ghiacciava le relazioni, e isolava le intelligenze. Gli uomini eminenti si formavano a parte, nell'ombra e nell'isolamento, eroi viventi sorti da medesimi nella terra de' morti.

Ahimè! nulla invento! pure questi tempi sono già così lontani da noi, che forse mi si accuserà non di ritrarre dal vero ma di creare colla mia fantasia. Invoco però la testimonianza di tutti quanti furono detenuti in Napoli dal 1848 al 1869: essi vi diranno unanimi che la loro povera mente, estenuata dalla astinenza, declinava d'ora in ora e avrebbe finito per morire di sfinimento. Invoco la testimonianza di tutti coloro che non ebbero la fortuna dell'esilio in un paese libero, e che furono inviati qua e nelle città o nelle provincie, confinati in una borgata, isolati sopra una montagna con proibizione di uscirne: tutti sorvegliati, spiati, denunziati, respinti dalla popolazione, che si allontanava da essi con spavento, temendo di compromettersi. Chi è quell'uomo che cammina solo in campagna, colla testa bassa, che le guardie campestri accompagnano con uno sguardo inquieto e geloso: forse un evaso dalle carceri? no: è un uomo dotto, e quindi un attendibile, ossia un sospetto: sospetto vuol dir lebbroso: allontaniamocene!

Invoco infine per testimonianza que' trecentomila attendibili, che vissero dodici anni sotto questa abbominevole persecuzione: diranno essi se esagero.

Già si comprende, dal poco che ho accennato, con quanta violenza regnasse la paura nell'antico Stato delle due Sicilie. Ho veduto molti paesi ove il potere era temuto, ma in nessuno notai simili angoscie. A Roma la malizia popolare avea il coraggio di affigger pasquinate contro i cardinali. A Firenze l'opposizione de' letterati avea un centro di riunione in casa di Giampietro Vieusseux, e resisteva al dispotismo snervante di una autocrazia temperata dalla mansuetudine. A Milano la fibra nazionale, costantemente eccitata, vibrava sempre come vibra tuttora a Venezia, e il popolo non lasciava fuggire un'occasione per mostrare il suo odio contro gli stranieri. Ma Napoli era caduta in tale stato di prostrazione, che era giunta a temer più della rivoluzione che della tirannia. Ogni qualvolta un moto scoppiava in una provincia vedevansi impallidire quelli stessi che più esecravano il Governo. Le memorie tuttora fresche del 15 maggio 1848, delle case atterrate a colpi di cannone, saccheggiate, bruciate, non dai rivoltosi, ma dai soldati del re; il regime tremendo che avea seguito tali violenze; la città in preda all'oppressione militare, le barbe tagliate a colpi di sciabola, i borghesi aggrediti nelle loro carrozze dai soldati che vi si assidevano in luogo loro; i primi cittadini di Napoli, gentiluomini, deputati, antichi ministri, incatenati e trascinati per le vie fino alle prigioni, poi detenuti per quattro anni senza processo, poi condannati a morte, e in ultimo, per grazia, gettati nelle galere: tutte queste barbarie (e passo sopra a molte, narro le bastonate, le torture, la cuffia del silenzio) aveano impaurito il popolo fino al punto di togliergli il senso politico e il senso morale. Quando voi parlavate del 1848 a un borghese, egli vi rispondeva di non ricordarsene più. E Ferdinando II in tutti i giornali letterari, i soli che allora fosser tollerati, era il monarca augusto, clemente, pio, adorabile. Ho conosciuto uomini che scrivevan ciò senza arrossire: li conosco ancora: essi non hanno cambiato stile o epiteti: soltanto scrivono Vittorio Emanuele dove scrivevano Ferdinando II.

Ma non ho parlato fin qui che di politica. Coloro, che non se ne occupavano, erano almeno scevri da simili terrori? Niente affatto. Gli stranieri stessi, particolarmente protetti da' loro ministri, impallidivano come gl'indigeni in faccia a un gendarme, o ad un aguzzino. Quando li interrogavate sullo stato del paese, rispondevano che non se ne interessavano, o vi replicavano con questa frase singolare, che ho udita mille volte: qui non v'è da temere, basta non occuparsi del Governo. E ho veduto negozianti e industriali esteri, onorevolissimi, comprare i ritratti del re e della regina, i loro busti in gesso, le loro statuette in bronzo e in terra cotta, e distribuirli ovunque nelle loro officine per non esser sospetti di liberalismo. Altri trafficanti, a ciò autorizzati, smerciavano in tutto il regno, vendendole a caro prezzo, queste immagini di devozione. – Ecco un'altra varietà di camorra, che merita di esser notata! Coloro che si rifiutavano di comprare erano segnalati per demagoghi, e il mercante avea la cortesia di avvertirvene.

Mi ricordo che una sera in tempo pacifico, in un viale oscuro della Villa Reale, un viaggiatore ancora nuovo a Napoli fu arrestato da un granatiere del re. Questo militare apparteneva al posto vicino, destinato a mantenere l'ordine nel giardino pubblico. Il viaggiatore camminava tranquillamente per aspirare la brezza marina, che gli giungeva a soffi a traverso le querci. Il granatiere lo aggredì colla sciabola snudata, e lo derubò del suo danaro.

«Credete a me;» diceva l'indomani un forestiere domiciliato a Napoli al nuovo arrivato, che sputava fuoco e fiamme: «credete a me, caro signore, non vi lamentate troppo: lasciate che l'affare vada dimenticato. Non otterreste giustizia, e rischiereste di mettervi in un brutto imbroglio

Moltiplicherei volentieri simili esempi, che entrerebbero nel piano del mio lavoro, se non rischiassero di estenderne di troppo i limiti. Mi preme di istallare il lettore in questo paese, acclimatarlo con questi costumi, onde mostrargli quali sieno i veri nemici che l'Italia deve combattere, e quale compito tremendo, quale missione sacra essa debba comporvi. Queste particolarità mi dispenseranno più tardi dall'erigermi in saggio Mentore e dal dare lezioni al Governo del regno nuovo. Io gli mostro dove è il male: è lo stesso che dirgli dove egli debba colpire.

Il male è la paura. Noi la vediamo ogni giorno nelle Provincie, seguendo la storia monotona del brigantaggio, che infierisce sempre con le stesse bande capitanate dal medesimo capo, a malgrado dello zelo e del valore delle truppe italiane. Quali sono i luoghi continuamente maltrattati e minacciati dai malfattori? Quelli forse, ove il re decaduto conta maggior numero di partigiani? Niente affatto: il re decaduto non conta partigiani che in Roma, e sono quasi tutti Spagnuoli. I luoghi più devastati sono quelli ove si trovano in maggior numero i furfanti per spogliare i loro vicini, e in maggior numero i poltroni per lasciarli fare. Ecco il perchè le Calabrie in questi ultimi tempi sì poco ebbero a soffrire dal brigantaggio. I Calabri sono uomini coraggiosi.

Questo terrore abilmente accresciuto non era tanto un'arme politica nelle mani di colui che regnava per grazia di Dio, quanto anche il solo freno possibile agli eccessi delle due calamità che si volean conservare, l'ignoranza e la miseria. Ricusando al popolo i mezzi d'incivilirsi, cioè l'istruzione e l'agiatezza, era pur mestieri sostituire qualche cosa a questi elementi conservatori, che ne' paesi liberi impediscono alla società di perire. Soffocando la coscienza popolare, era pur mestieri sostituirle, una barriera qualunque per infrenar le passioni sbrigliate e contenerle almeno nelle apparenze della disciplina. Or questa barriera fu il terrore; e in ciò il clero assecondò divinamente la politica del re di Napoli. Ho assistito molte volte a prediche all'aria aperta, spettacoli religiosi che si offrivano ogni domenica al popolo; ho spesso ascoltato i sermoni incredibili di questi istrioni in abito nero, che saliti sopra degli sgabelli, mostrando alle loro spalle grandi immagini, agitando catene, brandendo crocifissi, dimenandosi in ogni senso con una specie di furore febbrile, divertivano o irritavano una frotta di uditori cenciosi con imprecazioni miste a ignobili pagliacciate: duplice sacrilegio, che offendea insieme e la mitezza e la gravità della religione. Or bene! in tutte queste orazioni, su tutte quelle immagini, in tutte quelle scene devote, e anche ne' discorsi più serii recitati nelle chiese a fedeli un po' meglio vestiti, ho trovato una cosa soltanto: l'inferno. L'inferno era il dogma principale del popolo napolitano. Io non giurerei che tutti i lazzaroni de' tempi scorsi credessero a Dio, ma senza fallo credevano tutti quanti al diavolo. Col terrore delle pene eterne essi erano mantenuti in una mezza probità, e quel terrore era il fondo di ogni morale, la bilancia di ogni virtù. Non si diceva ad essi per impedir loro di commettere una cattiva azione, che quella era un'azione cattiva, ma si diceva che era peccato mortale. Non osando invocare per la causa del bene quei motivi personali che l'eresia chiama coscienza, e la filosofia ragione (nuovità fatali che avrebbero potuto emancipare il popolo, infondendogli il sentimento della umana dignità), si gridava dall'alto de' pergami: Se tu fai questo, cuocerai in caldaia bollente ove, se vorrai uscirne, sarai respinto da forche di ferro infuocate, di cui saranno armati molti piccoli demoni. Da qui tutta la fantasmagoria sinistra, della quale si servivano i preti per spaventare le anime; da qui que' quadri schifosi dove si vedeano le contorsioni de' condannati al fuoco eterno; da qui le campanelle lugubri, da lungi annunzianti il viatico ai moribondi, già morti per la paura; da qui le barbare macerazioni inflitte e accettate dai penitenti per evitare il fuoco eterno dopo la morte; da qui quel Dio spavaldo fatto all'immagine del Governo di Napoli, Dio di odio e di collera che si sostituiva al nostro, Dio crocifissore che prendeva il luogo del Dio crocifìsso!

Inutile dire che pongo da banda i grandi caratteri e le grandi intelligenze formatesi nell'isolamento e nell'ombra in questo tempo di decadimento e di dissoluzione, e che non comprendo i soldati ostinati, le vittime invincibili, gli eroi e i martiri nell'universale degradamene dell'ultimo regno. Parlo delle masse, e affermo che in esse il legame sociale, politico, religioso era spezzato dal terrore. Le forze vive del paese, alla pari delle intelligenze, si perdevano o si consumavano, perchè disperse troppo e isolate. Non era possibile coesione alcuna: l'autorità proibiva perfino le riunioni per giuocare agli scacchi. Forse ne' pedoni mossi contro i re scorgeva non so quale allegoria perigliosa. Dal che emergeva che in tutte le classi popolari qualsiasi associazione non potea formarsi contro la preponderanza de' tristi. Gli individui erano dispersi, e questo popolo di solitari non opponeva alcuna resistenza collettizia alle oppressioni delle minoranze influenti e violente, che sole organate dominavano e trionfavano impunemente. Tale fu, se non la origine, la causa reale della camorra di mille specie, che sotto diversi nomi gravava potentemente su tutte le caste. Alla Corte era la camarilla di cui narrai le imprese: nel popolo la setta di cui già mostrai la possanza. Gli uomini d'energia nella feccia de' Napolitani eransi associati contro la moltitudine inerte, degenerata, esterrefatta. Fu un governo indipendente, qualche volta officioso che imitava le consuetudini del governo officiale, e alla pari di lui regnava per il diritto del più forte. Da ciò tutto quello che ho fin qui narrato: questa magistratura, questa amministrazione, questa polizia, quest'armata, questo Stato completo, stabilito nelle prigioni, nelle vie, che sfidava ogni potenza, perchè in riassumeva tutta quanta l'energia popolare a servizio del male. Così la camorra fu conservata per colpa di coloro che, non osando o non potendo associarsi per distruggerla, la subirono.

Ma fu conservata eziandio per colpa del governo che la tollerò. Ella ebbe nella debolezza del potere un ausiliare così potente quanto la debolezza del popolo.

La debolezza del potere: questa è un'opinione che per molti lettori sembrerà strana e nuova. Molto si è scritto contro il monarcato e contro la dinastia di Ferdinando, ma niuno potè accusarlo di esser debole. Tuttavolta, ove si voglia leggere la storia senza preconcetti e meditarla senza passioni, è forza concordar meco che non v'ebbe mai governo forte nel regno delle due Sicilie!

Non amo risalire al medio evo e ricordare tutte le dinastie cadute dopo la conquista di Roberto Guiscardo: principi Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Austriaci, Borbonici, Napoleonici, sempre stranieri, sostenuti da forze straniere. Lascio da parte il monarcato così travagliato del primo Ferdinando, cui la rivoluzione e l'Impero tolsero il trono, e il monarcato di Francesco I che durò solo cinque anni, il tempo, cioè che occorreva per render completa la ruina di questo paese. Io comincio il mio esame dal 1830, e noto soltanto che fino a quest'epoca non era corso nelle Due Sicilie un mezzo secolo di possesso tranquillo, di dominio regolare, di politica omogenea, di governo popolare e nazionale.

Ferdinando II ascese il trono a venti anni, e regnò per trenta. Come li impiegò? Nel difendersi. Avea spirito e criterio: conosceva il paese e gli uomini: dopo un quarto d'ora di colloquio, avea già indovinato il nuovo ministro che eragli condotto. Dotato di memoria prodigiosa, sapeva a mente la biografia completa di quanti nel suo regno poteano servirlo o avversarlo: bastavagli di vedere una fisonomia, di udir un nome per una sola volta per non obliarli mai. Pieghevole, astuto, rotto agli affari, amabile, piacevole e famigliare; avea le apparenze di un buon uomo; avea anche delle virtù, quelle virtù di famiglia che valgono sempre ai principi le simpatie degli onesti. Tuttavia non fece che del male, perchè egli fu simile ai suoi sudditi; ebbe paura per tutta quanta la sua vita.

Senza questo inesplicabile terrore avrebbe potuto sostenere un bel compito nella storia, e forse prevenire Vittorio Emanuele. Salito ch'ei fu sul trono, venne da ogni lato spinto nella via diritta. Luigi Filippo lo consigliò ad emancipare il suo popolo: un giovane liberale mostrò ai suoi occhi l'Italia dell'avvenire riunita tutta quanta sotto il suo scettro. L'idea lo colpì; e fu notato che per alcuni giorni rimase meditabondo e preoccupato: si credè che egli avesse compreso il programma e che avrebbe osato.... Comprese, ma non osò. Il giovane credente non ottenne una parola di risposta. Luigi Filippo ricevè una lettera fredda, breve, netta, in cui il giovane monarca dicevagli: Sarò re solo, e sempre!

Da quel tempo, lo ripeto, non pensò che a difendersi, ed ebbe paura per tutta la sua vita. Ebbe paura del popolo, e non volle istruirlo e rialzarlo: ebbe paura della scienza, e la proibì ne' suoi Stati: ebbe paura della stampa, e la tenne in freno tanto quanto non lo fu mai in qualsiasi governo: ebbe paura del progresso, e lo arrestò alle frontiere e lo pose in quarantina sotto qualunque forma si offrisse all'ispezione de' gendarmi o de' doganieri (mi rammento io questo proposito che fu mestieri ricorrere alle protezioni di un principe reale, per permettere la introduzione de' primi istrumenti di fotografìa, i quali erano considerati come macchine infernali); ebbe paura delle strade, dei fari, degli ospizi, delle scuole, di tutte le innovazioni, di tutte le riforme, e visse trent'anni sul trono studiando sempre i mezzi di mantenervisi.

Ecco il segreto di questo abbominevole regno. Ferdinando creò una marina ed un esercito, terribili contro i borghesi disarmati; fortificò Gaeta, passò continuamente le truppe in rivista, atteggiandosi con un certo grado di abilità a soldato; per maggior cautela si circondò di Svizzeri, che erano fedele guardia alla sua porta: dopo di che, non sembrandogli di essere abbastanza sicuro, ad onta della sua eccellente artiglieria, organò una polizia formidabile contro tutti coloro che gli facevan paura. erano i ladri o i briganti, che non aveano opinioni politiche; usava riguardi ai primi, concedeva pensioni ai secondi (a Talarico per esempio), li relegava in un'amena isoletta, o li lasciava in libertà. Ma i liberali erano inseguiti e perseguitati con infaticabile ardore. Tale fu l'opera moralizzatrice impresa e compiuta da re Ferdinando. Non trattavasi di sradicare gli abusi, ma piuttosto di preservare quelli che potevano tornar utili alla conservazione del trono. Non si pensava in guisa alcuna a trarre la plebe dal suo avvilimento; anzi si desiderava di mantenervela fino alla fine dei secoli, ben sapendo che la monarchia assoluta non è possibile, nei tempi in cui viviamo, se non in un popolo snervato e degradato. La camorra non potea quindi esser trattata da Ferdinando come nemica. Prima del 1848 essa non si era occupata del governo: non lo avea combattuto, e neppure molestato. A che muoverle contro? Fu lasciata tranquilla, tanto più volentieri perchè non si amava averla nemica. I camorristi, lo notai, erano plebei energici. Quindi meritavano riguardi dal governo sempre dominato dalla paura.

D'altra parte essi rendevano servigi alla polizia: si vuole anche che ne facessero parte. Ho nelle mie mani appunti molto curiosi, scritti da un camorrista pentito, il quale forniva ragguagli singolari intorno alle relazioni della setta coll'antica prefettura di Napoli. Secondo questi appunti divisi in articoli, e colla forma di un codice segreto della camorra, la setta era posta, a' tempi dei Borboni, sotto la sorveglianza della polizia. All'indomani della sua elezione, il nuovo affiliato presentavasi al commissario del suo quartiere, e chiedevagli un'udienza particolare: «Voi vedete» gli diceva «un nuovo operaio che ha ricevuto la proprietà.» E dopo ciò gli dava dieci piastre. Il commissario trasmetteva la notizia al prefetto di polizia, il quale in capo ad un mese riceveva una mancia di cento ducati.

basta. Il prefetto non limitavasi a prender la sua parte di barattolo, ma presiedeva anche all'organamento della società segreta e nominava egli stesso i capi dei dodici quartieri, ciascuno de' quali avea una provvisione di cento ducati (425 lire italiane) al mese, pagata sui fondi segreti della polizia. In ricambio i funzionari governativi incaricati di vegliare alla pubblica sicurezza non sdegnavano di riempire le loro tasche con il denaro estorto ai poveri da questi malandrini a ciò autorizzati. Quando si divideva il Carusiello, un terzo dei benefìzi era religiosamente portato al commissario, che a sua volta lo divideva coll'ispettor di servizio e col caposquadra. E ciò avveniva nei dodici quartieri e durante tutto il felicissimo regno di Ferdinando II.

Questo affermano gli appunti del camorrista. Malagevole mi riesce dire qual valore essi abbiano. A loro vantaggio posso aggiungere che sono frastagliati da altre notizie, delle quali ho esperimentato l'esattezza. Ma debbo però notare che ho consultato i meglio informati sia nella questura, sia negli antichi uffici del ministero dell'interno, e ne ebbi in replica che ignoravano queste relazioni della setta colla polizia. Un impiegato mi ha detto: «Se fosse vero ciò, noi lo sapremmo.» Un altro più modestamente ha soggiunto: «Noi nulla ne sappiamo, ma può essere

Comunque siasi, la camorra fu rispettata, usata spesso sotto i Borboni fino al 1848. Essa formava una specie di polizia scismatica, meglio istruita sui delitti comuni della polizia ortodossa, che occupavasi soltanto dei delitti politici. Quando un furto importante avveniva in un quartiere, il commissario chiamava a il capo dei camorristi e lo incaricava di trovare il ladro. Il ladro era sempre trovato, salvo il caso che fosse il capo dei camorristi.... o il commissario.

Inoltre la camorra, come ho già notato, era incaricata della polizia delle prigioni, dei mercati, delle bische, dei lupanari e di tutti i luoghi mal famati della città. Estorceva denaro ai viziosi, ma impediva lo scandalo. Talvolta assassinava per conto proprio, ma pure interveniva nelle risse e faceva riporre nella guaina i coltelli. Oggi ancora, dopo tutte le persecuzioni che hanno subite, questi bizzarri malandrini servono, non dico la questura che loro fa guerra, ma i particolari che li richiedono di soccorso. Conosco un vignaiuolo dei dintorni di Napoli, che un bel mattino svegliandosi seppe di essere stato derubato; nel corso della notte eragli stato tolto tutto il danaro. Fece subito la sua denunzia non al delegato del quartiere, al brigadiere della vicina caserma (perchè ormai è costume preso sotto i Borboni di non tener in conto la polizia legale); sì egli corse in una taverna qualunque, e riconoscendo il camorrista del luogo al suo portamento fiero e agli anelli ond'erano piene le sue dita, gli fece la sua querela, e gli promise una generosa mancia ove il danaro fosse stato ritrovato. E lo fu.

Facile è ora intendere la tolleranza dell'antico regime di fronte ad una società tanto utile. Però mi si afferma che, quando un camorrista commetteva qualche atto troppo violento, era deportato o piuttosto relegato nell'isola di Tremiti, in mezzo all'Adriatico. Il Governo vi avea fondata una colonia penitenziaria, ottima idea, ma pessimamente attuata e con tal negligenza o mal volere che questo istituto non potè moralizzare o correggere alcuno: anzi eccitò i cattivi istinti lasciati in loro balìa e aumentò la degradazione e l'abbrutimento dei giovani delinquenti. I fuorviati, colà mandati, vi si perderono. Si pensò anche a ricondurli al bene coll'influenza della famiglia, e a tale effetto, relegando fra essi delle meretrici, si costrinsero a matrimoni che non ho bisogno di qualificare: ne resultò la più abominevole anarchia morale. Tale fu la celebre colonia di Tremiti.

Vuolsi ora conoscere ciò che divenissero i deportati o i relegati (per chiamarli col loro nome) quando, dopo le meretrici, per compirne la educazione, vi furono inviati i camorristi?

Ogni relegato riceveva dieci soldi al giorno. Il camorrista ne prendeva anzi tutto uno, il decimo, per suo conto: due soldi per la cassa comune, religiosamente conservata. Restavano sette soldi che il relegato spendeva a suo piacere. Il povero disgraziato inviato alle isole (perchè la colonia di Tremiti non era il solo luogo di deportazione, essendo tutti gli scogli sparsi in mezzo al mare abitati da condannati più o meno colpevoli), il povero disgraziato, io diceva, senza lavoro, senza cure, senza sorveglianza, non avea che una distrazione possibile, il giuoco. Giuocava i sette soldi che gli restavano, ma sotto la vigilanza del compagno, il quale trovavasi sempre presente, e sorvegliava tutte le ricreazioni, e prendeva un decimo sulle scommesse, per ricompensa alle proprie fatiche. Le partite si moltiplicavano, perchè le giornate erano lunghe e i giuocatori intemperanti: la fortuna variava: coloro che in principio avean vinto perdevano in seguito, ma l'esattore immobile, nulla rischiando, vinceva sempre. Alla fine della giornata, decimo per decimo, i sette soldi de' relegati erano passati nelle tasche del camorrista.

E per sovrappiù dovevano esser grati al tiranno che salvava parte della loro provvisione: i due soldi cioè, che custodiva nella cassa comune. Senza questa cautela gli sventurati sarebber morti di fame, dacchè non avevano altre risorse. Con que' due soldi doveano vestirsi e nutrirsi: il rimanente apparteneva alla camorra. La setta si arricchiva soprattutto co' poveri, perchè li teneva nelle sue mani, prima co' vizi, poi co' loro bisogni. Facimmo caccià l'oro dai piducchi, mi diceva cinicamente un camorrista.

Più, lo ripeto, la setta non fu perseguitata prima del 1848, perchè non si occupava di politica. Ho citato nel primo capitolo un ritornello di una canzone dei camorristi, che lo prova evidentemente. Un vecchio cospiratore membro di tutte le società segrete mi ha confermato questo fatto, che aveagli recato meraviglia. Mai, egli mi ha detto, ho incontrato fra i carbonari un camorrista. In ricambio, molti ne ho trovati fra i frammassoni.

E questo dico in linea di semplice notizia, senza alcuna malevolenza rispetto ai frammassoni, de' quali ebbi sempre egregia opinione.


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