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Due gesuiti e un cortigiano formano il triumvirato che personifica in questo periodo il pensiero in Italia. Questi tre artefici della completa degenerazione nazionale innondarono l'Italia con una biblioteca di vaniloquii, di puerilità e di cialdoni letterarii e si guadagnarono l'ammirazione e gli applausi d'una moltitudine di poeti e di prosatori ancor più miseri, pei quali l'apice del merito consisteva nell'improvvisare o nello scrivere un sonetto, un'egloga, un epitalamio, e nel dettare qualche vuota diceria accademica.
Francesco Algarotti, figlio d'un mercante veneziano, cortigiano d'Augusto III di Sassonia e di Federico II di Prussia, dal quale fu fatto conte, ciamberlano, cavaliere, consigliere intimo di guerra, trasse primo le Lettere all'ultimo grado della decadenza, comecchè le avesse richiamate dalle ampollosità onde le avviluppò il Marino nel poema l'Adone: ove però l'esorbitanza delle metafore, la stranezza delle antitesi, l'intemperanza degli epiteti e il falso splendore delle frasi sono compensate da molta vena poetica e vi sostituì non copia e sodezza di pensiero e sobrietà di linguaggio, ma un fare piccino e leccato, e tinte scialbe. Invano cercheresti nei suoi 17 volumi, non che una aspirazione patriotica, un'idea nuova o virile. Quei volumi sono un mosaico di concettini e di paroline.
Nel Saggio intorno a Orazio si affatica di difendere la cortigianeria invereconda del Poeta latino, tessendo così indirettamente l'apologia di se stesso, come colui che ha bazzicato per le Corti, e non rifuggì dal farsi ministro e compagno alle voluttà di Federigo. Il Neutonianismo per le dame, opera sua principale, mira a rendere accessibile alle donne e agli intelletti minori le alte speculazioni del Galileo d'Inghilterra: l'Algarotti colla più cospicua superficialità e colla solita dizione slombata, pettegoleggia sulla luce e sui colori, sulla struttura dell'occhio e sugli oggetti che vi si riflettono e sovra assai altre bagatelle, e gli vien fatta di buscarsi lodi e dall'inglese Herwey e dal Voltaire, benchè il Neutonianismo fosse un pallido simulacro delle sue Lettres sur Newton. Scrisse un Saggio sulla Pittura lodato dal Lanzi, valente autore della Storia pittorica: ne' tempi tristi e di cattivo gusto anche i più giudiziosi spesso vengono travolti dalla corrente dell'opinione pubblica. In quel saggio si nota bensì alcuna osservazione sottile, ma nessun senso profondo dell'arte, nessun cenno del suo ufficio nella vita d'un popolo. «La langue et le style en sont exécrables, du dernier exécrable» anche in giudizio del Baretti.
Taccio degli altri scritti affatto inconcludenti, e mi limiterò a spendere alcune parole intorno al Congresso di Citera e al Giudizio d'Amore; le due opere s'intrecciano fra di loro così che la seconda è il commentario della precedente; entrambe caratterizzano l'uomo e l'epoca.
In Citera avvi un tempio consecrato ad Amore, il quale è corteggiato dalla Voluttà, dalla Speranza e dall'Ardire. Milady Gravely per l'Inghilterra; madame Jasy per la Francia e Beatrice per l'Italia, vanno in Citera, e nel tempio espongono il diverso metodo di fare all'amore nei rispettivi paesi. La Voluttà analizza a uno a uno que' metodi e ne addita gli errori e le incoerenze, e poscia espone eruditamente le massime fondamentali della sapienza erotica e l'arte di praticarle.
Dopo di che entrano nel tempio i cavalieri d'Amore, spronati dalla Speranza e dall'Ardire, e ricevono una lezione dal Nume sulle regole di servizio. Indi accompagnati dalle dame passano a solazzarsi nelle circostanti selvette afrodisiache.
In pari tempo i due gesuiti, Saverio Bettinelli di Mantova e Giambattista Roberti di Bassano, con non minore copia di volumi, e non meno applauditi, rinfiancavano l'opera corrompitrice del Contino: il primo con le Lettere Virgiliane, con la Dissertazione accademica sopra Dante, con l'Elogio del Petrarca; il secondo coi Trattati del leggere i libri di metafisica, Del leggere libri di divertimento; con le lettere Sopra il canto dei pesci, col Ragionamento sopra la divozione del sacro cuore di Gesù, ecc.
Il Bettinelli si prefisse a principale scopo di allontanare gl'Italiani definitamente dallo studio di Dante, imperocchè ogniqualvolta eglino bevvero a quella fonte non fu mai per loro età di fiacchezza, di codardie e d'obblivione. Onde il gesuita pose ogni cura, e spese il suo vasto sapere nel lumeggiare alcuni difetti che per avventura s'incontrano nelle opere di quel sommo; malignamente ommettendo di rilevarne le bellezze stupende e innumerabili, e sopratutto tacendo il pensiero fondamentale che ispirò il grande poeta e al quale ha conformata tutta la sua vita. Nè si ristette al semplice ufficio di critico sleale: il gesuita con sacrilego labbro tentò coprire di onta e di derisione il padre della civiltà italiana, deplorando ch'ei non abbia continuato a fare lo speziale ed abbia abbandonato la moglie Gemma ch'era un pan di zucchero, e ne riscosse approvazione in tutta l'invilita Italia, toltone qualche ingegno solitario che ne l'ha acconciamente redarguito; fra gli altri è primo il Gozzi. E in luogo di Dante, il Bettinelli proponeva a modelli di bello scrivere e di poetare, le lambiccate prose del cardinal Bembo, quelle pedantissime di monsignor Della Casa, le rime del Costanzo senza calore d'affetto e di stile, e, quasi direi di riverbero, le proprie.
Il gesuita Roberti scrittore attillato, tutto vezzi, smancerie e concettine armeggiava come panegirista letterato del Cattolicismo contro le tendenze della filosofia contemporanea. E vi si accingeva sostenendo, senza la cattolica religione impossibile la probità; e continuava dichiarando essere stata constantemente la filosofia nemica della Religione; narrando che Rousseau scrisse Il contratto sociale quando forse incominciava la nota turbazione del suo cervello; che quindi quel libro è un tessuto di follie. Egli temeva i libri non per la fede, ch'è fermissima, ma per i fedeli che sono debolissimi; e finalmente, sgomentato dal progresso veloce del pensiero, candidamente esclamava: Oh Dio! talvolta se non desidero l'antica ignoranza quando appena si sapeva leggere un codice, desidero almeno l'antica difficoltà quando con pena si doveva trascrivere ogni codice.
E per fermo l'Algarotti, il Bettinelli e il Roberti seppero scegliere i mezzi più convenienti onde sottrarre l'ultimo alito di vitalità all'ingegno italiano. Algarotti inocula e diffonde il mal seme delle sensuali turpezze; e in ciò gli è potente e ben altrimenti svergognato ausiliario Giambattista Casti, l'autore delle Novelle Galanti. Bettinelli colpisce di ostracismo le opere rigeneratrici di Dante, e tutto iroso vibra il flagello della critica sull'Alfieri e sul Parini, che davano mano a risuscitarle e rimetterle in onore; Roberti dichiara antiumana e antisociale la filosofia, drizza il colpo alla radice abolendo la ragione e invocando la barbarie. Tutti e tre evirano e riducono cadavere la lingua, principalissimo vincolo nazionale in Italia e sua migliore guarentigia per l'avvenire.
Dal fin qui detto, come che per brevi cenni, vedesi chiaro di qual sorta di letteratura sia madre e nudrice la tirannide laicale e sacerdotale; vedesi chiaro che l'idea essenziale animatrice dell'epoca storica di cui si è dianzi ragionato, aveva esaurite tutte le possibili applicazioni e, resa ormai sterile, faceva presagire l'avvicinarsi d'una epoca susseguente nella quale le lettere come le arti, la vita morale come la politica, il sentimento religioso come le discipline filosofiche fomentate da una novella idea feconderebbero nuovi principii di progresso.
Ma quella augusta processione d'altissimi ingegni che, inascoltata sempre, pellegrinando sul cimiterio d'Italia, conservò integro il filo della tradizione nazionale nei tre secoli corsi dal Concilio di Trento a noi, non si è punto assottigliata durante gli ultimi cinquant'anni che discorriamo.
Se la nazione istupidita e petrificata dalla servitù porge avidi orecchi alle enciclopediche inezie dell'Algarotti; Genovesi, Verri, Galiani e Intieri propulsano i secreti d'una giovine scienza che involverà gran parte dell'avvenire europeo — l'Economia pubblica: — Filangieri riassume e trasfonde la filosofia del secolo xviii in uno splendido riorganamento della scienza legislativa; e Beccaria rompendo le funi e spegnendo i roghi della Inquisizione suscita un grido di esultanza in tutta l'Europa. Se Roberti proscrive la ragione per la fede, e insegna l'immorale dottrina che Dio salverà, purchè credente il malvagio; Antonio Genovesi con ben altro vigore d'intelletto e dirittura di coscienza pone innanzi all'autorità la ragione, alla credulità il dubbio filosofico, ai delirii scolastici l'osservazione della natura. Se Bettinelli offre agio a Voltaire di divulgare dall'alto della sua bigoncia europea che Dante è un pazzo e la sua opera un mostro, Parini e Alfieri colla parola e col pensiero dell'Allighieri bastano a riscotere dal torpore e dall'obblio di tre secoli la penisola. Veruno dei filosofi della immortale legione che abbiamo salutata pronunciò il nome d'Italia agli Italiani; perchè ognuno s'accorse che essa era morta politicamente; taluno di loro ha cercato il secreto della sua risurrezione altrove, ma invano: tutti si rifuggirono nelle intatte regioni del pensiero, a ordirvi la tela delle idee che il nostro secolo dispiegò a ventaglio: l'Italia quindi non li ha compresi; anzi precinta e ispirata dalla sinodo Tridentina giudicandoli folli ed eresiarchi guardò indifferente alle prigioni che li ha logorati o alla scure che li ha mozzi del capo, o alla pira che li ha inceneriti. Spensierata e voluttuosa, non badava al sonito delle catene; amava la schiavitù conciliatrice dell'ignavia, fomentatrice del sensualismo. «E il non sentire il dolore, osserva Quinet, fu il pessimo de' suoi danni.» In questi tre secoli vissuti tra le lascivie di Armida, cantate dal Tasso, o nella imbecillità olimpica degli Arcadi, la sola nota di lamentazione sulla grandissima rovina fu fatta intendere da quella in fra le arti che, non avendo uopo di concretare l'ideale in un obbietto sensibile, si sottrae, nelle proprie rappresentazioni interamente spirituali, alla perspicua vigilanza della tirannide. La musica con Marcello, Palestrina, Porpora, Scarlatti e Cherubini è un'orfana che piange sul sepolcro della madre: ma quei gemiti sfiorano appena la sensibilità della nazione. La grande Sibarita, quando udiva il linguaggio trascendente di Bruno o di Vico, e quando Galilei le narrava le glorie dei cieli, mutava fianco sul suo letto di mille fiori; quando parlava Galiani sulla Moneta o Beccaria sulla Tortura, o Genovesi sul Commercio, ella sorridendo ripeteva le strofe del Metastasio; quando le elegie musicali del Paisiello parea dovessero condurla a meditare sulla propria degradazione, soavemente si addormentava. Un popolo, come un individuo, ridotto imbelle dal macchiavelismo dell'oppressore, prostrato sotto il peso d'un'autorità religiosa, assoluta e indiscutibile, cullato da una letteratura eunuca e vezzosa, non riacquista la coscienza di sè che punto dallo stile del ridicolo o squassato dal fulmine d'un'ira magnanima; Parini e Alfieri adempiono al nobilissimo ufficio. Parini pubblica il Giorno, e con fine ironia, accoppiando magistralmente i maestosi andamenti dell'epopea alle frivole cure della corrottissima nobiltà italiana, svela ad una ad una le miserie morali, lo scadimento intellettuale e le ampollose vanità di questa classe.
L'immortale Poemetto destò uno scroscio di risa in tutta Italia: e quei nobili che a Genova, a Venezia, a Firenze ebbero tanta parte nelle glorie nazionali; che in codesti trecent'anni col codice alla mano di Baldassare Castiglioni seppero nascondere sotto le larve della grandezza esteriore, e delle maniere squisite, la piaga interiore che li disfaceva, vedendosi d'un tratto esposti al supplizio della ilarità generale, furono abbastanza disinvolti per deporre le pompe bugiarde, discendere in mezzo alla folla e ridere con essa. In Italia, terra classica di repubbliche, non prese mai ferma radice il feudalismo. In Italia vi furono patrizii, non nobili. La Monarchia serbò la pleiade nobilesca come semplice decoro del trono. I nobili italiani d'allora in poi divennero livree di Corte. Il Giorno di Parini ha disperso l'ultimo fantasma del vecchio patriziato, e l'Italia, forse sola in Europa, non è solcata da classi distinte, prodromo prezioso nella riconquista della personalità nazionale67.
Intanto in mezzo a questa folla tuonò la parola sdegnosa e fulminea dell'Alfieri, e dopo tanti anni d'obblio corse sulla fronte dell'Italia il rossore della vergogna e nel suo cuore il fremito dell'ira. Una frase dell'epitaffio ch'egli s'è apparecchiato rivela tutto il suo pensiero e spiega la sua missione: ed è ugualmente nemico de' tiranni e degli schiavi; e nelle sue venti tragedie campeggia pensiero unico che si risolve in due momenti — l'odio della tirannide da cui emerge quasi raggio riflesso l'amore della libertà: il disprezzo contro gli oppressi, d'onde questi indirettamente derivano la coscienza della propria dignità d'uomini, quindi il dovere di ricuperarla.
Questo pensiero governa il suo genio sia che apra la scena nel foro romano, o nella reggia di Saul, o sotto la tenda d'Alboino, o nell'Escuriale, o entro le case maledette degli Atridi di Grecia e di Firenze. Aggiugni alla sua efficacia la forma circoscritta e serrata ch'egli ha dato alla tragica composizione. Quattro o cinque interlocutori al più: moltissima rapidità d'azione, forzato concentramento d'affetti e di passioni, che penetrano profondissime e diritte; non coloriscono un largo disegno umanitario come in Schiller o principalmente filosofico come in Shakspeare: Alfieri trapassa a parte a parte il cuore e i visceri del pubblico italiano. Aggiugni l'assoluta sobrietà di locuzione, la studiata asperità dei versi e della costruzione; l'evidenza costante e terribile delle idee e delle cose. Gli effetti raggiunti da questi quadri modellati sui tipi del Capaneo e dell'Ugolino furono potentissimi. L'Italia surta «come persona che per forza è desta», comprese a colpi di capolavori tutta la sua onta secolare; e mentre le tragedie dell'Alfieri le stillavano l'odio non placabile contro ogni maniera d'oppressione, udiva un'altra voce ben più poderosa di altri schiavi sulla Senna che già cominciavano a dar mano per costrurre il diritto sulla forza; e sin da quel momento ella segnò i primi passi sul cammino della redenzione.
La Rivoluzione francese distrusse le castella e i codici feudali, la ragione divina del Clero e della Monarchia, e su quel campo raso ha inaugurati i diritti dell'Uomo. Poi, apostolo armato, scese in Italia a divulgarvi la Buona Novella, e vi trovò il terreno apprestato a ricevere e fecondare le nuove idee dai filosofi, dagli economisti, dai filantropi, dai giureconsulti del secolo xvii e perfino da alcuni Principi riformatori, per fermo inconsapevoli di vibrare l'accetta alle radici dell'albero di famiglia.
Le violenze in cui essa trascorse le impedirono di compiere il rinnovamento della società europea sotto il consolato della Libertà; non evvi sodalizio possibile fra libertà e violenza; ciascuna ha proprietà geometriche ripugnanti fra loro come quelle del triangolo e del circolo, onde la Rivoluzione dovette piegarsi ad essere amministrata dal Despotismo: il despotismo rivoluzionario nella patria di Carlomagno, per impulso di tradizione, per intrinseca forza espansiva, per antitesi col dispotismo conservatore e quindi pel supremo uopo della esistenza deve tendere al monarcato occidentale: se non che la Santa Alleanza del despotismo conservatore, ferito, ma vivo e gagliardo tuttavia, ruppe il disegno del nuovo Carlomagno, e il Diritto divino fu restituito: però il Codice Civile non potè essere relegato a Sant'Elena col suo autore, nè coi vecchi re reintegrata la vecchia ragione ecclesiastica e la feudale, nè inaridito nel cuore degli oppressi il sentimento della libertà come uomini e come cittadini della patria che Dio ebbe loro assegnata.
E in vero, la conquista della libertà nazionale è il tema perpetuo della storia d'Italia da sessantaquattro anni in qua. L'indefessa aspirazione degli Italiani alla libertà stabilisce la differenza fra la schiavitù sofferta in questo periodo e la schiavitù dei tre secoli che abbiamo discorsi; ed è differenza grande la quale si riflette naturalmente nelle manifestazioni del pensiero. L'ufficio civile della Letteratura, significato dal Foscolo68, determina il moto degli intelletti, è il concetto dell'epoca: il poeta come il filosofo, l'economista come lo storico o abbiano scritto apertamente (unica dolcezza consentita dall'esilio), o siansi industriati di eludere le sospettose cautele della Censura, intesero con diverso magisterio a fomentare e crescere il sentimento della Patria Italiana. Ma se i costumi ingentiliti, il sindacato reciproco dei potentati e, ancora più, l'azione benefica e immediata dell'opinione pubblica europea con le mille voci delle gazzette resero impossibile il rogo di Bruno, la corda di Galilei, il pugnale di Sarpi, venne però fatto agli oppressori di precidere le ali agli ingegni, di mantenerli grami, di dimezzarne l'efficienza; e benchè l'Italia si pregi di alcun volume che non sarà dimenticato, desidererà, non dirò l'antico primato intellettuale, ma una letteratura nazionale, una scuola filosofica, un'influenza convenevole nell'incivilimento sinchè ella non diventi la libera patria degli Italiani; perchè la libertà è la Jerusalem degli ingegni.