Marco Monnier
La camorra: notizie storiche raccolte e documentate
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VII. LA CAMORRA POLITICA.

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VII.
LA CAMORRA POLITICA.

1848 – I popolani liberali1859 e 1860 – Come i camorristi cospirassero – La politica delle piastreFrancesco II e la costituzione – La polizia di Don Liborio – I servigi della setta – Il disinteresse del Persianaro Napoli garibaldinaGrandezza e decadimento de' camorristi – Il contrabbando di terra e di mareÈ roba d'o si Peppe – Il commendatore Silvio SpaventaPersecuzione della camorraDimostrazioni, fischi, denunzie, estorsioni ec. – Il bel garzone – Le quattro evoluzioni della setta.

Giunse finalmente l'esercito della demagogia come dicevasi alla corte di Gaeta, e come dicesi tuttora in quella di Roma. In realtà non conosco moto meno demagogico di quello del 1848 a Napoli. Preparata da lunga pezza con de' libri, affrettata dalla splendida esaltazione di Pio IX, quella rivoluzione, se pur fu tale, avvenne senza trarre una spada, mediante una semplice dimostrazione di galantuomini. La plebe parteggiava per la monarchia assoluta. Nella insurrezione del 15 maggio, le barricate furono difese da eroici giovanotti, tutti di buone famiglie. Prese che furono, la canaglia, è vero, saccheggiò la città, gridando Viva il re!

In seguito si andò formando una plebe liberale, e il quartiere di Montecalvario, uno fra i più popolari, parve acquistato al partito rivoluzionario. Una dimostrazione sanfedista essendo stata organata dagli abitanti della spiaggia di Santa Lucia, una contro dimostrazione costituzionale scese dagli alti quartieri per rispondere a quella sciagurata provocazione. Le due bande si cozzarono nella via di Toledo: si scambiarono molte grida, alcuni colpi, ma la polizia intervenne, e cacciando gli aggressori, imprigionò gli altri. Da quel giorno vi furono alcuni popolani liberali.

D'allora, e durante i dieci anni della tremenda reazione che la storia non ha per anco abbastanza stigmatizzata, il piccolo numero di uomini politici, che non erano stati condannati all'esiglio o alle galere, o non erano stati assunti al potere (mezzo migliore per perderli) e che erano rimasti in Napoli, ebbero il coraggio e la pazienza di cospirare ancora e senza posa; per dodici anni, vinti sempre, ma sempre pronti a battagliare, questi infaticabili combattenti cercarono di crearsi un sostegno nel popolo. Opera difficile, non perchè fosse mestieri combattere idee avverse, ma perchè le idee nel popolo mancavano: Indifferente, intimidito, egli non si occupava di politica; avea la libertà che gli bastava (oggi negatagli dalle nuove istituzioni), la libertà della piazza. Poteva mendicare, trafficare, far la sua siesta, i suoi affari, vestirsi, amoreggiare in mezzo alle vie, mangiare, digerire, dormirvi: egli non chiedeva altra cosa: poco gli importava di essere cittadino o suddito.

Contro tale apatia che fare? O presto o tardi si spezzano le opposizioni formidabili, ma il vuoto non offre presa. Si supera una difficoltà, si passa una montagna, ma si rimane impantanati in un padule. La rivoluzione, che avea fallito nel 1849, rimase nelle secche dell'inerzia del popolo.

In questa forza stagnante non eravi che un gruppo vivente, i camorristi. Essi soli conservavano tuttora un po' di quella energia, che aveva sollevato le moltitudini, prima e dopo Masaniello: inoltre erano i capi riconosciuti dalla plebe. La loro autorità si stendeva, lo dissi altra volta, sopra i dodici quartieri della città, e sebbene non si esercitasse specialmente che sopra la popolazione ondeggiante de' luoghi infamati, delle prigioni e de' bagni, non era per questo meno subìta, ossia riconosciuta dalla generalità della plebe. Ricordo che la setta si sostituiva non solo alla polizìa, ma alla magistratura, e che allorquando due lazzaroni avevano degli odii l'un contro l'altro, ricorrevano al camorrista, meno caro e spesso più giusto del giudice di pace. Ora essendo imbastardita l'aristocrazia, impaurita la borghesia, disperso il partito liberale, esiliati, confinati nelle provincie o detenuti nelle galere i patriotti, nelle mani del re l'esercito, a' piedi di lui il clero, alla porta del suo palazzo gli Svizzeri, ostile ai Borboni la Francia, ma paralizzata dall'Inghilterra paurosa delle memorie di Murat, e quindi favorita da tutte queste circostanze la dinastia Borbonica, inflessibile nell'immobilità della sua tirannia, i cospiratori disperati dissero a medesimi non esservi che un solo mezzo da sfruttare, e tesero le mani ai camorristi.

Fra questi: audaci furfanti che si assumevano qualità di capi del popolo e un gentiluomo napolitano, che non ho bisogno di nominare, ebbe luogo un colloquio. Eransi dati appuntamento in un quartiere lontano, dietro l'Albergo de' Poveri. Vi si condussero con precauzione, col cappello che cuopriva la lor faccia, giungendo l'uno dopo l'altro, e avvicinandosi ai primi arrivati con un certo segno che facean con le labbra e che somigliava al rumore di un bacio, ed era il segnale di riconoscimento. Riuniti che furono, cominciarono a demolire il governo.

Ma i camorristi aveano la coscienza della loro forza: cominciarono dunque per lamentarsi e per porre le loro condizioni. Rimproverarono al gentiluomo (cosa incredibile!) la rivoluzione del 1848. Gli dissero ciò che ho già notato, che questo moto non era scoppiato nel popolo e per il popolo: che i borghesi letterati e ben vestiti non aveano pensato che a loro stessi, lasciando da parte la povera gente: che, se un nuovo cambiamento dovea avvenire, la santa canaglia non intendea abbandonarne i vantaggi a coloro che aveano già delle piastre; che infine era mestieri di danaro, di molto danaro, per suscitare una rivolta, e che, per cominciare, ogni capo popolo, vale a dire ogni capo camorrista, esigeva una gratificazione di dieci mila ducati.

Questa pretesa diè a comprendere al gentiluomo, che la causa eterna dell'incivilimento e dell'umanità non era precisamente il punto capitale die' camorristi. Lamentò di essersi lasciato condurre ad una conferenza con uomini troppo pratici, i quali non vedevano la questione che da un solo lato, e tanto più ebbe da lamentarsene, perchè da quel momento cadde nelle mani di quei tristi, che gli imposero forti riscatti.

Ognuno di essi ricevè provvisioni fisse, regolate a seconda del numero degli uomini che rappresentava, imperocchè in questa cospirazione, che non scoppiò mai, ogni iniziato rappresentava un certo numero di uomini. Eranvi de' decurioni, de' centurioni, che si riconoscevano a un segnale in carta pecora che portavano sopra di essi; questo segnale in cui leggevasi la parola Ordine (era la parola del comitato segreto) non era per gli uomini della camorra che una lettera di cambio permanente. La setta si diceva liberale e preparava ogni giorno una dimostrazione ostile al governo, ma si limitava a prepararla. Non mirava che alle piastre. Eranvi tuttavia alcune persone di buona fede fra i compagni, in specie una donna, la si Giovannara, che, senza essere affiliata alla società, ne conosceva tutti i membri e li riuniva in casa sua in conciliaboli assai pericolosi. Essa avea dichiarata la guerra alla polizia, accoglieva i plebei sospetti, nascondeva i disertori, faceva del rumore e del bene per la buona causa. D'altra parte, checchè possa dirsi, questa agitazione popolare era utile, perchè spaventava il governo. Si era così tratta dalla guaina una spada da parata che non faceva molto male, ma che il re Francesco II considerava con terrore, credendola sospesa sulla sua testa. Gli eruditi che lo circondavano gliela rappresentavano come una spada di Damocle. Questo trono tarlato non era più sostenuto che dal fantasma di Ferdinando, e si sfasciò da stesso quando un'ombra di rivoluzione venne a sostituirsi a quest'ombra di tirannia.

In questo periodo di dissolvimento, dalla fine del 1859 al principio del 1860, avvennero casi incredibili. Da un lato i camorristi, come ho osservato, riscattavano i cospiratori; e quando il gentiluomo, di cui ho tenuto proposito, arrestato senza mandato, detenuto senza spiegazioni, condannato senza processo, fu esiliato da Napoli, si presentarono sfrontatamente agli altri iniziati, a loro ben cogniti, e richiesero loro la camorra politica. Io ho parlato non ha guari con una delle loro vittime; era un povero diavolo, che dovè indebitarsi fino agli occhi per trovare de' ducati: ogni decurione ne esigeva quattro per giorno.

D'altra parte il signor Aiossa, che dirigeva la polizia, invece di usar riguardi e di comprare questa banda di furfanti che rovinava i cospiratori, senza far alcun che per la cospirazione, ne aveva una paura tremenda. Un bel giorno prese in massa i camorristi e li relegò nell'isole: immensa sventura! Da quel momento codesta canaglia si atteggiò a vittima! Ve ne furono che si nascosero (tre fra gli altri che mi furono mostrati, il Chiazziere, il Piazziere, gridatore di piazza, e lo Schiavetto) – Questi furono accolti, ricoverati, carezzati perfino da uomini onesti, e, cosa strana, nel loro ritiro ignoto alla polizia, ma notissimo ai compagni, continuarono a ricevere la parte di barattolo, che loro spettava sulle operazioni della setta. Tutti i camorristi conoscevano il loro segreto: neppur uno andò a denunziarli.

Ve ne furono dunque alcuni che si nascosero, ma ve ne furono altri inviati alle galere, e, lo ripeto, fu un'immensa sventura. Si atteggiarono a martiri, e poterono fieramente gridare lasciando le galere: «Abbiamo veduto Settembrini, Spaventa, Poerio che sono nostri fratelli; noi abbiamo diviso le lor pene, abbiamo diritto di dividere con essi la gloria e i benefìzi

Per tal guisa la camorra divenne politica. Vediamo ora come essa salisse al potere.

Francesco II era da un anno salito al trono. Maltrattato del pari dai nemici che lo hanno dipinto come un mostro, e dagli amici che vorrebbero farne un eroe, era nulla più che un buon figliuolo. Spingeva il rispetto filiale fino alla venerazione, e considerava Ferdinando come il solo uomo di genio e di autorità che egli conoscesse, come il più grande monarca dei tempi moderni. Da qui avvenne, che giunto al potere dichiarò in buona fede, in un proclama celebre ancora, che egli non sperava raggiungere la sublimità del suo augusto padre. Queste parole sinistre, scoppiando come una bomba nel paese, fecero perire non solo la paziente illusione di tutti quanti aveano atteso qualche cosa dal nuovo re, ma ancora la dinastia, la monarchia e l'autonomia delle due Sicilie.

Non è già che il reale principe mancasse di certe nozioni e di certe attitudini. Ingegno meno pieghevole, meno acuto di quello di suo padre, suppliva alle facoltà che gli mancavano con molto zelo e con molta applicazione. Privo di memoria, passava giornate intiere a prender appunti. Si occupava di molte cose, entrava volentieri ne' particolari, conosceva benissimo i Codici, e in fatto di diritto pubblico e di giure internazionale avrebbe potuto tener fronte al primo giureconsulto dei suoi Stati. Sventuratamente egli si sentiva sconcertato, e spostato in politica, dove arrecava singolari scrupoli religiosi. Non era partigiano del diritto divino per avarizia o per temperamento, ma lo venerava sinceramente come un dogma. Non voleva conceder la costituzione sol perchè suo padre aveagli detto esser questa un peccato mortale.

Posso garantire tali notizie, che mi vengono da un uomo che faceva parte del Consiglio di Francesco II, e che non si è convertito al nuovo regime. Gli chiesi se credeva che le idee del principe avrebbero potuto subire modificazione nell'esilio, e dopo due anni di prove crudeli. Mi rispose essergli stato affermato che tal cambiamento era avvenuto, ma aggiunse che egli non lo credeva.

Tuttavia Francesco II avanti di cadere dal trono avea ceduto, ma dopo le vittorie di Garibaldi. Questi fatti sono recenti e tutti ne conservan memoria. Una costituzione che, strappata per forza dal barone Brénier ministro di Francia, affrettò la caduta del re, ma almeno lo fece cadere con grazia, fu proclamata il 25 giugno 1860, cioè un anno troppo tardi, e venne respinta dalla più strana e più tremenda cospirazione, quella del silenzio. Le prigioni si aprirono, e ne uscirono frotte di camorristi. Il loro primo atto, dopo la liberazione, fu di assalire il commissariato di polizia e di abbruciare tutte le carte; dopo di che presero gli sbirri a colpi di bastone. Lasciati a stessi, avrebber messo Napoli a ferro e fuoco.

Il signor Liborio Romano era stato in que' giorni nominato prefetto di Polizia. Noi eravamo allora in condizioni singolari, fra un re che dava suo malgrado una costituzione, ed un popolo che non la voleva; un esercito pronto a far fuoco sul popolo e uno sciame di turbolenti che molestavano e provocavano codesta truppa. L'antica polizia era scomparsa; la Guardia Nazionale non esisteva ancora, la città era in balia di medesima, e la canaglia sanfedista, in aspettativa di un nuovo 15 maggio, si preparava al saccheggio; aveva già preso in affitto delle botteghe (garantisco questo fatto) per deporvi il bottino.

Trattavasi di salvar Napoli, e Don Liborio Romano non sapeva più a qual santo raccomandarsi. Un generale borbonico lo consigliò ad imitare l'antico governo e (riproduco testualmente la frase) «a far ciò che esso faceva in caso di pericoloDon Liborio chiese alcune spiegazioni, e seguì il consiglio del generale. Si gettò in braccio ai camorristi.

Di ciò è stato accusato con molta severità. Ma che fare? Trattavasi innanzi tutto di impedire il saccheggio e nel tempo istesso di riabilitare forse e di ricondurre al bene uomini fuorviati. Don Liborio non avea ancor letto Les Misérables, ma appartenendo da lungo tempo a quelle confraternite umanitarie che vogliono realizzare la città di Dio, credeva senza fallo (egli stesso me lo disse soventi volte) che non siavi essere tanto degradato, da non poter più divenire uomo onesto. Volgere a vantaggio del paese l'energia fuorviata dei settari, cambiare la loro criminosa associazione in una società vigorosa intesa a protegger la società, era un bel sogno. Don Liborio forse non lo concepì, che dopo aver preso il suo partito e quasi per giustificarlo? Lo ignoro: so unicamente che la crisi era grave, il pericolo urgente; la città indifesa, e che era mestieri impedire il saccheggio; e il saccheggio non ebbe luogo.

Io lo confesso ben volentieri, fu questo un servigio eminente reso dai camorristi. Felice di questo primo successo, Don Liborio tentò di organarli e disciplinarli. Immaginò una guardia cittadina composta di questi malfattori, che sperava così arruolare nella società onesta. I picciotti di sgarro tenevano il luogo dei birri violentemente cacciati: ogni camorrista in capo divenne capo-squadra. Fu una rivoluzione subitanea nel servizio della pubblica sicurezza. E, debbo dirlo, tal rivoluzione riuscì pienamente nei primi mesi.

La camorra non si servì soltanto della sua influenza per prevenire le rivolte, ma impedì fino i più piccoli delitti: non vi fu mai un sì piccol numero di furti quanto nei primi giorni della sua sorveglianza imperiosa e diligente. La guardia cittadina non avea ancora uniformi, discipline, regolamenti stabiliti: si componeva di popolani vestiti da semplici operai, armati di grossi bastoni, non aventi altro segnale di riconoscimento fuor di una coccarda tricolore ai loro gaschetti. Pure essa si fece rispettare e temere più assai dei feroci, a malgrado del vestiario, delle fisonomie, della daga, del fucile, del volto severo e truculento di questi antichi sbirri. Essa si condusse coraggiosamente, e ciò che sembrerà più strano onestamente.

Potrei dimostrarlo con venti aneddoti dei quali fui testimone e che rimasero impressi nella mia memoria. Non ne citerò che un solo, non il più singolare, ma quello che richiede meno osservazioni e schiarimenti.

Durante il periodo violento della rivoluzione, cioè nel tempo che precede l'arrivo di Garibaldi, il popolo era sopratutto inferocito contro l'antica polizia e vendicavasi delle sofferenze subite sotto l'oppressione venale e brutale di questa formidabile legione di tirannelli. Non cerco di giustificare gli eccessi commessi, rammento soltanto che furono rappresaglie crudeli.

Un giorno, un antico commissario, mal celato sotto il mantrice di una carrozza, fu riconosciuto da alcuni del popolo, i quali fermarono tosto il cavallo, aggredirono il fiacre, e cominciarono a gettar grida, minacciose. Sopravvenne per buona ventura un uomo influente della polizia che, allontanata la folla, montò nella carrozza accanto al commissario mezzo morto dalla paura e lo condusse alla prefettura dove il mal capitato, che credevasi ancora ai tempi antichi e preparavasi a subire la più terribile inquisizione, seppe con sua grande sorpresa che era libero. Ma egli non volle andarsene, temendo la vendetta popolare assai più di una lunga detenzione. Chiese di esser inviato dove si volesse, perfino alle galere, pur di non tornare nella strada. Con molta difficoltà fu rassicurato e rinviato sotto la scorta di un camorrista onnipotente per nome Luigi Cozzolino, soprannominato il Persianaro. Con tale compagno il commissario nulla avea a temere, e ritornò a casa sua sano e salvo; nell'effusione della gratitudine volle dare una piastra al Persianaro; ma il brav'uomo la rifiutò, dicendo in aria di disprezzo: «mi credete forse appartenente all'antica polizia

Questi tratti di probità si rinnuovavano giornalmente. La camorra rese, di più, negli ultimi mesi del regno di Francesco II, servigi ben segnalati alla causa italiana. Strette alla rivoluzione e condotte dalla cospirazione unitaria, che, già sicura della vittoria, non avea più bisogno di celarsi, le guardie cittadine comunicarono al popolo l'ardore onde erano prese: e risvegliarono così quel turbolento entusiasmo per Garibaldi, che manifestavasi ad ogni istante, in ogni occasione, prima che questi giungesse; in codesta epoca singolare di transizione, o meglio di dissoluzione, in cui Francesco II era re per grazia di Dio, e regnava sopra le Due Sicilie e sopra Gerusalemme, governando ancora in tutte le provincie del continente e anche nella cittadella di Messina, abitando la capitale del suo regno, risedendo nel palazzo de' sovrani, assiso sul suo trono, circondato dal suo esercito, e la città intiera, la fedelissima Napoli, apparteneva al fantastico Eroe, che avanti di passare lo Stretto già l'avea conquistata e poteva poi entrarvi solo.

È facile immaginare quali pericoli noi corressimo allora, fra questo decadimento e questa apoteosi, minacciati da un lato dalla demolizione, dall'altro dallo sfasciamento, in balìa de' vinti che, potenti ancora e provocati costantemente dai vincitori, potevano mitragliare la città. Tuttavolta, salvo pochi poliziotti colpiti negli ultimi giorni di giugno, pochi borghesi assaliti nel 15 luglio nella via e senza motivo, e persino senza pretesto, vigliaccamente sciabolati dalla Guardia Reale, non fu versata una goccia di sangue. Francesco II se ne andò, mi si permetta la frase, senza trombe e tamburi, e Garibaldi giunse senza colpi di fucile. E tutto ciò in grazia de' camorristi.

Ma, dopo aver reso questi servigi, acquistarono una potenza e un autorità quasi spaventevole. La rigenerazione morale sognata da Don Liborio non era avvenuta che a metà, o meglio era sembrato che avvenisse ne' primi momenti, ne' felici accessi di entusiasmo. Ma poco a poco il vecchio uomo riprese il di sopra in questi antichi peccatori, con troppa rapidità convertiti. Non erano precisamente degli evasi dalle carceri, come i banditi di Vidocq, o i Cosacchi irregolari di Canler, ma erano uomini vigorosi, ardimentosi, risoluti, abituali all'abuso della forza loro; e questa forza, riconosciuta ora dal potere, legittimata da incarichi officiali, era aumentata a tal punto, che potevano tutto farsi lecito impunemente. La loro improvvisa rigenerazione non potè resistere alle tentazioni del nuovo stato, ai cattivi consigli della vita antica. Addivenendo poliziotti, avean cessato di esser camorristi: tornarono camorristi senza cessare di esser poliziotti.

Una delle loro colpe più gravi fu il proteggere ed esercitare anche il contrabbando. Sotto i Borboni questo commercio fraudolento facevasi da una banda speciale, che avea forse delle intelligenze segrete colla camorra, ma che non si componeva di camorristi. I capi della banda erano ben conosciuti da' negozianti, i quali loro confidavano volentieri i propri affari, e ricevevano così le mercanzie, pagando solo la metà, il terzo o il quarto de' dazi. I doganieri erano testimoni compiacenti e talvolta complici e mezzani di siffatti raggiri. I negozianti più onorevoli non sdegnavano di ricorrervi, perchè in questi tempi di universale corruttela ogni sorta di frode non era considerata colpevole, quando essa cadeva a danno del fisco soltanto.

Ma dopo l'arrivo di Garibaldi la camorra si impadronì del contrabbando. Non si contentò più d'imporre contribuzioni a coloro che lo esercitavano e ne profittavano: lo esercitò per conto proprio e in grandi proporzioni. Vi ebbero due contrabbandi, come vi hanno due eserciti, quello di terra e quello di mare, ognuno dei quali avea un capo supremo che arricchiva a un tratto. Salvatore De Crescenzo, il grand'uomo, era il generalissimo de' marinai, avea sotto i suoi ordini, terribili compagnie di sbarco che, nel corso della notte, introducevano fraudolentemente di che vestire e pavesare tutta la città! Uomini violenti, spesso armati, proteggevano questi raggiri e spaventavano i doganieri, i quali nulla di meglio chiedevano che d'aver paura. E la dogana di Napoli, i cui proventi erano ascesi fino a 40 mila ducati il giorno, a mala pena rendeva un migliaio.

Del contrabbando di terra avea il comando supremo un camorrista non meno celebre, nominato Pasquale Merolle. Si operava liberamente a tutte le porte della città. Un picchetto di compagni si appostava coll'arme in braccio presso l'uffizio della Dogana. Allorchè giungeva un carico di vino, o di carni, o di latte, e i gabellotti uscivano dalle loro case per far la visita ed esigere i tributi, i camorristi si avanzavano numerosi gridando: «Lasciate passare, appartiene a Garibaldi» – (È roba d'o si Peppe.) – I gabellotti si allontanavano tosto e il vetturale pagava la tassa ai camorristi.

Ciò che havvi in questo di più curioso si è che i vetturali i loro padroni guadagnavano cosa alcuna a questo contrabbando. Pagavano alla camorra presso a poco gli stessi diritti, che avrebbero dovuto pagare alla dogana; la differenza era insignificante. Non era dunque l'economia che li spingeva a questi raggiri, ma la paura: temevano il potere occulto assai più del regolare. Fra i due mali si appigliavano al minore. Se pagavano il dazio alla setta, non rischiavano che di essere sorpresi dal fisco e di subire una pena leggera; ma se la pagavano al fisco, erano sicuri di esser presi da' camorristi e ricevere una buona bastonatura. Quindi pagavano il dazio alla setta.

Da ciò è facile immaginare le perdite considerevoli che ebbe a soffrire il dazio consumo della città. Fuvvi perfino un giorno (e guarentisco il fatto che ho da fonte autorevole) nel quale, tra tutte le porte di Napoli, l'amministrazione non potè percepire che 25 soldi! Questa enormità aprì gli occhi al potere, che ordinò gravi provvedimenti. Novanta camorristi furono arrestati in una sola notte nel dicembre 1860: l'indomani il dazio fruttò 800 ducati (3400 lire italiane).

Per ultimo il commendatore Silvio Spaventa, uno degli uomini più eminenti del 1848, antico repubblicano, istruito e temperato da otto anni di galera, venne al potere dopo lo stabilimento della monarchia, in un tempo di riorganamento, che per mala ventura dovea essere un tempo di reazione. Ma il merito che non può contrastargli fu che egli si pose con ardore all'opera: fece tavola rasa e affrontò arditamente la impopolarità. Ora che egli è caduto, ho diritto di rendergli questa giustizia. Quanto agli errori che gli si imputano, non è questo il luogo per discuterli. I Napolitani hanno un grave difetto, si accusano e si infamano a vicenda. A prestar loro fede, questo paese sarebbe una caverna di briganti. Uno de' loro deputati, uomo d'ingegno e di spirito, ha scritto un libro (I moribondi del Palazzo Carignano), nel quale prova con molto brio che i suoi concittadini, i suoi colleghi, i deputati di Napoli, sono uno stuolo di imbecilli o di furfanti. In nome del cielo, io scongiuro gli stranieri a non prestar fede a queste insolenze. Li supplico a non credere, dopo la lettura di quel libro che ha fatto qualche rumore, che l'autore sia un uomo astioso, bilioso, cattivo, un pessimo cittadino, che si studi di provare ai due mondi che, se l'Italia non è più la terra de' morti, è almeno la terra de' furfanti. L'autore ha calunniato il suo paese e stesso. Egli è migliore del suo libro, e i Napolitani, checchè dicano di medesimi, contano fra loro uomini di spirito e uomini dabbene.

Il commendatore Spaventa, io diceva, venne al potere e diresse per lungo tempo la polizia e l'interno. Uno dei suoi primi atti fu di porre in disparte bruscamente la camorra. Usò peraltro precauzione, attese un pretesto, un'infrazione qualunque alla disciplina stabilita. L'espettazione non fu lunga. Trovata l'occasione, fece in una sola volta arrestare un centinaio di camorristi, i più terribili, e gl'inviò alle isole. Contemporaneamente abolì la Guardia Cittadina, e le sostituì una Guardia di Pubblica Sicurezza già organata da qualche tempo.

Si è accusato lo Spaventa di aver in tale occasione perseguitato i buoni come i cattivi, e di aver colpito alcuni patriotti esaltati, anche dei garibaldini, come camorristi. Mi è impossibile entrare in tale discussione: è questione di persone. Poco importa all'Europa, se in una razzia di scellerati, per errore o per calcolo furono compresi alcuni uomini onesti. Non avrei ripetuto queste accuse, se esse non mi avessero fornito l'occasione di rammentare il modo col quale procedevasi sotto l'antico regime. Il signore Aiossa, capo della Polizia sotto Francesco II avea proclamato a suon di tromba una guerra accanita contro i camorristi. Ne prese infatti una banda intiera, e rinviò in galera: fatte le opportune verificazioni, ne resultò che non avea relegato che dei liberali.

Tuttavia, malgrado gli energici provvedimenti di Spaventa, la camorra non fu distrutta. Essa non esisteva soltanto in un gruppo di uomini, ma era radicata ne' costumi del paese. Scacciati da Napoli, i capi lasciavano dietro di la setta, che riformavasi sotto altri capi e continuava senza interruzione la sua opera fatale. Le vittime di Spaventa caddero dal potere, ma non perderono potenza: furono racchiuse nei bagni; ne uscirono poco tempo dopo; furono inviate nell'isole, e ne evasero. Per vendicarsi del ministro che le perseguitava, organarono contro di lui le dimostrazioni popolari: spinsero per le vie frotte di vagabondi e di cialtroni che fecero un chiasso infernale, gridando morte a Spaventa, e che andarono ad aggredirlo impunemente e confusamente con un tumulto spaventevole fin entro i suoi uffici nel palazzo delle Finanze, fin nella sua casa. In tal guisa persistè la camorra, sempre minacciosa. Cadendo dal potere, era entrata nella opposizione. Tutti quei bravi dei mercati di Napoli non si contentavano di rubare pochi soldi ai sempliciotti: erano addivenuti uomini politici. Nelle elezioni proibivano tale o tal'altra candidatura, confortando co' loro bastoni la coscienza e la religione degli elettori. si contentavano di inviare un deputato alla Camera, e sorvegliarne da lungi la condotta; spiavano il suo contegno, si facevano leggere i suoi discorsi, non sapendo leggerli da medesimi. Quando non erano contenti di lui, lo salutavano, al suo ritorno da Torino, con un bestiale concerto di fischi e di grida, che scoppiava la sera all'improvviso, sotto le finestre della sua casa.

Per ultimo i camorristi si dettero ad un mestiere anco più immorale. Ho lungamente dubitato di quanto sto per dire, ma fatti numerosi, eloquenti, me lo hanno provato in tal modo, che non potrei più oltre negarlo. La setta poneva una taglia sui borbonici, minacciando di denunziarli alla polizia. Quando un individuo era sospetto di tenerezza verso l'antico regime, esso riceveva la visita di un incognito, che gli diceva confidenzialmente: «Voi correte grandi pericoli; il governo vigila su di voi: si afferma che sostenete i preti e assoldate i briganti: voi andrete in galera.» Lo sventurato, pallido dalla paura, supplicava il suo misterioso visitatore di trarlo di impaccio. «Non havvi che un mezzo per salvarvi, diceva l'agente della setta: prendete un camorrista al vostro soldo, o comprate il silenzio di quegli che vorrebbe denunziarvi.» Allora il borbonico, che non avea corso alcun pericolo, pagava una forte somma, credendosi liberato dal bagno per la venalità del poliziotto, cui egli credeva aver dato il suo danaro. E dietro questo errore gridava contro il nuovo regime, che faceva precisamente quello che avea fatto il precedente.

Del resto non era la setta soltanto che commetteva questa specie di estorsioni. Molti dilettanti non temevano di usarne, e potrei in questo proposito narrare storie terribili. L'uomo notissimo, che volea estorcere alcune piastre al barone F.... minacciando di denunziarlo come borbonico, ma che denunziato a sua volta era stato arrestato d'ordine del giudice Mele, il quale giudice perì pochi giorni appresso assassinato da un fratello del delinquente, codesto uomo non era un camorrista. Il suo fratello istesso, il giovane assassino, soprannominato il Bel Garzone, non apparteneva alla setta. La camorra non prese parte alcuna ai tentativi fatti presso il barone, alla morte del magistrato. Il primo delitto fu una speculazione privata, il secondo una vendetta fraterna. Insisto su ciò, perchè questo duplice reato di cui tanto parlarono i giornali di quell'epoca fu attribuito alla camorra, asserzione che è smentita, come son per notare, dallo scioglimento del dramma.

Dopo il suo delitto, il Bel Garzone (il quale aveva appena 48 anni ed aveva già due omicidi sulla coscienza) vagò per la campagna per nascondersi; tentò, a quanto dicesi, di riunirsi ad una banda di briganti, che non volle riceverlo (?) e tornò finalmente a Napoli. Si era nascosto in un luogo impenetrabile, ma la camorra si incaricò di ritrovarlo, lo che non avrebbe fatto se avesse appartenuto alla setta. Essendo stata accettata tale proposta, che alcuni vogliono fosse fatta dal Governo, alcuni compagni la eseguirono non senza fatica, e non senza colpi di revolver. Ho veduto il Bel Garzone ferito, coperto di sangue, trascinato per le vie nel bel mezzo del giorno alla prigione dai camorristi, che lo battevano crudelmente per farlo camminare. Non avrebbero operato in tal guisa, se si fosse trattato di un compagno!....

Compiuta l'impresa, osarono presentarsi alla questura per ottenere il prezzo del sangue da essi versato. Il primo giorno non erano che cinque o sei, i quali si vantavano di avere arrestato l'assassino. Il giorno appresso ne sorsero una trentina.

Tali furono le alte imprese della camorra fino alla proclamazione dello stato d'assedio nel luglio 1862. Potrei moltiplicar gli aneddoti, ma non voglio stancar la pazienza del lettore. Bastino dunque quelli da me riferiti, per i quali in brevi parole si riassume la parte politica della setta. Sotto Ferdinando II essa avea fatto la polizia occulta. Sotto Francesco II appartenne alla cospirazione liberale. Sotto la Rivoluzione fu la polizia officiale; sotto Vittorio Emanuele è entrata nell'opposizione, e si è nettamente dichiarata per il disordine: e questa è la sua vera opinione, sotto tutti i governi.


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