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I MONARCHICI E NOI
La guerra vigliacca e sleale, combattuta dagli uomini di parte monarchica contro gli uomini di fede repubblicana, ci conforterebbe sulla via, se guardassimo soltanto a noi e al trionfo della nostra bandiera. Un Partito che spende metà della sua polemica a dichiararmi morto per sempre e senz'ombra d'influenza in Italia, e l'altra a provare ch'io minaccio di porre l'Italia a soqquadro, e chiamare il Governo a vegliare e reprimere energicamente: - che, a farci avversi i soldati italiani, ci accusa di chiamarli sgherri, e manda a un tempo circolari segrete per impedire disegni nostri di seduzione sull'esercito; - che consacra periodicamente dieci colonne delle sue gazzette a dimostrare che noi aggiriamo Garibaldi e ne inspiriamo le mosse, e dieci a dichiarare che Garibaldi non è con noi, che noi ne usurpiamo il nome, ch'ei non divide alcuna delle nostre aspirazioni - si condanna deliberatamente ad essere ridicolo. Un Partito - partito governativo, e quindi potente d'influenza, di pubblicità, di prestigio su quanti adorano il fatto - che non trova contro noi individui, pochi, dicono, e di certo con pochi mezzi d'apostolato e d'azione, altr'arme che la calunnia; - che ripete a ogni tanto, contro ogni evidenza storica, che i repubblicani vogliono sangue e rapina; - che non discute, ma insulta; - che non cita mai ciò che si scrive da noi, ma insiste a confutare fatti e detti, provati non nostri; - che ammette falsarî nelle sue file; conia in Torino una circolare, v'appone il mio nome, la manda, perchè s'inserisca, a una gazzetta austriaca, tradisce stolidamente, per gioja insana della propria colpa, il segreto, annunziandola prima dell'inserzione, e la commenta oltraggiosamente, quasi fosse documento storico, il giorno dopo - è partito indegno del nome, e condannato a perire. Una Nazione non può lungamente acquetarsi ad essere guidata da gente immorale.
Ma davanti a questo avvicendarsi di basse calunnie anonime e di villanie; davanti a questa danza d'iloti briachi, che s'intitolano moderati, è impossibile non sentirsi, anche sprezzando, rattristato nell'anima. Quella stampa è pur sempre stampa italiana: italiani son gli uomini che la insozzano di contumelie, italiani gl'insultati da essi. Quelle tristi gazzette viaggiano all'estero, rappresentano agli occhî di molti la politica, le tendenze del Regno, somministrano una base ai giudizî stranieri su noi. «Che!» - dicono quegli uomini, i quali studiano attenti, come oracoli del futuro, i nostri detti, i menomi fatti del nostro sorgere - «volete essere rispettati, e non sapete rispettarvi fra voi? Vi dichiarate capaci di libertà, e la violate, fin dai primi passi, coll'odio? Volete giustizia, e vi presentate per meritarla colla veste dei calunniatori? Invocate progresso, e l'espressione d'ogni opinione diversa dalle vostre v'irrita sino al furore? Taluni fra i perseguitati d'intolleranza da voi ci son noti da lungo: possiamo dividere o non dividere tutte le loro opinioni; ma li sappiamo onesti, profondamente convinti e devoti - senza fini individuali - a una idea. Confutateli, ma non li oltraggiate. L'inviolabilità del pensiero è madre della Libertà; sua primogenita è la tolleranza reciproca.» E cominciano a guardare, con un senso di suprema sfiducia, all'agitarsi di un Popolo che chiede Unità di Nazione, e tinge a danno dei proprî figli, la penna di fiele, e calunnia le intenzioni, e cancella - o lo tenta - la sacra indipendenza delle diverse credenze.
E tra noi? Ah! qual cumulo di rimorsi dovrebbe opprimere un giorno - se i coniatori di circolari potessero esserne capaci mai - l'anima di questi gazzettieri monarchici che diffondono l'immoralità della menzogna e dell'odio; versano nel core dei giovani, in un Popolo nascente alla Libertà, la diffidenza, lo scredito sul principale stromento d'educazione, la Stampa; e irritano colla persecuzione e coll'intolleranza le passioni vendicatrici e di ribellione contro l'ingiustizia, dove non bisognerebbe che seminar l'amore e la riverenza alla libera discussione! Pochi tra noi vi sanno inetti, più che settari avveduti e calcolatori; d'anima volgare e meschinamente invida, più che profondamente malvagia; irritabili e collerici per natura di fiacchi; adoratori ciechi, per difetto di fede, d'ogni fatto che appaja potente, e servi ad ogni potere confortato di bajonette e d'erario. Sanno che schiamazzaste, prima del 1859, maledizioni, poi adulazioni schifose al Bonaparte; inni, finchè vinse, a Garibaldi, come anch'oggi al re-mito, a Cavour, a Ricasoli, a Rattazzi, a Minghetti, a chi no? Schiamazzereste300 a noi se vincessimo; però essi vi guardano sorridendo, e vi vedrebbero, stringendosi nelle spalle, mutar linguaggio e mendicare interpretazioni di progresso all'antico, il dì che fosse mutata l'instituzione. Ma gli altri? I non educati dalle lunghe delusioni e dallo studio severo delle umane cose a tollerare e compiangere? A giudizî ingiusti non opporranno giudizî ingiusti, alle calunnie ribellione d'accuse appassionate e violenti? V'odono a insinuare che uomini, la cui vita intera fu culto quasi esclusivo dell'Unità Nazionale, sono oggi affratellati con fautori di moti autonomisti locali o retrogradi: perchè non crederanno voi, lodatori dello sgoverno che minaccia strapparci le provincie meridionali, affiliati consapevoli al disegno di smembramento, persistente nel Bonaparte? Vi vedono imprigionare uomini che patirono per la patria, come Rosario Bagnasco, lunghi anni d'esilio e, a cercar d'infamarli, confonderli coi camorristi: perchè non infameranno voi come pagnottanti e venditori della vostra coscienza agli agî o alla vanità del potere? Così voi alimentate, imprudenti, una guerra ch'oggi è d'oltraggi, domani può essere di sangue; voi falsate il senso morale della Nazione; convertite in fiaccola seminatrice d'incendî la luce che dovrebbe escire, serena e fecondatrice, dall'esame dei diversi concetti; insegnate ai giovani l'intolleranza, e radicate nei cuori la funesta massima, che tutti i mezzi son buoni a spegnere gli avversarî! Dio tolga che un giorno non abbiate a pentirvene!
Or noi non v'abbiamo dato l'esempio. La nostra polemica contro voi può essere acerba, sdegnata, sospettosa talora; non fu mai deliberatamente calunniatrice. Noi non coniammo circolari, citiamo le vostre; citiamo documenti firmati da ministri vostri, citiamo lettere di Roverbella, ragguagli dati da agenti officiali stranieri, che vi provano presti ad abbandonare chi si dà a voi, presti a transigere sull'onore italiano collo straniero, presti a combattere, per ossequio a un despota potente o avversione innata all'azione popolare, chi ha fatto, per l'illusione di concordia, sacrificio d'ogni idea più cara, ma non può sacrificarvi l'Unità della Patria. Noi vi rimproveriamo gli impotenti metodi di terrore spiegati nel Mezzodì dell'Italia; condanniamo le fucilazioni lasciate ad arbitrio di militari, cacciati a un tratto in paesi ove ignorano uomini e cose e devono commettere inevitabili errori, non le inventiamo: voi avventate, insistenti, contro noi l'accusa di sanguinarî, quando sapete che, da un unico vecchio e severamente biasimato esempio francese infuori, voi non potete citare un solo atto di feroce arbitrio, commesso da quei che reggono le repubbliche Svizzere, o ressero le brevi repubbliche di Roma e Venezia. Voi accusate sistematicamente le nostre intenzioni; noi registriamo fatti continui di guerra all'Associazione e alla Stampa, stati d'assedio, imprigionamenti di deputati, rifiuto di cittadinanza agl'italiani romani e veneti, paci disonorevoli, alleanza servile con chi occupa a forza quella che voi proclamaste a parole vostra Metropoli; Nizza, Savoja, Aspromonte. Stringete in una tutte le nostre polemiche: esse sommano a dirvi, che voi non adorate un principio, ma servite a una precaria opportunità: che, per documenti firmati da voi, voi non foste nè siete gli uomini dell'Unità Nazionale, ma sapete talora giovarvi, fin dove non si frappone il divieto straniero, dell'opera di quei che son tali: che non avete nè avrete mai virtù iniziatrice: che non siete pianta indigena in Italia, ma innesto: che non amate il Popolo e ne temete, e siete quindi e sarete trascinati fatalmente ad avversarne la Libertà: che non avete nè tradizione, nè vita vera nell'oggi. Confutateci, se potete; ci avrete vinti: perchè noi, dissimili dai vostri sostenitori, non cerchiamo altro terreno che questo.
Io conosco un Paese - ed è il solo - dove la Monarchia ha tuttora radici inviscerate colle tendenze, colle idee, colla vita storica della Nazione. È l'Inghilterra. Là, la Costituzione non escì improvvisata, strappata dalla paura, in un angolo del paese; crebbe spontanea per opera lenta di secoli, colla potenza collettiva, col naturale sviluppo degli elementi innestati dalla conquista sugli elementi anteriori. La Monarchia compì una missione, frapponendosi tra la tendenza a smembrare, innata nel feudalismo, e le tendenze unificatrici: diede il suo nome all'incremento progressivo delle forze nazionali. Una aristocrazia, forte di possedimenti, d'una tradizione d'uomini illustri, d'affetto orgoglioso all'indipendenza e alla grandezza del paese e - nel passato - d'una costante iniziativa in tutte le instituzioni di beneficenza, sta, con unità di concetto e di disciplina, tra la Monarchia e l'elemento democratico, moderatrice. Questa aristocrazia, indispensabile in ogni ordinamento di monarchia costituzionale, cede oggi terreno all'elemento finanziario industriale e sparirà un giorno, e con essa la Monarchia; ma or vive, rigogliosa tuttavia e venerata. La Monarchia è in Inghilterra immedesimata ancora colla vita del Regno. E perchè lo è e sa d'esserlo, non teme, non sospetta, non s'irrita, non vive, come in Italia, di repressione. Là, le instituzioni che dichiarano libero l'uomo non sono lettera morta: hanno mallevadori Governo e Popolo. La facoltà d'associazione è, politicamente, illimitata: il diritto delle pubbliche adunanze, protetto: l'espressione del pensiero, santa, inviolabile. Uno scrittore pubblicò per due anni una Rivista mensile, intitolata: Repubblica, senza che potesse sognarsi un sequestro. Altri perorano contro l'instituzione monarchica, contro l'ordinamento attuale della proprietà, contro il cristianesimo, con un uomo di polizia alla porta, incaricato di tutelare, occorrendo, a pro dell'oratore, l'ordine nella sala.
Un ministro, Lord Palmerston, propone, per compiacere a Luigi Napoleone, alcune modificazioni al diritto di libertà illimitata, che gli stranieri, gli esuli politici, possiedono in Inghilterra: 50 000 uomini si raccolgono a convegno pubblico in Hyde-Park, per protestare contro le intenzioni ministeriali: il ministro ritira il dì dopo la proposta, e torna alla vita privata. Un altro ministro, Lord John Russell, rimproverato di trascurare le riforme elettorali credute necessarie, rimprovera alla sua volta di freddezza il Paese: perchè non agitate? ei dice; perchè non provocate adunanze pubbliche, che esprimano la volontà del Paese? La Monarchia non ha vigore d'iniziativa; ma segue, desidera, invoca l'iniziativa popolare. E per questo vive rispettata dal Paese, e sicura: ciò che da noi si chiama rivoluzione è ignoto in Inghilterra; ignoti sono i consorzî segreti, ignoti i tumulti di piazza: la piazza, quando è unanime, ha dominio legale. Gli avversarî politici discutono pacifici e rispettosi; nessuno sogna d'accusare il più accanito nemico del Governo d'essere alleato segretamente con una o altra cospirazione straniera, o con fazioni avverse all'Unità del Paese: nessuno conia circolari a suo danno. - Ma voi? Voi, immemori dell'anno 1830 e del 1848, immemori delle dieci rivoluzioni che punirono, nell'ultimo terzo di secolo, i governi ostili alle libertà popolari, ricopiate servilmente la politica dei dottrinarî francesi: tenete per nemico vostro ogni uomo che invochi sviluppo progressivo di libertà, e lo trattate siccome tale: avversate ogni manifestazione d'opinione pubblica: aborrite e perseguitate, quando non v'obbedisce ciecamente, il pensiero: ricusate voto e armi al Popolo per paura - ignota in Inghilterra - ch'esso ne usi contro di voi: tremate dei volontarî, che vi diedero mezza Italia, mentre l'Inghilterra addita con orgoglio centocinquantamila volontarî armati dalla monarchia; vi circondate di forze artificiali: restringete nel cerchio angusto d'un partito l'amministrazione del Paese: avete sospetti quanti fanno prova d'ingegno e d'animo indipendente: trascinate l'incerta esistenza nella sfera fattizia degli impiegati da voi, tra i responsi, calcolati a non turbarvi i sonni, dei vostri prefetti, e respingendo e cercando sopprimere ogni espressione della volontà del Paese, ogni avvertimento che vi venga da esso. Voi non dirigete, non governate: vi difendete. Accampate in Italia.
A voi, come a noi - più che a noi, dacchè all'espressione del nostro pensiero son posti limiti da non potersi facilmente varcare - sono aperte le vie di pubblicità. Perchè, senza oltraggi e calunnie, dimenticando gl'individui e non guardando che alle idee, non ne usate a confutarci, a convincerci? I sequestri, gl'impedimenti301 alle riunioni, le diffamazioni da trivio, possono darvi vittorie d'un giorno, vittorie di Pirro, ma confermano nella mente degli assennati ciò ch'io vi dico a ogni tanto: che siete e vi sentite deboli. Provateci che la monarchia compie da lungo in Italia una missione storica unificatrice: provateci che fu per secoli iniziatrice di progresso al Paese: provateci che i grandi periodi della nostra vita e della nostra potenza non furono di Popolo, ma ebbero moto e nome da Principi: provateci che la Monarchia non s'insinuò in Italia sotto il patronato straniero, ma vi crebbe spontanea per grandi servigi resi, per entusiasmo di popolo riconoscente; provateci che non aprì mai gli sbocchi dell'Alpi agli invasori stranieri, che non militò alternativamente per Francia, Austria o Spagna sui campi d'Italia; provateci che la Lega Lombarda, la difesa di Firenze, l'insurrezione di Masaniello, i Vespri di Sicilia, la cacciata degli Austriaci da Genova, le giornate di Milano, di Palermo, di Bologna, di Brescia, le nobili resistenze di Venezia e Roma, furono capitanate da Principi; provateci che la cessione di Milano e la pace di Villafranca non portano la firma d'un re. Avrete rivendicato all'instituzione il potente sostegno d'una tradizione; avrete rovesciato la metà dei nostri argomenti e distrutto la metà della nostra forza. Ponete il vostro nome e date virtù di decreto all'utopia, che Giorgio Pallavicino ripete con gloriosa insistenza al deserto da ormai tre anni: armate il Paese: date 400 000 soldati all'esercito e 50 000 volontari a Garibaldi; affidate, porgendo loro ajuti d'armi, danaro e autorità, a commissioni locali composte d'uomini noti per energia e devozione all'Unità Nazionale, la distruzione dei masnadieri meridionali: date prova di fiducia al Popolo chiamandolo al voto: provocate colle adunanze pubbliche, una espressione generale di volontà nel Paese: riconfermate il Diritto Italiano, dichiarando cittadini eguali e liberi quanti nascono e nacquero tra l'Alpi e il Mare: ripartite ai Comuni, perchè li vendano o li affidino ad associazioni industriali e agricole, i beni del clero; protestate prima solennemente, a Popoli e Governi d'Europa, contro l'occupazione francese in Roma; poi intimate; se per altra via non riuscite, lo sgombro: chiamate il Veneto a insorgere, e appoggiatene l'insurrezione colle armi. Avrete confutato l'altra metà dei nostri argomenti, e provato che è in voi un elemento di vera vita, una potenza d'iniziativa, capace di guidar la Nazione.
Fino a quel punto, tollerate ch'io vi dica: Voi non avete in Italia tradizione, nè virtù di vita nell'oggi - e vendicatevi come potete, coniando circolari, o tentando sotterrare coi sequestri la mia parola.
Venezia e Roma: voi non potete sotterrare le due città; non potete cancellarne il nome dal core degl'Italiani. Quelle due parole vi uccideranno. Di mese in mese, d'anno in anno, d'indugio in indugio, di promessa in promessa, voi finirete per convincere i Veneti e i Romani illusi, gl'Italiani tutti titubanti anch'oggi, tra la diffidenza crescente e una incerta servile speranza, che non è in voi risolvere il doppio problema. Quel giorno, cadrete.
Noi siamo convinti, e però siete caduti per noi. Checchè scriviate nei vostri diarî, checchè scriva un uomo302, a cui la canizie e un passato onorevole dovrebbero vietare d'affermare alla leggera sul conto d'altrui, non è vero ch'io voglia la Repubblica a qualunque prezzo. Io mi sento troppo certo dell'avvenire, per affrettarlo a prezzo dell'Unità Nazionale e contro il volere riconosciuto del mio Paese. Per tre anni, finchè l'immensa maggioranza del Paese si dichiarava soddisfatta e fidava in voi, finchè era possibile illudersi a credere che intendereste la missione, la forza e la via di salute che la Nazione v'offriva; finchè l'esperimento potea dirsi non assolutamente compiuto, io tacqui religiosamente d'ogni questione che non fosse di azione per l'Unità della Patria: noi tutti, Partito d'Azione, ponemmo, qualunque fosse la bandiera, in mano vostra mezzi, uomini, voto, imprese, concessioni di tempo, consigli, quanto era in noi. Sacrificavamo, non a voi, ma alla pronta liberazione di Roma e Venezia. Oggi - dopo Aspromonte, dopo il rifiuto della cittadinanza Italiana ai Romani e ai Veneti, dopo il voto che sancisce in ogni ministro il diritto di sopprimere ad arbitrio la libera espressione del pensiero del Popolo, e poi che tutti i vostri uomini di stato, esauriti a cerchio, hanno rappresentato miseramente, l'un dopo l'altro, lo stesso sistema: impotenza per la questione nazionale: repressione per ciò che concerne la Libertà - s'illuda chi può. A me parrebbe d'essere, tacendo il vero a' miei concittadini, stolto a un tempo e colpevole.
La Nazione non avrà salute, Unità, Libertà, se non dal suo Popolo.