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Sire,
Potete, di mezzo al frastuono di lodi codarde e di adulazioni servili, che i cupidi faccendieri, gli ambiziosi d'un giorno e i nati ad essere cortigiani d'ogni potere v'inalzano intorno, discernere e intendere la parola d'un uomo libero che nè teme nè spera da Voi, nè ambisce fuorchè di vivere e di morire in pace colla propria coscienza? Siete tale da porger l'orecchio, fra le premature adesioni d'intere provincie e le note insidiosamente carezzevoli di tutta una Diplomazia, alla voce solitaria d'un individuo, che non ha merito se non quello d'amare d'immenso e disinteressato amore l'Italia, e dirvi: - da quella voce può forse venirmi il Vero? - Allora, uditemi: però che io, parlandovi, non posso dirvi che il vero, o ciò che l'intelletto ed il core mi fanno credere vero. Repubblicano di fede, ogni errore di re dovrebbe, s'io non guardassi che al mio Partito, sorridermi, come elemento di condanna alla monarchia. Ma perchè io amo, più del Partito, la Patria, e Voi potreste, volendo, efficacemente ajutarla a sorgere e vincere, io vi scrivo. Vi scrivo da terra italiana, dove la persecuzione d'un Governuccio, che ciarla di libertà e manomette ducalmente gli esuli che gl'insegnarono quella parola, e il traviamento d'un Popolo illuso e il freddo abbandono d'uomini, or potenti e che mi furono amici, dovrebbero farmi credere morto ogni senso di libera coscienza e di libero avvenire in Italia. Ma per entro le viscere di questa terra popolata un tempo di Grandi d'anima, e dove il guardo erra dal Sasso di Dante ai ricordi delle patrie difese erette da Michelangiolo, scorre un fremito di vita potente, che tre secoli di tirannide sacerdotale e straniera non hanno potuto spegnere, e che aspetta l'ora di rivelarsi: vita concentrata, energica, collettiva di Popolo che fu libero e repubblicano quando l'Europa giaceva nelle tenebre del feudalismo; che irruppe tratto tratto in getti vulcanici da Procida a Masaniello, dal moto genovese del 1746 alle Cinque Giornate lombarde; e che sommergerà un giorno, nella pienezza della sua onda, le povere, intisichite vite pigmee ch'oggi s'attentano di scimmiarla. In nome di questa Vita - vita d'un Popolo che non è, ma sarà, vita, non d'una o d'altra zona italiana, ma d'Italia, che ha centro in Roma e informa tutte le membra del Paese, da Trento a Capo Passaro - io oggi vi parlo. Voi non la conoscete, Sire, questa vita: se la conosceste, non avreste mendicato all'impresa ajuti stranieri. I cortigiani, che vi ricingono il trono, ve la celano ad arte: sanno che non potrebbero governarla. Gli ingegni mediocri, che vi furono o sono ministri, e che studiano il segreto della terza Vita della Nazione nelle pagine scritte da Machiavelli sul cadavere di lei, non possono rivelarvela. La Diplomazia, che ha posto assedio intorno all'anima vostra, la nega, perchè ne trema. Io la conosco, perchè, nato di popolo, la esplorai nell'amore, nel dolore, nel sacrificio di ogni cosa più cara, e coll'anima pura d'ogni desiderio che riguardi me stesso.
Sire, Voi siete forte; forte, sol che Voi vogliate, di quella Vita; forte di tutta la potenza invincibile ch'è in un Popolo di ventisei milioni, concorde in un solo volere; forte più di qualunque altro principe che or vive in Europa, dacchè nessuno ha in oggi tanto affetto dalla propria Nazione, quanto Voi potreste suscitarne con una sola parola: Unità: - Voi non avete osato proferirla quella parola: però non sapete ciò che può essere, ciò che può darvi l'Italia. La forza latente che quella parola, risolutamente pronunziata, chiamerebbe in azione, v'è ignota.
L'Italia cerca Unità. Essa vuole costituirsi Nazione Una e Libera. Dio decretava questa Unità quando ci chiudeva tra l'Alpi eterne e l'eterno Mare. La storia scriveva Unità sulle mura di Roma; e il concetto unitario ne usciva così potente, che, varcando i limiti della Patria, unificava due volte l'Europa. Il lento lavoro dei secoli ha logorato di tanto le differenze che invasioni, colonie e conquiste aveano posto tra le famiglie seminate sulla nostra terra, che più d'ogni altro forse il nostro Popolo rappresenta quasi universalmente, comechè servo e smembrato, nelle usanze e nella convivenza sociale, il sentimento della eguaglianza. L'Unità d'Italia fu l'ideale dei nostri Grandi, da Dante a Machiavelli, da Machiavelli ad Alfieri. Nel nome della Unità muoiono da mezzo secolo, col sorriso sul volto, sui patiboli o coll'armi in pugno, da Messina a Venezia, da Mantova a Sapri, i nostri migliori. Nel nome dell'Unità noi iniziammo e mantenemmo, privi di mezzi e influenza, e perseguitati, e cento volte sconfitti, tale una crescente agitazione in Italia, da far della Questione Italiana una Questione Europea, e somministrare a Voi, Sire, ed ai vostri il terreno ch'oggi vi frutta lodi e potenza. L'Unità è voto e palpito di tutta Italia. Una Patria, una Bandiera Nazionale, un solo Patto, un Seggio fra le Nazioni d'Europa, Roma a Metropoli: è questo il simbolo d'ogni Italiano.
Voi parlaste d'Indipendenza. L'Italia si scosse e vi diede 50 000 volontarî. Ma era la metà del problema. Parlatele di Libertà e di Unità: essa ve ne darà 500 000.
Che cos'è l'indipendenza per Napoli, per la Sicilia, per la metà delle provincie Romane? Oltre a dodici milioni d'Italiani gemono sotto una tirannide domestica, eguale a quella esercitata sul Veneto dallo straniero. Il birro e il prete contendono ad essi ogni sviluppo di vita. Le galere, il bastone, il carnefice, sono sostegno ai Governi. Che importa ai miseri Perugini, che importa ai tormentati di Napoli e di Sicilia che la potenza dell'Austria non s'estenda oltre il Mincio? E Venezia? E Roma? Dov'è, senza Roma, l'Italia? Là stanno, come belva accasciata su cadavere di generoso, diecimila Francesi, stranieri anch'essi; e la tirannide papale non vive che di quell'ajuto. Voi v'alleaste con essi. La vostra Indipendenza non protegge il Santuario d'Italia. Ah, Sire! Non rimproverate l'Italia per non avervi dato di più: ammiratela per aver gettato a' vostri piedi, senz'ombra di patto, 50 000 vite di giovani, dietro un programma sì monco, sì meschino e ingannevole, come quello che Voi le affacciaste.
E badate. Malgrado le angustie e le contradizioni di quel programma, tanta era la fiducia in Voi, Sire, tanto l'impeto del lungo dolore e della lunga speranza, tanto il convincimento che il Piemonte non avrebbe voluto, una volta sguainata la spada, rimanersi a mezzo la via, che l'Italia era presta a ben altro. Se non che i vostri non vollero; tremavan del Popolo; paventavano in esso la coscienza, crescente coll'azione, de'suoi diritti; in voi temevano che imparaste a conoscerlo. Sapete Voi, Sire, con quanto artificio, con quanta insistenza di predicazione codarda, s'ammorzò, per cinque mesi, ogni passione generosa, ogni fiamma d'entusiasmo, ogni nobile impulso di sacrificio in questo Popolo che si volea chiamare a rivivere? Come s'insegnò, da quei che parlavano in nome vostro, unica virtù la disciplina, l'inerzia, quasi le Nazioni s'educhino a forti fatti cogl'instituti gesuitici? Come fummo sistematicamente calunniati presso le moltitudini, noi che insegnavamo ad esse - in nome dell'Unità (Unità inevitabilmente regia, se il re la facesse) - la virtù della lotta, del sacrificio e del saper morire, pegno certo di vita? Come si profanò di scherno, quando non di sospetti feroci, dalle gazzette patrocinanti la vostra causa, l'ardita impresa degli uomini del febbrajo 1853, la protesta di Bentivegna, la sepoltura deserta di Pisacane? Sapete come fu dai vostri ricusata l'iniziativa che il popolo di Milano offriva di assumersi poco prima della guerra, quando gli Austriaci erano tuttavia pochi e potevano cogliersi alla sprovveduta? Sapete come alla Sicilia, ordinata a insorgere e irrequieta per gl'indugî durante la guerra, fu detto: no; attendete il cenno; e il cenno, per arcane ragioni, non andò mai? L'insurrezione del Sud, fervente la battaglia al Nord, fondava d'un getto l'unità del moto; fondava, in vostro nome, l'Unità dell'Italia: e nessuno, tra i maneggiatori che vi s'agitavano intorno, voleva o s'attentava di voler l'Unità. Intanto questo povero Popolo s'addottrinava a non credere in sè, a perdere ogni virtù iniziatrice, ad aspettar salute, non dal proprio furore, ma solamente dai battaglioni ordinati, dalle artiglierie e dai Generali in capo. E ne vedemmo gli effetti. Ma se, dall'inerzia di molti e dalle titubanze di tutti, Voi desumeste, Sire, che questo Popolo non ha in serbo altra vita da quella infuori che rivelava negli ultimi mesi, mostrereste di non conoscerne la natura nè la storia, e d'aver dimenticato i fatti d'undici e di dieci anni addietro. Le manifestazioni della vita d'un popolo stanno in ragione dell'intento che gli si propone, e dell'audacia dei capi che lo dirigono.
Sire, non bisogna dimenticarlo: Voi non v'affratellaste col Popolo d'Italia, nè lo chiamaste ad affratellarsi con Voi. Sedotto dalla trista politica d'un ministro, che antepose l'arti di Lodovico il Moro alla parte di rigeneratore, Voi rifiutaste il braccio del nostro Popolo, e chiamaste, senza bisogno, in un'ora infausta, alleate ad una impresa liberatrice l'armi d'un tiranno straniero; senza bisogno, dico, perchè se voi dicevate ai Lombardo-Veneti d'insorgere subitamente, quando l'Austria era, in Italia, debole e improvvida, e vi tenevate apparecchiato a seguire, i Lombardo-Veneti riconquistavano senz'altro la terra loro fra l'Alpi e il mare, e a Voi non rimaneva, per vincer la guerra, che correre, sprezzando gli avanzi nemici appiattati nelle fortezze, sui gioghi del Tirolo e dell'Alto Veneto. In quell'ora, della quale Voi dovete ancora ammenda all'Italia, Voi perdeste i nove decimi delle forze che il Paese era presto a darvi: perdeste gli uomini - e son più molti che i faccendieri non curan di dirvi - i quali, come noi, non adorano ciecamente l'idolo della forza, e non sagrificano a una menzogna la loro coscienza; perdeste tutti coloro che, davanti all'immenso apparato di guerra regolare, dissero a sè stessi: non hanno bisogno di noi; perdeste il Popolo, che sentì la diffidenza e pensò: il re non ci vuole; perdeste la consacrazione del santo entusiasmo, dell'ire sante, delle sante audacie che creano la vittoria; perdeste l'ajuto onnipotente della Rivoluzione, senza la quale non si fonda, in Italia, Unità. Però che, Sire, stringendo la malaugurata alleanza, Voi rapivate alla Causa d'Italia, l'aureola di virtù che la faceva cara agli uomini e a Dio, per affratellarla col vizio e coll'egoismo; la facevate scendere dall'altezza di un principio al fango d'un interesse e delle oblique ambizioni altrui; mettevate un'opera di libertà sotto la tutela del dispotismo; toglievate ogni sanzione di moralità all'impresa; stendevate la mano liberatrice alla contaminazione del tocco d'un uomo la cui mano gronda del miglior sangue di Roma e Parigi; e quanto a Voi, Sire, invece d'un alleato, vi davate un padrone.
No, Sire; non rimproverate di freddezza l'Italia; non diffidate di questa terra che, schiava e smembrata, ha saputo, colla costanza dei tentativi e colla pertinacia de' suoi Martiri, farsi centro di tutte le questioni d'Europa - che, ridesta per brev'ora, fu capace di sperperare in Lombardia, in cinque giorni, un esercito di 75 000 uomini; capace di resistere per due mesi, in Roma, con 14 000 uomini raccolti sotto una bandiera di Popolo, a 30 000 e più Francesi; capace di resistere, con armi di militi improvvisati, per diciotto mesi in Venezia, ad Austriaci, fame e colèra; capace di combattere come combattè, colle braccia dei popolani, a Brescia, a Bologna, a Palermo, a Messina. Voi non l'avete voluta mai.
Sire, volete averla? Averla splendida davvero di entusiasmo, di fede e d'azione? Averla con forze tali da far sì che ogni Diplomazia s'arresti impaurita, ogni disegno d'avversi si sperda davanti a essa?
La prudenza è la virtù dei tempi e delle condizioni normali. L'audacia è il Genio dei forti, in circostanze difficili. I popoli la seguono perchè vi scorgono indizio di chi non li tradirà nel pericolo. La fede genera la fede. Maturi i tempi per una impresa, nella potenza della iniziativa sta il segreto della vittoria. S'anche oggi seguiamo noi tutti, ammaliati o tementi, le fortune di Francia e le sue volontà, è perchè, mezzo secolo addietro, un potente - Danton - ne compendiò l'iniziativa nella parola audacia; e una Assemblea si fece, davanti all'Europa in armi, incarnazione di quella parola. Da quel giorno ha data l'inviolabile Unità della Francia.
Sire! L'Italia vi sa prode in campo, e presto, per l'onore, a far getto della vostra vita. Sire, il giorno in cui sarete presto, per l'Unità Nazionale, a far getto della vostra corona, Voi cingerete la Corona d'Italia.
L'Italia vi sa prode in campo. Ma, comunque virtù sì fatta sia rara in un re, l'ultimo tra i vostri volontarî può farne mostra; e la vita è per lui sacra d'affetti di madre, di sorella, d'amica, che son la corona dell'anima sua. L'Italia ha bisogno or di sapervi prode nel consiglio; potente di quella volontà che fa via di ogni ostacolo: forte di quel coraggio morale che, intraveduto un dovere, un'alta impresa da compiere, ne fa sua stella, e la segue intrepido, irremovibile sulla via, senza arretrarsi davanti a lusinga o minaccia. Voi potete, io lo credo, mostrarvi tale, e per questo vi scrivo: pur, finora, Sire, non vi siete mostrato tale.
Sire, Voi accettaste la pace di Villafranca e rifiutaste - però che l'accettazione sottomessa all'arbitrio di Governi stranieri è rifiuto - il voto d'alcuni milioni d'Italiani, che, credendo darsi all'Unità, si davano a Voi.
Il primo atto cacciava l'Italia a' piedi d'un uomo straniero: il secondo cancella il Diritto Italiano a pro d'un principio straniero. E l'uomo e il principio sono ambi incarnazioni del Dispotismo.
Sire, troppi adulatori fanno a gara per isterilire i germi del bene che possono essere in Voi, perch'io non vi dica la verità. L'accettazione della pace di Villafranca sarebbe atto di codardo, se non fosse vostro.
La lode al padre, Sire, non può giungervi grave, quand'anche racchiuda un rimprovero per Voi: avete tempo per darle solenne e gloriosa risposta. Sire, vostro padre non avrebbe apposto il suo nome a quel Patto. Il padre vostro mancò egli pure, nella sua combattuta ed incerta vita, d'energia di proposito e di fede nel Popolo d'Italia. Ma quando, dopo la battaglia di Novara, ei vide ch'altro non gli rimaneva se non regnare vinto e sommosso, e segnar del suo nome patti umilianti, gettò sdegnoso la corona da sè e s'incamminò volonteroso sulle vie dell'esilio. Voi segnaste il patto umiliante, uscendo da tre, da quattro vittorie. Segnaste un patto che tradiva Venezia, l'Italia, le vostre promesse e gli uomini che, sulla fede di quelle, s'erano da ogni parte d'Italia affrettati a combattere intorno a Voi: un patto che v'era imposto dallo straniero; imposto da chi era sceso come vostro alleato e si faceva a un tratto insolente padrone; imposto, senza pur chiamarvi a discuterlo; imposto col tratto villano di chi vi tiene per nullo e incapace di ribellarvi. E perchè l'Europa potesse fraintendervi avido, più che d'onore, di preda, accettaste - offesa mortale all'Italia ed a Voi - che la Lombardia vi fosse trasmessa come feudo di seconda mano dal Signore straniero. Sire, un privato a' tempi nostri non soffrirebbe l'oltraggio. Io non so di qual tempra s'informino l'anime dei re; ma so che s'io fossi Voi non potrei dormire una notte, senza che l'imagine della povera, santa, eroica, tradita Venezia, mi apparisse, rimprovero tremendo, fra i sonni; nè potrei scorrere, il giorno, coll'occhio le file de' miei e vedervi i volontarî di Perugia e di Roma, senza che il rossore mi salisse su per le guancie.
Dell'accettazione condizionale, data al voto delle provincie del Centro, non parlo: è tristissima conseguenza del primo fatto. Voi non siete più vostro. Fatto, a Villafranca, vassallo della Francia imperiale, v'è forza chiedere, per le vostre risposte all'Italia, inspirazioni a Parigi.
Sire, Sire! In nome dell'onore, in nome dell'orgoglio Italiano, rompete l'esoso patto! Non temete che la Storia dica di Voi: - ei fece traffico del credulo entusiasmo degli Italiani per impinguare i proprî dominî? -
Sire! io nol credo. Io vi credo - e lo scrissi anni addietro, quando i vostri mi condannavano a morte, per aver tentato di promovere con armi liguri il tentativo d'un prode amico nel Sud - migliore dei vostri ministri e dei faccendieri politici che vi circondano. Credo che viva in Voi una scintilla d'amore e d'orgoglio Italiano. Ma s'è vero - se ciò ch'io sentii, leggendo alcune vostre recenti, semplici, spontanee parole di risposta a non so quale adulatrice deputazione, non è illusione di chi desidera - non avete energia che basti per vivere di vita vostra? Sperdete, perdio, lungi da Voi quel brulichio di pigmei consiglieri di codardia, come il leone sperde, scotendo i velli, gl'insetti che gli si affollano intorno. Perchè assumeste, sul cominciar della guerra, la Dittatura? Per accarezzare le voglie dispotiche dell'Alleato? Per imporre silenzio, con abbiette persecuzioncelle, ad uomini che, come me, osano dirvi la verità? I padri nostri assumevano la Dittatura per salvar la Patria dalla minaccia dello straniero. Abbiatela, purchè siate Liberatore. Ma cominciate dal liberar Voi medesimo dagli uomini che tradirono il concetto Italiano nelle mani del carnefice di Roma, e dalla turba impotente che incatena negli artificî diplomatici il pensiero dell'anima vostra.
Sire! La guerra Italiana non è finita; non è se non cominciata. Per Voi, le vittorie di Lombardia non debbono costituirne che la prima campagna.
A Voi spetta, per le date promesse, il far che riarda; all'Italia, il sostenerla e compirla.
Ma non è col guadagnar tempo che potete ottenere l'intento. I dieci, i venti, i trenta mila uomini che potrete aggiungere al vostro esercito, son nulla a petto di ciò che perdete, indugiando. L'Italia si sfibra nello scetticismo e nello sconforto: l'entusiasmo si spegne: la Diplomazia diffonde i germi del dissolvimento; le questioni si localizzano: il moto perde il suo carattere nazionale.
Voi avreste dovuto respingere sdegnosamente il patto di Villafranca: avreste dovuto dire a Luigi Napoleone: io non tradisco le mie promesse; e dire all'Italia: l'alleato straniero ci abbandona; io continuo solo la guerra, e chiedo al Paese la cifra d'uomini, sottratta da quell'abbandono, all'esercito.
Voi nol faceste, ma siete in tempo. Affratellatevi al Popolo: affratellatevi, senza tremarne, alla Rivoluzione. In essa troverete forza più che sufficiente all'impresa. I centoventimila uomini di milizie regolari, che il Piemonte e il Centro vi danno, sono nucleo che basta a determinare l'insurrezione generale d'Italia; Voi trarrete altri centoventimila uomini di milizie regolari, e tutto un Popolo in armi, ad afforzare ed agevolare le operazioni dell'esercito, a fiancheggiarne le mosse, a creare una perdita al nemico in ogni passo ch'ei mova; a rapirgli in un subito forza e coraggio.
Un esercito, e l'Insurrezione di tutto un Popolo: Voi potreste, Sire, aver questo in brev'ora; ma per averlo, è necessaria una cosa:
Dite a Luigi Napoleone: «Io diffidai dell'Italia; accettai una pace non mia. Ma l'Italia non ha diffidato di me; ed io sento gli obblighi che quella fiducia m'impone. Io ritratto l'accettazione. Farò, libero d'ogni vincolo, ciò che Dio e la mia Patria m'inspireranno. A Voi non chiedo se non una cosa: l'astenervi da ogni intervento nelle cose nostre, e lasciar, come prometteste, l'Italia libera di compiere coll'opera propria l'impresa che iniziaste con me. E a quel patto, avrete me grato, l'Italia amica sempre alla Francia.»
Dite ai Governi d'Europa: «Voi avete cancellato il vecchio Diritto Europeo, i Trattati del 1815, in Polonia, nel Belgio, in Oriente, per ogni dove. L'esperienza degli ultimi quarant'anni vi ha dimostrato - e lo avete confessato più volte - che non v'è pace possibile in Europa, se non accettando il principio che ogni Popolo assetti da per sè le proprie faccende interne. Ci apprestiamo a farlo. In nome del Diritto Italiano, io vi chiedo di lasciarci liberi e soli. Contro l'Austria noi non chiediamo ajuto fuorchè alle nostre spade: fate soltanto che nessuno l'ajuti: statevi custodi del campo: e rendete tarda giustizia al Popolo dal quale vi venne gran parte dell'incivilimento che allieta le vostre contrade.»
Dite agli Italiani: «Voi mi salutaste primo soldato della vostra Indipendenza, ed io non tradirò la missione che m'affidaste. Non v'ha indipendenza per gli schiavi, nè forza possibile pei divisi: siate dunque Popolo libero ed uno; chiuda la vittoria la lunga serie dei vostri Martiri: dal 1848 voi provaste con fatti che i tempi sono maturi per questo. Sorgete or dunque: sorgete tutti. Rovesciate le barriere artificiali che vi disgiungono, com'io lacero ogni vecchio patto avverso alla vostra Unità. Liberatevi da quanti v'opprimono, e accentratevi dove vedrete, sotto la bandiera tricolore, splendere la spada ch'io snudo. Se Dio m'ajuta e voi compite il debito vostro, io non la riporrò nella guaina che in Roma, dove i vostri rappresentanti detteranno il Patto di amore pei ventisei milioni che popolano la nostra Italia. Ma badate! Io vi chiedo, oltre quello che io qui raccolgo d'intorno a me, duecentomila uomini in armi: vi chiedo i mezzi necessarî a mantenerli in azione: vi chiedo illimitata fiducia; vi chiedo, per vincere, di esser presti, com'io sono, a morire. Schiavi o Grandi; non v'è via di mezzo per noi.»
Sire, gl'Italiani saranno grandi il giorno in cui Voi proferirete parole sì fatte: i Partiti saranno spenti fra noi. Due sole cose avranno vita e nome in Italia: il Popolo e Voi.
Sire! di che temete? Dell'Austria? Coll'Italia intera - però che il linguaggio ch'io vi propongo vi dà Napoli e la Sicilia - schierata sotto292 la vostra bandiera? Coll'Ungheria presta a insorgere ed affratellarsi? - Dell'Inghilterra? L'Inghilterra è con Voi, purchè Voi non siate con Luigi Napoleone. - Dell'alleato? L'alleato scese, collegandosi con Voi, in Italia, per tentare di riacquistarsi, patrocinando una nobil causa, un'aura popolare perduta: ei non può scendere oggi a combatterla: non può dire alla Francia: chiesi jeri l'oro e il sangue de' tuoi figli contro l'Austria a pro dell'Italia: oggi li chiedo a pro dell'Austria contro l'Italia. - L'alleato affrettò la pace perch'ei si sapeva minacciato ne' suoi dominî dall'invasione Germanica; e quella invasione pende, minaccia perenne, sul di lui capo. Ei poteva jeri fare, pe' suoi fini, la parte d'emancipatore; quella del293 tiranno gli è oggimai, al di fuori dei confini Francesi, vietata dalla Prussia, dalla Germania, dall'Inghilterra e dalle tendenze ch'or ricominciano in Francia a manifestarsi.
No; la prima guerra di Luigi Napoleone non sarà contro Voi, Sire; sarà tra lui, l'Inghilterra e Germania.
Ma, Sire; a che parlarvi di cose che vi sono, o dovrebbero esservi note più assai che a me? - Io vi chiamo, in nome d'Italia, ad una grande impresa: ad una di quelle imprese nelle quali il forte numera gli amici, non i nemici. Vi chiamo all'alleanza con 26 milioni d'Italiani, padroni, purchè uniti e guidati, dei proprî destini. Vi chiamo a porvi a capo d'una Rivoluzione Nazionale, che troverà, s'altri mai s'attentasse reprimerla, alleati nei Popoli quanti sono ai quali manca una libera Patria. Vi chiamo a una Iniziativa che può diventare Iniziativa Europea. Metà dell'Europa, Sire, trasalirà plaudente al sorger d'Italia, come trasalì, plaudente ed ajutatrice, al sorgere degli Stati Uniti, della Grecia, d'ogni guerra di Popolo che vuol farsi Nazione, d'ogni grande fatto provvidenziale: l'altra metà si ritrarrà sospettosa, ma trepida. La Diplomazia è come i fantasmi di mezzanotte: minacciosa, gigante, agli occhî di chi paventa, si dissolve in nebbia sottile davanti a chi le mova risolutamente incontro. Osate, Sire: allontanate da Voi qualunque tema, o vi suggerisca temenza. Circondatevi di pochi uomini la cui vita intera parli fermezza di principî, schietto amore d'Italia e potenza di volontà. Date pegno al Popolo di libertà; lasciate vita alla stampa, alle Associazioni pubbliche, alla pubblica parola: stampa, associazioni, convegni pubblici, vi creeranno intorno quel fermento, quell'entusiasmo, dal quale trarrete quante forze vorrete; la libertà non ha pericoli se non per chi ha in animo di tradirla.
Dimenticate per poco il re, per non essere che il primo cittadino, il primo apostolo armato della Nazione. Siate grande come l'intento che Dio vi ha posto davanti, sublime come il Dovere, audace come la Fede. Vogliate e ditelo. Avrete tutti, e noi primi, con Voi. Movete innanzi, senza guardare a dritta o a manca, in nome dell'eterna Giustizia, in nome dell'eterno Diritto, alla santa Crociata d'Italia. E vincerete con essa.
E allora, Sire, quando di mezzo al plauso d'Europa, all'ebbrezza riconoscente dei vostri, e lieto della lietezza dei milioni, e beato della coscienza d'aver compito un'opera degna di Dio, chiederete alla Nazione quale posto ella assegni a chi pose vita e trono perch'essa fosse Libera ed Una - sia che vogliate trapassare ad eterna fama tra i posteri col nome di Preside a vita della Repubblica Italiana, sia che il pensiero regio dinastico trovi pur luogo nell'anima vostra - Dio e la Nazione vi benedicano! - Io, repubblicano, e presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, esclamerò nondimeno coi miei fratelli di Patria: - Preside o Re, Dio benedica a Voi, come alla Nazione per la quale osaste e vinceste.