Giuseppe Mazzini
Scritti: politica ed economia
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VOLUME SECONDO PENSIERO ED AZIONE.

SCRITTI SUL MEDESIMO PERIODO

LETTERE D'UN ESULE AGLI EDITORI DEL DOVERE.

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LETTERE D'UN ESULE

AGLI EDITORI DEL DOVERE.

 

....Odo che soldati Italiani s'incamminano alla frontiera. Nel Bergamasco, sui gioghi del Tonale e dello Stelvio, ai passi che guidano al nostro Trentino, occupato anch'oggi dagli Austriaci, scintillano addensate bajonette di bersaglieri, dei bersaglieri che pugnarono e vinsero - al grido di Viva Italia! - le battaglie destinate ad affrancare la Patria dall'Alpi all'Adriatico. Perchè questi moti? Hanno quei che imperano sull'Italia sorgente sentito finalmente il debito loro? Ha la guerra eroica che si combatte contro la prima potenza militare d'Europa da giovani, in campo senza base, senza unità di disegno, senz'ordini e quasi senz'armi, insegnato agli uomini della Monarchia ciò che può chi vuole davvero, e additato ad essi, schiusa senza gravi pericoli di disfatta, la via dell'onore e della salute d'Italia? Hanno quelli uomini che ci susurrano da tre anni all'orecchio: aspettate sei mesi e vedrete - scossi dal grido di quei combattenti, taluni dei quali versarono sangue per la nostra libertà a fianco dei nostri bersaglieri, e che suscitano oggi un entusiasmo promettitore in tutte le frazioni del Partito Nazionale d'Italia - indovinato che il momento è sorto; che, afferrandolo spontanei, possono forse ancora, riaffratellare le moltitudini a una instituzione cadente, che la guerra all'Austria, la guerra pei nostri fratelli Veneti, la guerra per le nostre Alpi, è oggi facile, opportuna, invocata, e collocherebbe d'un balzo l'Italia a capo della guerra delle Nazionalità conculcate? Dite, oh ditemi, saremo redenti? Cancelleremo con battaglie nostre tre anni di meschine incertezze e di concessioni alla Dea Paura? Saluteranno finalmente i poveri Veneti, nei bersaglieri italiani, i loro liberatori?

Il moto Polacco è moto iniziatore di quello d'una intera famiglia Europea; i vostri uomini di governo lo sanno. Il moto Polacco è, non solamente nazionale, ma Slavo. Un'anima sola, un solo pensiero, inspirano il Governo segreto dell'Insurrezione Polacca e la vasta Associazione Terra e Libertà Russa, Pietroburgo e Varsavia. Costringendo i Polacchi all'azione quattro mesi prima del tempo prefisso, scegliendo alla battaglia, ch'ei presentiva inevitabile, il tempo e l'ora, lo Tsar ha potuto scindere la manifestazione del disegno comune, non arrestare il lavoro che si stende rapidamente. E quel lavoro non si limita alla Polonia insorta, alla Russia cospiratrice: abbraccia i Polacchi della Posnania e della Galizia, i Cecki di Boemia e Moravia, gli Slavi Meridionali della Bosnia, dell'Erzegovina, del Montenegro, della Voyvodina serbo-austriaca, della Serbia. E la Serbia, ordinata, armata, presta all'azione, avrebbe seguaci al suo moto quattro milioni di Bulgari. E il moto degli Slavi del Sud trascinerebbe in Tessalia e in Epiro gli Elleni, in Bessarabia e nel Banato i Rumani. E l'Ungheria, Magiara e Slava, non aspetta a levarsi se non un assalto all'Austria, da dove che venga, e l'insurrezione Serba alla propria frontiera. Sono due Imperi, l'Austriaco e il Turco, minati per ogni dove, ribelli in ogni elemento e pendenti da una iniziativa subita, ardita. Or questa iniziativa spetta all'Italia; all'Italia forte di ventidue milioni d'abitanti e verso la quale, per virtù dei fati che sono in essa, si rivolgono le speranze di tutti i Popoli oppressi. Poche navi nell'Adriatico, centomila uomini che movano di fianco al quadrilatero su Venezia, trentamila volontarî cacciati all'Alpi, Garibaldi in lettiga, come il cieco Ziska nelle battaglie degli Ussiti, tra essi, bastano a sommovere tutta quella moltitudine d'elementi, bastano a trasformare la carta d'Europa. La Polonia e l'Italia tengono i due poli d'un asse che si prolunga dal Baltico fino all'Adriatico. E questa nostra Patria, alla quale per essere grande fra tutte non manca se non coscienza delle proprie forze, può, volendo, strozzare in sul nascere, com'Ercole in culla, il serpente del dispotismo europeo. L'Austria lo sa: i vostri uomini di governo lo sanno. L'Austria ha fatto prova di tolleranza verso i Polacchi in Cracovia a impedire, a indugiare almeno il moto in Galizia, e a illuder gli insorti tanto che non escisse da essi una chiamata all'Ungheria e agli Slavi meridionali. I vostri uomini di governo hanno cospirato, a modo loro, e cospirano col principe Michele e coi capi del Montenegro; sanno da essi le condizioni alle quali accenno. Perchè non coglierebbero l'opportunità cacciata loro innanzi dal Partito d'Azione in Polonia? Perchè i battaglioni di fanteria e di bersaglieri ch'essi mandano affrettatamente in Valtellina, a Vestone, a Sarnico, altrove, non avrebbero incarico di piombare sopra un nemico minacciato all'interno su tutta la linea, e d'inalzare la bandiera dell'insurrezione Veneta, e di lavare a un tratto l'onta di Villafranca?

 

No; l'onta di Villafranca non sarà lavata, la Polonia non avrà gli ajuti del Governo Italiano, i Veneti rimarranno per non so quanto condannati a pascersi d'illusioni. I vostri giornali governativi rivelano senza vestigio di rossore il segreto di quelle mosse. L'armi italiane scintillano ai gioghi dell'Alpi per proteggerle contro noi, contro tentativi possibili, a pro dei poveri Veneti, degli uomini che liberarono il Mezzogiorno d'Italia. I vostri bersaglieri sono collocati di fronte agli Austriaci per difenderli da ogni assalto italiano, come i zuavi di Francia difendono in Roma il Papa. Dormite tranquilli, Croati: i soldati d'Italia guardano i passi per voi. I sogni di gloria degli uomini che li mandano non vanno al di d'un secondo Aspromonte.

Ma perchè? Perchè, tremanti d'ogni straniero, taciti davanti al perenne insulto dell'occupazione di Roma, incapaci d'una deliberazione ardita a pro di Venezia e servi anche oggi, quando un Popolo di ventidue milioni è con essi, della timida, lenta, obliqua politica piemontese, sorgono audaci e rapidi nei propositi contro ogni supposta mossa di cittadini, e trovano coraggio d'azione ad ogni sospettare di spia che accenni a generose aspirazioni negli Italiani? Perchè questi uomini, che a fronte di due anni di guerra ordinata, alimentata da Roma Papale, non osano dire agli invasori francesi: sgombrate la base d'operazione del brigantaggio, diventano a un tratto energici per proteggere l'usurpata frontiera dell'Austria? Perchè, se sospettano che i nostri fratelli dell'Alpi pensino a insorgere, si frappongono in armi fra essi e noi, quasi a dir loro: rimarrete soli e senza il menomo ajuto dai vostri? Vogliono Roma, o preferiscono che duri indefinitamente un mortale pericolo all'Unità? Vogliono Venezia libera o serva? Che importa ad essi s'altri si avventuri a tentare l'impresa che è da tre anni debito loro? Qual rischio corrono? Non son certi di cogliere per ora i frutti dell'altrui vittoria? Non hanno presta, nel caso dell'altrui disfatta, la discolpa - e ne userebbero largamente - delle persecuzioni sui vinti? Perchè, se intendono a fare l'Italia, non salutano in core, non si tengono presti a seguire, dove il successo la coroni, l'iniziativa di popolo, che sola può cominciare la lotta emancipatrice? Che mai sperano, se non dall'azione? Non vedono essi che nell'azione è oggi l'unico argomento potente a convalidare il Diritto? Non vedono l'Europa intera agitarsi a pro della Causa rappresentata dalle bande Polacche? Perchè antepongono il silenzio e l'inerzia alla generosa protesta in nome della quale soltanto essi potrebbero dire all'Europa: o riconoscimento del Diritto Italiano o rivoluzione? Sono essi inetti o tradiscono? Vogliono l'Unità d'Italia, che sola l'insurrezione può darci, o accarezzano tuttavia nel segreto il pensiero di confederazione, che il loro Cavour accettava da Luigi Napoleone in Plombières?

Sono inetti e tradiscono. Tradiscono, non dirò del tradimento volgare che inganna deliberatamente - perch'io non so le intenzioni e quindi non le accuso - ma del tradimento perenne, ineluttabile, egualmente funesto, di chi si assume un ufficio senza possedere uno solo degli elementi necessarî a compirlo. Vorrebbero Roma, vorrebbero Venezia - a chi non sorriderebbe l'acquisto della doppia gemma? - ma le vorrebbero dall'Austria, dalla Francia, dalla Diplomazia, da concessioni codarde e fatali al futuro, da mercati colpevoli verso altri Popoli, da interventi disonorevoli, da ogni Potenza, da ogni raggiro, fuorchè dall'Italia e dalla franca, leale, diretta, morale Politica, che dice: son mie; Dio le dava all'Italia: il Popolo Italiano compie i voleri di Dio. Hanno sognato d'avere Venezia allettando l'Austria a impossessarsi delle terre Moldo-Valacche, coi capi delle quali ricambiavano intanto proteste d'amicizia fraterna: sognano d'averla ajutando un giorno l'Austria nella conquista dell'egemonia Germanica, la Francia in quella delle provincie Renane; e, quanto a Roma, l'aspettano - Cavour lo dichiarava, applaudito alla Camera - dalla conversione del Papa e di tutto l'orbe cattolico. Erano pronti, per avere tre anni addietro Venezia, ad abbandonare ai disegni napoleonici il Centro; abbandonerebbero oggi, per aver Roma, il Mezzogiorno d'Italia. Fiacchi sino al ridicolo, mandarono elucubrazioni rettoriche al Papa, che l'alleato non consegnò. Condannati dall'assenza d'ogni concetto a rinascenti contraddizioni, proclamarono la vuota formula libera Chiesa in libero Stato con uno Statuto il cui primo articolo dichiara il Cattolicesimo religione officiale della Nazione: bandirono solennemente il Diritto del Paese a Roma, poi annunziarono che s'asterrebbero da ogni pratica per tradurre il diritto in fatto, e si tacquero. Da due anni il Papa ha praticamente dichiarato guerra al Regno d'Italia; da due anni escono da Roma, fatta convegno aperto di cospiratori protetti dalle bajonette francesi, bande armate di masnadieri a infestare le provincie meridionali; ed essi si limitano a una impotente difesa. Leggono nel preventivo Francese del 1864 mantenuta la cifra che rappresenta le spese dell'occupazione, e non trovano in coraggio che basti, non foss'altro, a protestare pubblicamente davanti all'Europa e chiederle l'onesta applicazione del non-intervento; e - forti del favore dell'Inghilterra e dei Popoli quanti sono - non hanno core, dacchè guerra non osano, di dire almeno a tutti, Papa, Francia, Governi e Popoli: «Lo straniero occupa ad arbitrio la nostra Metropoli e una zona di frontiera della nostra terra; l'Europa è inerte; il Diritto è muto per noi; l'azione legale ci è contesa: noi lascieremo aperta la via ai rimedi anormali. Collocati fra l'usurpazione altrui e il diritto dei nostri, lascieremo ai nostri libertà d'azione contro l'ingiustizia dalla quale nessuno protegge l'Italia. Se alle invasioni delle masnade che vengono da Roma i cittadini risponderanno invadendo essi pure, non ci opporremo; se, a sottrarsi al continuo pericolo d'una irruzione dell'Austria, tenteranno sommovere il Veneto e conquistarsi la frontiera dell'Alpi, non ci opporremo; e nol potremmo senza pericolo. Date giustizia all'Italia, o rassegnatevi ad avervi un foco perenne di rivoluzione.» Quel linguaggio, appoggiato da quattrocento mila bajonette, ci darebbe Venezia e Roma in tre mesi.

Ma per tenere linguaggiofatto bisogna avere una fede, ed essi non hanno che opinioni mutabili, tiepide, incerte; bisogna credere nelle forze che sono in Italia, ed essi si credono deboli e s'affaccendano a dirlo agli stessi loro soldati: bisogna credere nella potenza del Diritto, ed essi non credono che nel raggiro, negli artificî della diplomazia; bisogna avere la scienza, l'intuizione che crea l'avvenire, ed essi non giurano se non nella scienza delle epoche morte; bisogna intendersi colle Nazioni vogliose di sorgere, ed essi cospiravano con Ottone e cospirano con Michele; bisogna osare, ed hanno paura; bisogna amare ed essere amati, ed essi non sono amati e non amano; bisogna fare una cosa sola del Governo e del Popolo, ed essi hanno creato e mantengono un dualismo sistematico fra l'uno e l'altro; bisogna desiderare, evocare, occorrendo, una iniziativa dalle viscere del Paese e giovarsene come di punto d'appoggio alla leva, ed essi, incapaci d'azione propria, aborrono, per timore del futuro, da ogni iniziativa popolare, aborrono dalla possibilità che il Popolo acquisti coscienza della propria forza, aborrono dal passato che grida loro: Marsala e Napoli; aborrono dall'avvenire che direbbe loro: Trento o Treviso: bisogna fare, promovere, inspirare, dirigere, progredire, ed essi non sanno altro segreto che di negare e reprimere. Hanno raggiunto l'ideale della repressione, quando, invece di velarsi il capo e gemere come per lutto nazionale, mandavano, otto mesi addietro, un brevetto di promozione all'uomo che versava, sulla via di Roma, il sangue di Garibaldi; raggiungevano, pochi sono, l'ideale della negazione, quando, per timore dell'Austria, negavano nome e qualità d'Italiani ai romani e ai veneti. Perchè meravigliare se mandano fanteria e bersaglieri contro ipotesi di tentativi emancipatori - se dicono ai Croati: dormite tranquilli; i soldati d'Italia guardano i passi per voi?

Negare e reprimere: è la formula dei Governi che cadono. I Popoli vogliono vivere, vivere della vita divina ch'è in essi e si chiama Progresso: i Popoli che sorgono a vita nuova, segnatamente. Una nazionalità è un fine, un ufficio, una missione, un Dovere collettivo accennato da Dio: bisogna raggiungere quel fine, compiere quel Dovere: ogni sosta sulla via segnata costa disonore, poi lagrime e sangue. Il Popolo ha l'istinto di questo Vero. Dove si sente guidato innanzi, dove trova sviluppo incessante, espansione di vita sulla via per la quale è chiamato, dove scopre negli atti una virtù iniziatrice, il Popolo saluta una Instituzione, un Governo. Si chiami Dittatura, Monarchia, Impero o Papato, il Popolo segue e protegge: seguiva i Papi quand'essi promovevano, nei primi secoli, l'emancipazione degli schiavi, insegnavano che la Morale era suprema su tutti, padroni e sudditi, e opponevano la parola religiosa Dovere all'arbitrio, alle usurpazioni dei re: seguiva Richelieu e Luigi XI, quando la loro tirannide combatteva il feudalismo e mozzava nel capo la gerarchia dei baroni di Francia: seguiva Napoleone, quand'ei, nella prima metà della sua carriera, rappresentava colle bajonette una idea d'Eguaglianza, e lasciava dietro ogni mossa un Codice, imperfetto ma contenente il riconoscimento dei diritti civili negati dalla aristocrazia, da principi e papi. Dove cessa l'iniziativa del Progresso da compiersi - dove l'Instituzione non rappresenta più il moto, la vita - dove il Governo assume per proprio simbolo il segno d'una quantità negativa, per propria teorica una teorica di repressione, per proprio ufficio quello di conservare e impedire - il Popolo intende che una sintesi è consumata, che la vitalità d'un principio è esaurita, che una forma è irreparabilmente logora, e si volge altrove.

Allora comincia uno spettacolo che la Storia ci addita dieci volte negli ultimi settanta anni. Da un lato, diffidenza e speranza; dall'altro diffidenza e paura. Il Popolo pende, per un tempo, incerto, perchè dubbioso dell'avvenire, ignaro di chi lo guidi, avverso timidamente all'autorità che lo regge, sospettoso della futura. Quei che siedono al governo interpretano quella incertezza come noncuranza, impotenza o mancanza di coraggio, e s'illudono a persistere nel loro funesto sistema: i corrotti nell'anima fiutano il guasto e s'affrettano a cogliere i frutti dell'albero che domani forse rovinerà: i tiepidi, che son pur sempre i più numerosi, si ravvolgono, come chi presente tempesta, nel manto dell'io, s'astengono da ogni atto virile, da ogni affermazione di vita, e prolungano le illusioni e la crisi alla quale, dichiarandosi, imporrebbero fine rapidamente: i buoni, ma fiacchi, disperano: i buoni arditi, credenti e non curanti di conseguenze per , inalzano, incerti anch'essi da principio e arrendevoli ad ogni transazione onorevole, la bandiera dell'avvenire. Contro questa minoranza perturbatrice d'una illusione fatta abitudine, il Governo s'irrita, e tende a sopprimerla quasi eresia violatrice del dogma. Incomincia una guerra, sorda dapprima, di spionaggio, d'insidie, d'accuse calunniatrici, di tentativi di corruzione che trionfano su taluni, falliscono sugli altri, e li rendono più sempre convinti che l'Instituzione è guasta e condannata a perire; poi, d'aperta crescente persecuzione: persecuzione contro le facoltà più inviolabili, più indivisibili dall'umana natura, l'associazione, l'espressione libera del pensiero. La resistenza infierisce quella minoranza d'apostoli che, sgominata sopra un terreno, si riordina sopra un altro, muta forme d'opposizione, mina segretamente il punto che essa non può assalire di fronte, stanca con piccoli ma continui assalti il nemico e lo trascina più in ch'esso, per tattica, non vorrebbe: di conservatore il Governo diventa finalmente retrogrado. Il Popolo intanto studia tacito i segni e le vicende di quella guerra, comincia a leggere sulla fronte di quei perseguitati il proprio segreto, afferra nel martirio affrontato nobilmente da pochi un pegno delle schiette sincere intenzioni di quei che piantano la bandiera sulla loro tomba, e accenna ad affratellarsi. Di fronte al primo pericolo i sostenitori dell'Instituzione minacciata si dividono in due campi; nell'uno, gli eclettici del Partito, quanti in fondo cominciano a dubitar del trionfo, tentano conciliazioni impossibili fra termini che s'escludono, si studiano di sopprimere l'ostilità d'alcuni fra gli elementi progressivi, aprendo loro un angusto varco al sacrario dell'Autorità, offrono transazioni impotenti a fondar la concordia, dànno promesse di meglio che non possono mantenere: nell'altro, si ristringono i cupidi d'autorità senza limiti, gl'intolleranti per natura o educazione di corte, gli uomini che hanno il coraggio inferocito della paura, i pochi ingegni logici che deducono imperturbabili tutte le conseguenze del loro principio. Dal primo campo esce presto o tardi, inevitabile conseguenza del difetto di forte convincimento, uno spettacolo d'immoralità che sparge lo scredito sulla bandiera; dal secondo esce una perenne minaccia di crisi violenta, che accende le passioni dei combattenti e comincia a far sentire ai tiepidi i pericoli d'una condizione precaria e anormale. Il malcontento s'allarga alla base. Il Governo, pauroso e irritato dai nuovi pericoli, smarrisce anche quella apparenza di calma e di coscienza di forza che accennava ancora, nella mente del Popolo, a una Autorità esistente in esso, e da quel giorno è perduto; da quel giorno comincia per esso uno stadio fatale, sul quale anche una vittoria è rovina. Se il Potere s'afforza d'armi e accarezza il militarismo, diffonde sdegni e sospetti funesti negli ordini cittadineschi; se cerca appoggio in uno o altro Governo straniero, offende l'orgoglio nazionale e si confessa separato dalla vita della Nazione; se infierisce nella resistenza, è aborrito come tirannico; se accenna a concedere, sprezzato siccome debole. Un giorno, gli uomini del campo logico si avventurano a un tentativo imprudente, a una tarda illegale manifestazione di forza; gli uomini del campo eclettico si sperdono, come sempre usano, per vie diverse; le frazioni nelle quali le vanità individuali aveano diviso, nella sfera intellettuale, il campo d'azione, si raccolgono tutte di fronte all'assalto nemico. L'Europa ascolta un rumore come di cosa che rovina. È una Instituzione caduta, trapassata alla vita storica. Un'altra sorge in sua vece. Il Popolo ripiglia, emancipato, la propria via verso il fine.

È questa una pagina di storia ripetuta sovente negli ultimi due terzi di secolo in Francia, in Germania, nel Belgio, in Grecia, nella Spagna.

A quale linea della pagina siamo oggi in Italia?

 

Aprile, 1863.

 

Giuseppe Mazzini.


 

 

 


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