Giuseppe Mazzini
Scritti: politica ed economia
Lettura del testo

VOLUME SECONDO PENSIERO ED AZIONE.

SCRITTI SUL MEDESIMO PERIODO

NÈ APOSTATI NÈ RIBELLI

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

APOSTATI RIBELLI297

 

La diffidenza cieca, come la cieca fiducia, è morte alle grandi imprese. I maneggiatori politici del moto Italiano peccano in oggi della prima, e vi aggiungono l'ingratitudine; il Popolo d'Italia pecca della seconda.

Della necessità che il Popolo d'Italia non segua passivamente servile l'inspirazione che scende dalle sfere governative, ma senta la vita iniziatrice che ha in , e la svegli e provveda, più che non fa, con le opere proprie alle proprie sorti, ho parlato sovente e riparlerò. Parlo oggi per conto mio e de' miei amici repubblicani, della diffidenza sistematica che perseguita di calunnie e di stolti sospetti essi e me. Ne parlo, non perch'io creda debito nostro giustificarci o difenderci con gli uomini che diffondono quelle calunnie o affettano di nudrire quei sospetti: nei più tra essi calunnie e diffidenze non sono sincere, ma solamente basso calcolo politico e codarda guerra d'uomini meschini contro uomini che paventano, a torto, rivali possibili sul campo dov'essi mietono; però non li stimo. Ne parlo pei molti che credono senza appurare, o perdono così la speranza d'una concordia che nell'intimo core desiderano; pei molti che, ineducati a scegliere tra le cose messe loro innanzi, travedono pericoli ove non sono, e credono, ingannati non colpevoli, salvare il Paese vigilando sospettosi su noi ed allontanandoci da un campo che aprimmo noi primi in Italia. Davanti al Popolo non v'è dignità offesa che comandi il silenzio. Giovammo - e questo lo confessano gli stessi avversi - alla Causa del suo avvenire. Vogliamo giovarle ancora, tentarlo almeno, e per questo bisogna intenderci. Agli accusatori sistematici vorrei ricordare soltanto che le ingiuste diffidenze generano ingiuste ire, traviano l'opinione Europea su le cose nostre, scemano le forze della Nazione, e cacciano i germi di quel sistema che contaminò, sessantasette anni addietro, la Rivoluzione francese, e finì per affocarla nel sangue.

Da quali fatti movono i sospetti che oggi ancora si accumulano contro i repubblicani? Per quanto io cerchi, non ne trovo uno solo che non sia un'assurda calunnia smentita dieci volte da prove documentate.

Ebbe luogo, in un sol punto d'Italia, un solo tentativo di sommossa repubblicana? Fu trovata, fu letta, negli ultimi due anni, una sola linea scritta pubblicamente o privatamente, dagli uomini che più o meno rappresentano il principio del Partito, che accenni a Repubblica? Fu mai promossa da noi, dal primo svolgersi del moto d'Italia, la questione di forma d'instituzioni politiche?

No: e mi smentisca co' fatti chi può. Prima della pace di Villafranca, parecchî tra noi protestarono contro il commettersi de' nostri fati alle armi straniere e ad armi dispotiche: sapevamo d'antico che nessuna Unità Nazionale s'era fondata a quel modo, e la subita pace, e lo smembramento di Nizza e Savoja vennero poi a giustificare l'antiveggenza. Dopo la pace di Villafranca, appena l'emancipazione Italiana rimase opera di menti e braccia Italiane, anche quei che non avevano fatto se non astenersi, senza badare alla bandiera che padroneggiava il moto, s'affrettarono a unirsi. Il programma monarchico di Garibaldi fu il loro. Le file di Garibaldi son piene di repubblicani. Essi pugnano, vincono, muojono lietamente sotto di lui. prima dopo l'infausta pace escì dalle loro labbra altro grido che quello dell'Unità; di quella Unità alla quale i loro tentativi, i loro scritti, le loro associazioni, i loro martiri, avevano educato l'Italia. Ovunque fu pericolo onorato da corrersi per promoverla, furono. La sola sfera nella quale i loro nomi non si trovano più che rari è quella degli impieghi lucrosi. Sdegnati, calunniati, respinsero le calunnie senza una parola che riconducesse l'antica questione sul campo. Perseguitati, oggi sorrisero, e il dopo giovarono, come fu loro dato, alla causa della Patria e dell'Unità. I più tra loro promossero, stimandola giovevole, l'annessione combattuta delle provincie del Centro. Taluni si tennero, in Toscana segnatamente, a contatto col Governo per rassicurarlo e appoggiarne più validamente le mosse, quando tendessero all'Unità. Io che scrivo dichiarai sull'onore e pubblicamente che se mai nuovi smembramenti di terra Italiana, o il rifiuto deliberato dell'Unità da parte dei reggitori ci riducesse, disperati da altre vie, alla nostra vecchia bandiera, noi lo annunzieremmo anzi tratto con la stampa agli avversi.

Può un Partito dar pegni più solenni di questi? Può spingersi più oltre, per amore della concordia, l'abnegazione? Può la riverenza alla sovranità dell'opinione Nazionale esigere altro da noi?

Il Popolo d'Italia, lasciato alle proprie aspirazioni, non traviato da calunnie, risponderebbe: non può. I raggiratori che strisciano intorno alla piramide del potere vorrebbero di più. Diseredati di fede e veneratori materialisti dell'opportunità e della forza, essi vorrebbero rapirci la nostra. Non basta ad essi che da noi si chini riverente il capo alla sovranità dell'opinione dei più; vorrebbero che, dichiarando di avere errato nel passato, noi ci dicessimo credenti nella fede monarchica. Vorrebbero che non fossimo accettatori, ma propugnatori della dottrina che in oggi domina. Non lo vogliamo, lo possiamo. La nostra è fede; possiamo tacerla per un tempo, rinunziare ad ogni tentativo d'attuarla; non rinnegarla e dirla falsa per l'avvenire.

ribelli, apostati; in queste parole si compendia la nostra condizione dell'oggi. Non possiamo andare d'una linea più in . Essere cittadini non significa per noi cessare d'esser uomini.

Cittadini onesti e leali accettiamo, purchè guidi all'Unità della Patria, la monarchia dal consenso dei più: non tentiamo di sostituire alla sua bandiera la bandiera repubblicana. Che volete di più? Abolire la coscienza? Siate allora inquisitori e tiranni: non vi fregiate del santo nome di libertà.

La libertà esige la coscienza della libertà. Volete servi, non liberi alleati all'impresa? Raccoglierete una menzogna di libertà e nuova servitù poco dopo. Preferireste averci cortigiani, ipocriti e gesuitanti, all'averci cooperatori leali e salvo il pudore dell'anima, salva la dignità d'uomini in noi? Qual pegno avreste del nostro non tradirvi domani?

Movendo all'emancipazione delle Marche e dell'Umbria - emancipazione che voi dichiaravate inopportuna e pericolosa cinque giorni prima di compierla colle armi vostre - noi inalzavano la bandiera dei tre colori d'Italia, senza lo stemma Sabaudo. Con qual diritto avremmo noi, pochi iniziatori e semplici cittadini, detto alle popolazioni alle quali imprendevamo di portar libertà: noi vi ajutiamo a patto di padroneggiarvi? Non dovevamo aspettare che la volontà dei nostri fratelli, come altrove, si dichiarasse?

Non rimase la bandiera pura d'ogni stemma in Toscana, prima che il voto popolare dell'annessione si rivelasse? Inalzarono altra bandiera che l'Italiana gl'insorti della Sicilia, quando per sei settimane Rosalino Pilo e i compagni di lui tennero vivo, aspettando Garibaldi, il combattimento? Perchè voler noi, noi soli repubblicani, usurpatori della Sovranità del Popolo? Non bastava a voi la promessa che il nostro grido repubblicano avrebbe taciuto? che avremmo accettato il vostro vessillo dal primo libero Municipio che l'avrebbe - e non v'era dubbio - inalzato? Perchè pretendere che ci mostriamo in sembianza d'iniziatori monarchici? Perchè l'Italia impari a rigenerarsi convincendosi che non v'è partito entro i suoi confini capace di non vendere o calpestare la propria fede, e nondimeno capace di sacrificarne la realizzazione immediata all'opinione dei concittadini e all'Unità della Patria?

Scorrete le file dell'esercito di Garibaldi. , tra quei forti che numerano i giorni con le battaglie, voi trovate il repubblicano a fianco dell'uomo della monarchia. Nessuno diffida del compagno, nessuno sospetta ch'egli covi un pensiero d'insidia nell'anima. Perchè non è lo stesso nei ranghi della vita civile? Perchè non potremo parlare di Patria e Unità, senza che voi diciate: intendono parlare di Repubblica?

apostati, ribelli. Noi, serbando fede al nostro ideale, ci serberemo il diritto di non apporre il nome nostro in calce d'inni monarchici; di non dire oggi ai nostri concittadini: vogliamo che siate Regî e non altro; di esprimere pacificamente, conquistata l'Unità della Patria, davanti al Paese le nostre credenze; d'astenerci dagli ufficî che altri si contenderanno; di ripigliare taluni fra noi la via dell'esilio. Oggi chiediamo di essere ammessi, senza calunnie, senza sospetti villani, senza interpretazioni maligne date ad ogni nostra parola, senza testimonianze d'ingratitudine - che a noi, securi nella coscienza, importano poco, ma che disonorano la Patria nostra - a lavorare noi pure per l'Unità, a combattere qualunque straniero o italiano la avversi, lasciando al Popolo ogni decisione sulla forma che deve incarnarla.

Ma il diritto di lavorare per l'Unità importa diritto di consiglio; e di questo intendiamo usare liberamente quant'altri, come uomini ai quali l'Italia è patria, e che hanno operato costantemente a fondarla.

Non vi è tra noi contesa sul fine dell'oggi; accettiamo tutti il voto della maggioranza; la contesa è sui mezzi di raggiungere sollecitamente l'Unità che tutti vogliamo. Su quel terreno comincia il dissenso. Chi pretende impedirci di esprimerlo è intollerante, esclusivo, settario: continua, con nomi diversi, il sistema dei padroni che i nostri sforzi hanno rovesciato.

Chiediamo libertà per dire, non che la Repubblica è il migliore de' Governi, ma che noi, 25 milioni d'Italiani, dobbiamo essere in casa nostra padroni; che possiamo esser tali se tutti lo vogliamo; che la nostra libertà sta sulla punta delle nostre bajonette e nella ferma determinazione delle anime nostre, non nei consigli o nei cenni di Francia o delle Aule diplomatiche; che volerla far dipendere dal beneplacito di Luigi Napoleone, o d'altri che sia, è un prostituirla, un immiserirla anzi tratto, un metterci a rischio di perderla nuovamente, dichiarandocene immeritevoli.

Chiediamo libertà per dire che, tra il programma di Cavour e quello di Garibaldi, scegliamo il secondo: che senza Roma e Venezia non v'è Italia; che, eccettuata la guerra del 1859, provocata dall'Austria e sostenuta, a prezzo di Nizza e Savoja, dall'armi dell'Impero francese, eccettuata l'invasione delle provincie Romane, provocata da noi, dalla necessità che creammo noi, nessuna iniziativa d'emancipazione Italiana appartiene al programma Cavour; che Roma e Venezia rimarranno schiave dello straniero, se l'insurrezione e la guerra dei volontarî non le conquistano a libertà.

Chiediamo libertà per dire che non si fonda la Patria libera ed una annettendo una od altra provincia al Piemonte; ma confondendo Piemonte e tutte provincie dell'Italia in Roma, che n'è core e centro; che l'annessione immediata delle provincie conquistate a libera vita, ponendole sotto il dominio del programma di Cavour e sottraendole a quello di Garibaldi, arresta il moto, toglie le forze del Paese dalle mani di chi vuole usarne, per darle a chi vuol condannarle all'inerzia, e cancella per un tempo l'idea dominatrice.

Chiediamo questo e non altro. Confutateci, ma non calunniate. Non ripetete sempre, stoltamente o di mala fede, che noi lavoriamo ora per la Repubblica, quando taciamo di Repubblica da due anni. Non v'ostinate a giudicarci senza leggerci. Non ripetete, servi ciechi di ogni gazzetta ministeriale, affermazioni smentite cento volte dai fatti. Non aizzate contro noi perfidamente con la menzogna le passioni di un Popolo che deve a noi in gran parte quanto ei sente, quanto ha conquistato della propria Unità. La menzogna è l'arte dei tristi codardi. La credulità senza esame è abitudine d'idioti.

 





297 Dall'Unità Italiana del 29 settembre 1860.



«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License