IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
Ultime imprese della camorra – Furti con scasso, ricatti ec, brigantaggio nella città – Come i camorristi sfuggissero alle leggi ordinarie – Complicità delle loro vittime – Le protezioni influenti e i giudici intimiditi – Provvedimenti eccezionali – Campagna del questore Aveta – Un cacciatore di uomini – Lettera del Prefetto di Napoli al Ministero – Le mogli e i figli dei settari – Una lettera del comandante di Ponza – Deportazione al carcere delle Murate in Firenze – La setta disciolta e riformata – Buoni resultati di simili provvedimenti – Conclusione.
Finalmente nel mese di settembre del corrente anno 1862, profittando dello stato di assedio, che era stato proclamato nelle provincie meridionali e dei poteri estesi che gli erano stati conferiti, il generale La Marmora, di concerto col questore Aveta, che lo secondò con tutto il suo zelo, con tutto il suo coraggio, con tutta la sua attività, risolvè dare un gran colpo alla camorra.
L'occasione era propizia, e probabilmente non si rinnuovava: nell'indugio stava il pericolo. Mai la camorra erasi mostrata così potente, e mai erasi insinuata così pericolosamente non solo nelle reazioni politiche, ma in tutte le varietà di attentati possibili contro la sicurezza dei cittadini. Essa era giunta a tal punto di audacia e di furore, che entro Napoli stesso commetteva atti di brigantaggio. Ogni notte aggressori a mano armata violavano il domicilio dei cittadini. Ho udito io stesso un camorrista, interrogato alla questura, confessare che una notte, nel quartiere de' Mercanti, egli avea scassato la porta di una bottega per appropriarsi quello che in essa si conteneva. Ma era molto buio, e il ladro frugando le sue tasche non vi trovò fiammiferi. Il caso era grave: come scuoprire a tastoni le mercanzie e la cassa? come scegliere soprattutto, dacchè trattavasi di non prendere a caso? Il pover uomo era dunque assai imbrogliato, quando scorse una rivendita di tabacco a poca distanza. – Ah! ecco quello che mi occorre: troverò là di che farmi lume. – Corse dunque a codesta rivendita, scassò la porta: vi prese ciò che cercava, cioè una scatola di fiammiferi, e fors'anche gli sdrucciolò in tasca qualche pacco di sigari; e tornato tranquillamente alla prima bottega, potè rubare a suo bell'agio, scegliendo ciò che più gli conveniva.
Infine avvenivano ricatti nella città, come nelle campagne. Non ho inteso parlare di uomini e di fanciulli rapiti, ma conosco taluni che furon minacciati di esser consegnati ai briganti o assassinati nelle vie, se non sborsavano una forte somma di danaro, e che furono tanto sciocchi da crederlo, e tanto vigliacchi da pagare. Questi individui conosciutissimi meriterebbero di esser qui nominati.
Contro un male di tal natura, occorreva adoperare estremi rimedi. I camorristi sfuggivano alle leggi ordinanarie, perchè intimidivano tutti coloro che avrebbero potuto farli perseguitare dalla giustizia o denunciarli. Erano ladri che facevan paura ai derubati, malfattori che imponevano silenzio alle loro vittime, e che le stringevano in qualche modo a sé medesimi, colla più silenziosa complicità, quella della paura. Non si sapeva qual partito prendere per attaccare codesti uomini protetti da coloro che avrebbero dovuto porli nelle mani della giustizia, e per gastigare codeste estorsioni giustificate dal consenso degli sciagurati che avean dovuto subirle. Non era possibile trovare parti civili, non testimoni dell'accusa contro scellerati così temuti. I plebei, tassati, riscattati, sfregiati, pugnalati negavan tutto e dichiaravano innanzi i tribunali che l'accusato era l'uomo più onesto! E d'altra parte potevano essi affermare il contrario senza accusare sè stessi, e senza dichiarare coram populo che erano poltroni ed imbecilli, i quali avevano tollerato di esser presi a gabbo, di esser derubati, spogliati, maltrattati ridicolosamente e vilmente?
Dirò tutto: ogni camorrista arrestato avea de' protettori influenti che gli rilasciavano de' certificati di buona condotta. Dal momento in cui un membro della setta era condotto alla Vicarìa, il questore era sicuro di ricevere venti lettere sottoscritte da nomi rispettabili, in difesa dello sventurato! Ho veduto queste lettere: se il mio lavoro fosse un libello, pubblicherei i nomi de' soscrittori.
Ancora una parola e avrò finito. Questi malfattori impudenti intimidivano perfino i loro giudici. Sì; ne ho veduti assolvere alcuni, perchè la magistratura, l'antica ben inteso, ne avea paura!
Era mestieri pertanto di provvedimenti eccezionali per raggiungere i camorristi, che sfuggivano alle leggi penali, in grazia al terrore ispirato e conservato dalla loro setta. Il governo profittò dello stato d'assedio. Il signor Aveta ordinò contro i settari una guerra senza posa, una campagna rigorosa simile a quella comandata dal generale La Marmora contro i briganti. Fu potentemente secondato dal signor D'Amore, segretario generale della questura, e da alcuni delegati, segnatamente dai signori Iossa e Capuano, i quali, avendo sofferte lunghe prigionie sotto i Borboni per cause politiche, conoscevano personalmente tutti i peggiori camorristi. Il primo mi ha narrato le sue spedizioni: sembrano incredibili. Egli si avvicinava nel bel mezzo della via a uno di questi feroci malfattori, i quali si reputavano inviolabili, e battendogli una mano sulla spalla, gli chiedea bruscamente: «Sei tu il tale?» E ottenuta risposta affermativa, Iossa soggiungeva: «Va' innanzi dieci passi a me alla Vicarìa.» L'individuo abbassava la testa e camminava senza proferir parola.
Vi ebbero arresti più difficili. – Un delegato fu un giorno informato che uno dei banditi da lui perseguitati era nascosto in una villa di Capodimonte, a breve distanza dalla città. Iossa prese un fucile da caccia e partì per la campagna. Giunto alla villa designata, all'ingresso di un piccolo bosco, trovò un contadino che gli disse: «Abbiate prudenza; qui vi è un brigante: non vi arrischiate troppo.» Iossa prese il suo fucile con ambo le mani, e entrò nel bosco, come se andasse a cacciare, guardando a dritta e a sinistra fra gli alberi.
Dopo qualche tempo, trovò l'individuo da lui cercato, ma fece vista di non conoscerlo. Camminò nella sua direzione, sempre in aria di cacciatore che cerca uccelli fra i rami. Si avanzò in tal guisa fino a trenta passi di distanza dal camorrista, il quale si era fermato. Allora egli pure fece sosta ad un tratto, e stendendo la mano gli gridò: «Non ti muovere!» – «Ah;» rispose il brigante: «tu cerchi di me?» – Egli puntò allora una pistola sul delegato, il quale al tempo stesso fece fuoco su lui. Ferito alla testa, il malfattore cadde in un dirupo, ove dietro lui scese lo strano e coraggioso cacciatore di uomini. «In nome di Dio,» disse il camorrista rannicchiato fra gli sterpi e preso dalla paura «non mi uccidete!» – Iossa gli rispose come agli altri: «Cammina dieci passi innanzi a me; alla Vicarìa.» – Per tal guisa rientrarono in città, l'uno ferito, coperto di sangue, dinanzi all'altro che lo seguiva a dieci passi di distanza e col fucile in mano. Il popolo guardava tale spettacolo con stupore, e nulla vi comprendeva.
In grazia di questa caccia accanita, il prefetto di Napoli potè scrivere al ministro dell'interno in data del 23 settembre 1862 la seguente lettera, di cui garantisco l'autenticità, e che è ancora inedita:
«A S. E. il Ministro dell'Interno.
«L'E. V. conosce appieno come una delle più esiziali eredità rimaste a queste provincie dal borbonico governo sia la così detta camorra, e come i camorristi, stringendosi astutamente a quei partiti politici che più sogliono concitarsi a baldanzose pretensioni, erano riusciti ad imperversare ne' trascorsi giorni, innanzi che si proclamasse lo stato di assedio, con maggiori eccessi che mai. Le entrate del governo erano sul pendio di una totale ruina pe' continui contrabbandi che le incalzavano d'ogni dove; le proprietà de' cittadini, fatte segno ad incessanti aggressioni, minacciavano di scuotere gravemente i più saldi ordinamenti della sicurezza sociale, se l'autorità politica non si fosse fatta ad investire dalle sue radici questa specie proteiforme di delitto con un energico provvedimento, che, senza transazioni, senza rilenti di forme giudiziarie (inadeguate a raggiungere i nuovi imperversamenti di questo straordinario male sociale), soggiogasse d'un colpo all'imperio delle leggi la ostinata pervicacia de' camorristi, e tornasse così in brevi istanti la loro dignità agli esattori delle pubbliche entrate, ed al resto de' cittadini la sicurezza delle proprie cose.
«E questo provvedimento si è dato, e 300 dei più sfidati camorristi sono stati in pochi giorni ridotti in carcere; e se siasi dato, ovvero no, nel segno, e se nulla siavi stato d'ingiusto o di repugnante alla pubblica coscienza, nella urgente esecuzione di questo arresto, lo dica il plauso generale ond'è stato circondato, e che porta dietro a sè, quai documenti irrefragabili, i dazi triplicati, le entrate della lotteria portate a tal cifra di cui finora non si è avuto l'esempio, le aggressioni contro le proprietà pressochè scomparse, il sentimento della personale sicurtà pienamente rialzato dalla prostrazione in cui trovavasi innanzi.
«Perchè però questi salutari benefizi non tornassero effimeri; perchè dalle prigioni medesime, in cui sono rinchiusi nel seno della città, non si attentassero questi indomati camorristi a qualche conato di subbuglio e non fossero colà di subdolo incitamento a' loro aderenti, sembrami urgente partito che l'E. V. si faccia a divisare o nell'isola di Sardegna, o altrove, un luogo separato dove potessero sollecitamente confinarsi quelli tra essi che sono in fama del pubblico pei più accaniti macchinatori di camorra, e che, avuto riguardo alle varie volte in cui han richiamato l'attenzione dell'autorità pubblica, è a ritenere che non potrebbero ritornare in libertà senza darsi in balìa delle loro inveterate ed incorreggibili tendenze. Allora tramutati, sotto altro cielo, 140 o 150 di questi detenuti, la coscienza pubblica sarebbe rassicurata dal pericolo de' rinascenti disordini, che potrebbe portar seco la loro evasione o il loro confino su di una terra vicina; un efficace esempio si offrirebbe agli occhi degli altri; dopo qualche tempo di permanenza in lontane contrade, non sarebbe vano lo sperare che i loro animi medesimi si ritemprassero a sentimenti di obbedienza alla legge e di soggezione alle autorità costituite. Non ultimo vantaggio sarebbe quello di diradare le prigioni della città dal pericoloso ingombro di questo gentame di prigionieri, ed una base di duratura garentìa sarebbe così stabilita alla pubblica tranquillità ed alla sicurezza delle proprietà dei cittadini.
«Sicuro che tal proposta meriterà il suffragio dell'E.V., io mi aspetto il più presto le sue istruzioni.»
Queste istruzioni erano urgenti. Tutti i provvedimenti presi fino a quel giorno contro i camorristi non erano bastati per distrugger la setta, nè per diminuirla di numero. La loro detenzione nelle prigioni era non solo un imbarazzo e un pericolo per il potere, ma un rigore inutile. Racchiusi in una sala a parte, usavano minori violenze sui detenuti, ma non cessavano di esercitar il riscatto in città. Le loro mogli si presentavano sempre ai contribuenti, e ottenevan la camorra senza la menoma difficoltà. I popolani più agguerriti tremavano di fronte alle sottane di queste malandrine. Sapevano che un giorno o l'altro i mariti sarebbero usciti di prigione, e col bastone in mano avrebber chiesto conto ai recalcitranti de' debiti da questi non pagati. D'altra parte la moglie di un camorrista era di per sè medesima una potenza, e i fanciulli che avea dato alla luce si facevano fin dalla culla rispettare. Questi picciotti in erba si addestravano al coltello fin dai loro più teneri anni; eranvi ginnasi clandestini di mutua istruzione, nella città e nelle prigioni, ove questa scherma pericolosa veniva loro insegnata. Così il popolo in essi rispettava non solo i figli de' loro padri, ma anco i bravi precoci già maturi per l'assassinio.
Tenendo pertanto imprigionati i camorristi, non si raggiungeva il fine voluto. Quanto alla relegazione in alcune isole troppo vicine, Ponza per esempio, era pena insufficiente che non correggeva i condannati, testimone la lettera seguente, indirizzata dal comandante dell'Isola al questore di Napoli.
«Regio Comando Militare dell'Isola.
«Comunico all'autorità di V. S. che su questa isola di mio comando trovansi il relegato a disposizione camorrista Auttieri Fortunato, spalleggiato anche da Francesco Esposito, Biagio Marino, e Luigi Bottiglieri a condanna, ai quali niun avvertimento e misure di rigore han potuto a' medesimi metterli sul retto sentiero, talchè vedendo l'Auttieri che giornalmente coadiuvato da' menzionati, fa degli abusi sulla gente qui relegata non solo, ma quanto, calpestando ogni dritto, si fa ardito con mano armata, con minacce e vie di fatto esigere la camorra da ogni relegato che costà giunge, e su di altri che lucrano qualche obolo col sudore della fronte: e di fatti giorni sono il relegato Michele Lucente giunto in questa, veniva esso alla mia abitazione sotto i miei propri occhi preso a bastonate facendolo grondare sangue dal naso e bocca, perchè l'Auttieri bramava danaro dal Lucente. Ieri l'altro prepotentemente si presentava detto camorrista all'altro relegato Ferdinando Ungaro, che aveva travagliato sul cavofondo in questo porto, chiedendo la parte sul guadagno, e sulle frutta che l'Ungaro vende, perchè autorizzato; giungendo all'alterigia di vibrargli delle percosse sul capo con grosso baculo; perlocchè mi vidi costretto farlo restringere in prigione l'Auttieri, e consegnati nelle caserme di questa Relegazione i seguaci descritti; e comecchè non potrassi da me tenerli per lunga pezza accasermati e lasciarli liberi per l'isola, e con la certezza che l'Auttieri facendo da capo della combriccola menzionata, commetterebbero degli abusi e continui disturbi: così è che prego la V. S. che questo capo disturbatore e prepotente venisse tolto da questa isola, come ancora il Luigi Bottiglieri che lo seconda in tutto, fossero condotti in Ventotene od altro luogo che crederà più opportuno per segregarli dalla società che la mantiene turbata.
«Il comandante l'isola
Ben si scorge come la camorra si esercitasse impunemente nelle isole, da coloro stessi che vi si inviavano per correggere i camorristi. Era dunque impossibile combattere questo flagello con misure ordinarie. Bisognava provocare una relegazione in un paese più lontano da Napoli, abitato da una popolazione più vigorosa, o almeno più ribelle a questa oppressione ancora ignota da lei, e quindi da lei non riconosciuta. La Sardegna era un'isola adatta a questa deportazione. Ma il governo non consentì a far questo tristo regalo ai poveri Sardi. Si trattò per un momento di chiedere al re di Portogallo un angolo dell'Australia per inviarvi questa colonia di tirannelli incolti; ma al momento in cui scrivo (1 novembre 1862), i negoziati intrapresi in proposito non hanno, che io mi sappia, dato alcuno resultato. Frattanto 63 camorristi sono stati racchiusi nelle Murate, prigione cellulare di Firenze, cento altri deportati a Tremiti, colonia penitenziaria, di cui già tenni proposito. Ne restano ancora cento per questa, e una ventina per le Murate, dove si fanno a quanto mi si afferma lavori per dar loro stanza.
Questi rigori basteranno per distruggere la setta? Non oso sperarlo. Ho ancora un tristo documento nelle mie mani, che prova la vitalità della camorra, la sua forza di coesione, la sua facilità a riformarsi dopo perdite considerevoli. Allorchè i primi 63 deportati furono condotti a Firenze (e fra questi v'erano i più importanti, i proprietari, i guapi, i capi) la sera stessa del loro imbarco, fu sorpresa la lettera seguente inviata ai settari del Carcere Nuovo da quelli di San Francesco o viceversa.
«Dopo di avervi caramente salutato a tutti come fanno i miei. Vengo a darvi conoscenza come da qui son partiti il Capo ed il Contabile, perciò riuniti questa mattina i compagni tutti anno creduto alzare per capo a Scola, e per contaiolo a Pere di Porco (Piede di Porco) perciò vi facciamo conoscere tutto mentrecchè siamo desiderosi chi son rimasti e chi avete alzato da capo, atteso che ei giunto alle orecchie che Mormile è partito, vi fo consapevole come dovete compire che non avete la buttiglia a causa che i compagni si anno portato il carrosello, ma nella corrente settimana avete secondo il solito attente la risposta e salutandovi caramente unito a tutti mi segno
«Il vostro compagno Giuseppe Scola.
«Seguono pure le firme dei camorristi Luigi Miletto, Gennaro Izzo, Alfonso Majetto, Marinariello, Raffaele Capasso, Giovanni Parmiciano, Fedele Stiano, Domenico Dente, Domenico Esposito, Giuseppe Cesario, Francesco Mangiaguerra, Antonio Simonetto, Vincenzo Cascione, Nicola Asenici.»
Ben si scorge come la sera stessa del suo scioglimento, la società fosse già riformata. Giuseppe Scola, il nuovo capo, era un uomo già vecchio, antico soldato di Murat, maestro d' armi, o, per usare il titolo che egli si dava, professore di coltello, liberalissimo però e di un colore assai spinto: esecrava tutti i sovrani. Ho queste notizie da molte vittime dei Borboni che lo hanno conosciuto nel carcere di Santa Maria Apparente.
Temo dunque che questi provvedimenti non bastino a distruggere completamente la camorra. E pure vi hanno alcuni che gli dicono troppo rigorosi. A costoro io rispondo con questo opuscolo, che forse sarà medicina opportuna per la loro filantropica sensibilità. Li prego in ispecie di leggere attentamente le biografie, che vi unisco in appendice. Non sono piccoli libelli, frutto della mia fantasia, per divertire frivoli lettori. Sono documenti serii, autentici, officiali!
Concludendo, mi piace constatare che, se i provvedimenti già presi non bastano per distruggere completamente la setta, hanno già prodotto almeno ottimi resultati, dei quali fanno prova non solo la lettera del Prefetto al Ministro, ma la statistica dei delitti, che dopo questi energici provvedimenti, stabilisce che il numero de' misfatti conosciuti è diminuito di due terzi. Ancora un po' di tempo, molta pazienza e coraggio, un'assidua vigilanza, una infatigabile perseveranza nella fermezza e in ispecial modo nella onestà, e questa orribile piaga aperta tuttora non sarà soltanto cicatrizzata, ma guarita. Tale è l'opera che l'Italia ha da compire nell'Italia meridionale. I suoi nemici non sono politici, lo dissi in principio e lo ripeto concludendo; non sono i partigiani dell'autonomia, di Murat, della federazione, dei borboni; i mazziniani stessi non son così forti da rovesciar questo edifizio. Fino a che essi saranno ridotti alle proprie forze, scriveranno opuscoli, forse lunghi memorandum e grossi volumi, ma non distruggeranno mai quel gran principio nazionale, sogno eterno dell'Italia, che ai nostri giorni è addivenuto una realtà dopo tanti secoli di sofferenze, in grazia della fede di un Galantuomo coronato.
No, questi nemici non sono pericolosi. Non potrebbero esserlo che ammutinando contro la patria comune tutti questi elementi dissolventi, fatale retaggio dell'antico monarcato, tutte queste associazioni contro la società, il brigantaggio della campagna, il brigantaggio nella città, 11 le bande di Donatello Crocco e di Salvatore de Crescenzo, congreghe di furfanti sanguinari che a forza di danaro si possono gettare in mezzo alle popolazioni esterrefatte, promettendo il saccheggio ai vincitori e l'incendio ai vinti. Tali sono nel mezzogiorno i veri nemici dell'Italia. Ciò che le fa vera opposizione è la ignoranza che sdegna l'istruzione, la miseria che ricusa di esser distrutta, è il brigante che non vuole addivenire artigiano o soldato; il camorrista che non vuol guadagnar faticosamente col lavoro quanto gli è agevole estorcere con la violenza; è il male sotto tutte le forme, sotto tutte le maschere, insorto contro la rigenerazione morale, che ardisce ora attaccarlo e che finirà per distruggerlo. La questione oggi è cambiata; l'Italia non è più per Napoli un Governo nuovo, o una nuova dinastia; l'Italia è l'ordine sociale difeso da tutti gli uomini di senno e di cuore: è l'associazione degli onesti con le forze del settentrione e quelle del mezzogiorno, le forze del potere e quelle del popolo, esercito, polizia, guardia nazionale, che ora lottano con zelo unanime contro le antiche associazioni di assassini e di ladri, che ne' tempi scorsi opprimevano queste contrade. Dinanzi a questa lotta imponente, spariscono le questioni di forma e di dinastia. È mestieri dell'Italia intiera, dell'Italia tutta quanta per abbattere queste coalizioni criminose, che le fanno guerra e che essa deve spezzare.
L'Italia ha da trionfare, perchè l'Italia è la libertà, l'umanità, la civiltà. Che tutti que' principii, disconosciuti e condannati dalle dinastie decadute, escano ora dall'ombra e dal silenzio, ove si tentava seppellirli; che il popolo fatto libero si ritempri nel sentimento della sua dignità e della sua potenza; che la violenza e l'iniquità dell'alto non autorizzino la violenza e l'iniquità del basso; che la paura, questo vergognoso istinto di degradazione e di schiavitù, sia sradicata affatto dalla coscienza popolare che si rialza: ecco il sistema di repressione che senza fallo riuscirà; e la palla sarà estratta dalla ferita, e la camorra non esisterà più, se non come memoria in quest'opuscolo caduto nell'oblio.