Giuseppe Mazzini
Scritti: politica ed economia
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VOLUME SECONDO PENSIERO ED AZIONE.

SCRITTI SUL MEDESIMO PERIODO

A FRANCESCO CRISPI

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A FRANCESCO CRISPI304

 

Il 17 novembre, Voi, parlando alla Camera sulla Convenzione tra Luigi Bonaparte e il Governo d'Italia, dichiaravate che Vittorio Emanuele non può rovesciare il trono del Papa - che la Convenzione monarchica rinunzia a Roma - ch'essa è quindi violazione aperta dei Plebisciti, dai quali si poneva, condizione dell'annettersi alla Monarchia di Savoja, l'Unità della Patria. Voi compivate in quel giorno un dovere di cittadino.

Ma il 18, irritato dall'accusa d'illogico - scagliatavi machiavellicamente contro da chi violava, votando per la clausola ch'è suggello alla Convenzione, ben altro che logica - Voi dichiaraste che la vostra bandiera era: Italia Una e Vittorio Emanuele; e v'aggiungeste che chi solleva un'altra bandiera non vuole l'Unità dell'Italia.

Se a Voi giova, sul cader della vita, rinunziare a una bandiera per acclamare ad un'altra, io non mi assumerò, per molte ragioni, di riconvertirvi. Ma proferendo la seconda affermazione, Voi non solamente contradicevate, cosa in oggi frequente, al vostro passato - non solamente offendevate la maestà della vostra sorgente Nazione - ma dimenticavate, ingiusto e ingrato ad un tempo, che tra gli uomini morti e viventi, ai quali un giorno foste amico e collega di cospirazione, i migliori furono e sono unitarî e repubblicani. Bastino, tra gli estinti, Carlo Pisacane e Rosalino Pilo. Ma, tra i vivi, io la sollevo questa bandiera diversa. E tra voi, quanti siete novellamente convertiti e diplomatizzanti fra la coscienza e il linguaggio, chi osi scrivere che io non adoro l'Unità della Patria, e non l'ho predicata altamente fin da trentadue anni addietro, quando stranieri e italiani la deridevano siccome utopia, e voi tutti balbettavate di costituzioni regie e federazioni?

Io la sollevo; e mi giovo della dolorosa opportunità che m'offriste per ridirlo a tutti; non solamente perchè i principî l'additano unica malleveria di vero e libero progresso - perchè intorno ad essa si avvolgono i più splendidi ricordi del nostro passato, quando la vostra non ha tradizioni di gloria in Italia, origine indipendente, coscienza di moralità educatrice, intelletto della missione italiana - perchè è sola logica deduzione delle credenze e delle negazioni dei tempi, mentre la vostra vive d'una transazione artificiale tra elementi inconciliabili, sempre provata menzognera in Europa, fuorchè nel paese singolare ov'io scrivo, dagli ultimi sessant'anni - ma perchè cerco, proscritto tuttavia e dannato nel capo dalla monarchia vostra, l'Unità della Patria; perchè, mercè l'ingenito antagonismo dei vostri padroni ad ogni sviluppo di vita popolare, e le vostre tattiche secondatrici, vedo rapidamente disfarsi quella unità di propositi e di speranze che spinse per ogni dove, fuorchè in Lombardia, ventidue milioni d'Italiani a congiungersi in uno; perchè, esaurita ogni via, tentata ogni concessione possibile, soffocata lungamente nel silenzio la fede dell'anima mia - tanto che nessuno potesse rimproverarmi di sostituire l'arbitrio d'una ragione individuale fallibile all'opinione dei più - ho raggiunto, costretto dai fatti, l'intimo convincimento che noi non avremo mai, dall'azione spontanea della Monarchia, Venezia, Roma e Unità. E mi stanno davanti, mentre io scrivo, i patti della Convenzione che segna l'abbandono di Roma, e le parole del vostro ministro che abbandonano Venezia:

L'Italia avrà Venezia quando l'Austria, persuasa non da noi - noi non siamo - ma dall'autore dei patti di Villafranca, ritirerà volontariamente i soldati ch'oggi v'accampano:

L'Italia avrà Roma quando il Papa, convinto ch'ei regna tiranno, e fatto amico della libertà, inviterà egli stesso i nostri ad entrarvi:

Così unifica la Monarchia.

Di fronte a queste codarde e assurde dichiarazioni, proferite da chi s'appoggia su 380 000 soldati, può averne in breve ora mezzo milione, e rappresenta legalmente 22 milioni d'uomini che anelano farsi Nazione, Voi avete evocato un momento dell'antico entusiasmo, per gridare con volto agitato, con accento commosso, un saluto di gladiatore morente alla Monarchia, e un anatema a quei tra i vostri fratelli che hanno serbata intatta quella che fu vostra fede. Io non meraviglio della vostra potenza di volontà; bensì vi compiango perchè abbiate creduto doverla spiegare per una causa nella quale, se interrogate l'intimo core, voi non credete.

Conosco troppo il vostro passato e vi so d'ingegno troppo arguto, per ammettere un solo istante che voi siate oggi monarchico di fede, monarchico teoricamente, monarchico come lo erano settant'anni addietro gli uomini della Vandea: s'io vi sapessi tale, pur combattendovi per dovere, mi dorrei d'esservi costretto. Ogni fede suscita in me, in questi tempi d'immorale e stolido scetticismo, rispetto. Ma gli uomini della Vandea credevano nel diritto divino: Voi no: - giuravano sui loro preti e ponevano la croce protettrice nella regia bandiera: Voi fate guerra ai preti e vorreste vedere in due campi separati, indipendenti l'uno dall'altro, la croce e la monarchia; - sorgevano a combattere e morire pei discendenti di san Luigi, senza badare a probabilità di successo, senza calcolo delle forze nemiche, come si muore per una idea: Voi non morreste, altri in Italia, per la sola Casa di Savoja, per la mistica trinità dell'elemento aristocratico, del democratico e del monarchico. Voi siete, come oggi barbaramente dicono, opportunista. Voi vedete oggi la monarchia forte, noi deboli: un esercito, che Voi credete monarchico, e ch'io credo, come tutti gli eserciti, semplicemente governativo; e un'Italia officiale, forte d'una vasta rete d'impiegati, devoti per amore di lucro, ed una moltitudine di seguaci ciechi, muti, servili, tra per abitudine d'obbedienza passiva, tra per paura, se mai dicessero di non credere che altri farà, d'essere chiamati a fare. Unitario sincero, ma educato a tendenze politiche ch'io potrei chiamare guicciardinesche, Voi porgete omaggio alla Forza o ad un sembiante di Forza. Voi trovate che la Monarchia potrebbe agevolmente, volendo, fare l'Italia; e l'accettate, siccome mezzo all'intento. Se domani ci vedeste forti, sareste nuovamente con noi.

Pur tuttavia l'opportunismo accenna inevitabilmente a limiti di tempo e di condizioni transitorie, che un principio non cura. L'opportunismo genera un metodo proprio, diverso da quello che guida chi ha una fede. E questo metodo logico dovrebbe insegnarvi linguaggio più temperato e meno assoluto. La Monarchia potrebbe, non v'ha dubbio, volendo, fare l'Italia. Ma se la Monarchia non volesse? Se, antivedendo nella guerra all'Austria una serie di insurrezioni nazionali, come quelle del 1848, e conseguenze probabilmente fatali all'interesse dinastico, s'arretrasse deliberatamente dall'impresa Veneta? Se, impaurita di quel potente nome di Roma, e presentendo a ogni modo che, sciolta la questione Nazionale, gli Italiani verserebbero tutta la piena della giovine vita sulla questione di Libertà, scegliesse di tenersi lontana dal Campidoglio repubblicano e dalle mura segnate dai ricordi del 1849? Se, intendendo che non possono tentarsi le due imprese, senza suscitare l'entusiasmo e gli ajuti del Popolo a guerra che gli darebbe coscienza di e delle proprie forze, paventasse le esigenze inevitabili dell'avvenire e non vedesse rimedio al pericolo, fuorchè nell'afforzarsi unicamente dell'alleanza col dispotismo straniero? E se Luigi Napoleone, cupido di predominio sul Mediterraneo e su noi, e aborrente quindi dalla nostra Unità, preparasse, di concerto colla Monarchia - prezzo della protezione invocata - la triplice divisione d'Italia, architettata da lui già prima del 1859? Io non intendo di discutere con Voi la verità di queste ipotesi; dico che nessun italiano ha, dopo i fatti degli ultimi tre anni, diritto di affermarle impossibili e trascurarle: Voi, repubblicano un tempo, men ch'altri. E dico che la loro possibilità avrebbe dovuto bastarvi per adottare, anche non disertando il nuovo campo opportunista accettato, altra tattica che non la seguita, per non gittare anatemi al rimedio che potrebbe diventare necessario, e per non cacciare a' piedi del trono l'assurda immorale promessa di rimanergli fedele quand'anche. Ed è per dolore d'antico affetto, memore di ciò che faceste pel Paese, ch'io parlo. S'io non guardassi che al trionfo della mia fede, m'appagherei nel ricordar sorridendo, che i Monarchici del quand'anche furono in tutti i tempi artefici di rovina alla monarchia.

Parte vostra - e, parlando a Voi, parlo ai miei amici ed ex amici della Sinistra - era quella di piantarvi, poichè così volevate, nella Camera a guisa di scolte vigili e diffidenti; di piegare, poi che lo credevate opportuno, la bandiera ch'ebbe i vostri giuramenti, ma tenendovi su la mano, in atto di chi è deliberato a nuovamente spiegarla s'altri non attiene le sue promesse; di giovarvi delle leggi esistenti a sviluppo progressivo di quel tanto di diritto ch'esse affermano e che i governanti tradiscono, ma senza teorizzare sovr'esse, accettandole come modelli di perfezione; di buttare in viso ai ministri diversi ogni violazione del loro Statuto, ma senza mai venerarlo Arca di Libertà e affermare racchiuso in esso il germe di ogni progresso futuro, quando il suo primo articolo inaugura, religione dei sudditi, l'infallibile autorità di chi maledice al Progresso; di sollevare di tempo in tempo, sugli occhî dei gaudenti del Governo e della sua maggioranza, la santa bandiera che porta scritti con sangue di martiri i nomi di Venezia e di Roma; di guardare più al Paese bisognoso e capace di educazione, che non al recinto d'una Camera, dove l'educazione è impossibile; di protestare colla parola e minacciar col silenzio; di serbarvi compatti come un sol uomo; di parlar pochi, rare volte e solenni: poi d'afferrare uniti una delle molte opportunità offertevi dall'aperta violazione della legge fondamentale e dell'onore della Nazione, per dire ai vostri concittadini: Esaurimmo, e senza riescire, ogni tentativo per giovarvi coll'armi legali: e ritrarvi, come Trasea, da un Senato irreparabilmente servile e corrotto. Così governandovi, voi non vi facevate di certo possibili a chi oggi governa, ma educavate il Paese, gli additavate dove cercare un giorno gli uomini suoi e salvavate la dignità dell'anima vostra.

Seguiste altra via. Vi atteggiaste a convertiti adoratori della Monarchia, prima che la Monarchia avesse compito il debito suo, e come se alla Monarchia importassero alcuni adoratori di più. Miraste con frequenti dichiarazioni a rassicurarla sul conto vostro, quando unica via, se pur una n'esiste, di trascinarla a bene è il mostrarle pendente la spada di Damocle. Non pagaste il debito vostro a Roma con una solenne rimostranza collettiva, ch'io vi proponeva, che prometteste, poi non osaste: non il debito vostro a Venezia quando, raggiunta la cifra di 380 000 soldati, viva tuttavia l'insurrezione polacca, vivo il conflitto Dano-Germanico, bisognava proporre apertamente al Gabinetto e al Paese la guerra. Non escì da voi collettivamente un solo atto d'energia nazionale. Ma sprecaste, smembraste la vostra forza e la vostra importanza, cinguettando individui e inutilmente su tutte minuzie, movendo interpellanze e dichiarandovi soddisfatti di spiegazioni che nulla spiegavano, o di promesse che sapevate non doversi attenere. Taluni fra voi cercarono, rosi da vanità di pigmei, di isolarsi da tutti, ciarlando sofismi balzani, cozzanti, francesi. Taluni si ritrassero con piglio nobilmente sdegnoso da un recinto che dissero prostituito, poi vi rientrarono senza che cosa alcuna vi fosse mutata. Erraste quasi tentone fra gli equivoci e il Vero, tra le formole artificiali d'un costituzionalismo bastardo e gli eterni principî d'una Rivoluzione Nazionale fermata a mezzo e che vuol compimento; finchè, dopo leggi eccezionali, stati d'assedio, imprigionamenti di deputati, scioglimenti arbitrarî d'associazioni, divieti frequenti d'adunanze pubbliche, persecuzioni sistematiche e preventive della stampa, violazioni giornaliere della libertà individuale - dopo un rifiuto di leggi comuni ai Veneti e ai Romani - dopo Aspromonte - caldo ancora il sangue dei cittadini trucidati in Torino - trovaste core, voi, Mordini, di votare l'abbandono di Roma; il conte Ricciardi d'esclamare comicamente: Io sono repubblicano, ma amo la monarchia: Voi di provare che la Convenzione rompe il Plebiscito e condanna l'Italia a rimanersi smembrata e acefala, e nondimeno conchiudere: La Monarchia ci unisce, la Repubblica ci divide. Così passano le glorie della Sinistra: i pochissimi che seppero rimanersi puri, mutano seggio o si allontanano dal cadavere.

Se non che l'origine prima dei traviamenti risale più in su, e doveva generare fatalmente le conseguenze che vennero dopo.

Il vizio della situazione dell'oggi ha origine - e l'Italia dovrebbe ora avvedersene - dall'annessione, dal cieco entusiasmo degli uni e dalla funesta debolezza degli altri, che falsarono, fin dal cominciamento del nostro moto, la posizione del problema italiano. E voi tutti, Dio vi perdoni, v'aveste parte.

Statuita dallo straniero e accettata dalla Monarchia Sarda la pace di Villafranca, l'iniziativa popolare protestò nobilmente nel Centro, e poco dopo nel Mezzogiorno, contro i disegni federalisti del Bonaparte; e decretò che l'Italia sarebbe. Allora due vie vi stavano innanzi. La prima guidava a fondar la Nazione; la seconda all'ampliamento della Monarchia Sarda, finchè tutto quanto il Paese si confondesse successivamente, annettendosi ad essa.

Annunziare come fine supremo e sorgente perenne di sovranità la Nazione - sommergere tutti, nomi antecedenti e fini locali, nel grande nome d'Italia - dichiarare la Vita Nuova che, preparata, fecondata d'antico, assumeva di recente sostanza e corpo - chiamare ogni terra posta fra le Alpi e il Mare a connettersi, ad affratellarsi coll'altra, in una Patria comune di liberi e di eguali - far escire da una Costituente la formola di quella nuova vita, la legge del nuovo Patto, il Patto della Nazione - poi, dacchè i tempi volgevano a Monarchia, scrivere nell'ultimo articolo del Patto, che l'Italia si sceglieva un re, e quel re aveva nome Vittorio Emanuele.

O porre attività di vita, sovranità, diritto nel solo Piemonte; annettere ad esso, quasi terreno dell'unione e successivamente, ogni provincia Italiana; accettar quindi una tradizione locale, una Dinastia, una Legge anteriore alla Vita della Nazione, una serie predeterminata di vincoli diplomatici, un sistema, un metodo di governo prestabilito.

Tra queste due vie sceglieste - voi tutti, politici opportunisti - quest'ultima. Io perorai, scrivendo e parlando, a pro della prima; poi, quando vidi prorompere irresistibile la piena, e il povero Popolo d'Italia, travolto dietro agli uomini che avevano meritato negli anni anteriori affetto e fiducia da esso, versarsi all'urne col Sì sul cappello, e m'udii richiedere che cosa io preferissi tra la dedizione incondizionata e il separatismo, mi strinsi nelle spalle, e - fidando nei fati d'Italia, più potenti che non gli errori degli uomini - assentii e ajutai.

Sceglieste la seconda: in quel giorno decretaste, per quanto era in voi, l'abdicazione d'Italia; e poneste in seggio il sistema che or chiamate piemontesismo. Poco importa che, stretti dal pudore, inseriste non so quale menzione di Roma e dell'Unità nelle vostre formole. Scrivendo sulla vostra bandiera e nei vostri proclami eguali ed indivisibili, prima che l'Italia fosse compita, Vittorio Emanuele e la Patria - come se questa non potesse vivere senza quello - porgeste l'arme, che dovea trafiggervi, alla Monarchia. Oggi, la Monarchia risponde, in virtù della dedizione, a chi le chiede Venezia: quand'io vorrò e coll'ajuto, da ripagarsi, dello straniero. A chi le chiede Roma: com'io vorrò e coll'assenso del Papa. Strozzati dall'antecedente, e senza virtù che basti per chiedere perdono a Dio e all'Italia dell'equivoco adottato quattro anni addietro, voi, pari a quei miseri che gridavano, morendo per mano del carnefice regio: viva il re, gridate, pur protestando: Unità - che v'è tolta - e Vittorio Emanuele - che vi dice: protestate, purchè serviate; e servite. Se non che quei miseri credevano, e la loro era sublime follia: chi non crede è sublime d'ipocrisia o di paura.

Or voi potete a vostra posta combattere il piemontesismo. Il piemontesismo che è, non cosa d'individui o di terra, ma sistema e metodo essenzialmente monarchico, ha data da quella deviazione e durerà - sia Torino o Firenze l'alloggio - finchè, esaurite le conseguenze dell'iniziativa del 1859, una nuova iniziativa di Popolo non ricollochi sul vero terreno il problema e non ribattezzi il Paese alla coscienza del proprio Diritto.

L'Unità è suprema su tutte forme, monarchiche o repubblicane. Le forme sono buone, in quanto armonizzano col fine e gli giovano; tristi e da rompersi, nel caso contrario. Sovranità e vita sono nell'Italia che vuole esser Nazione; gli individui - re, presidenti o consoli poco monta - non sono che ministri scelti di quel concetto; fedeli al mandato, sono servi lodati dalla Nazione; traditori o dimentichi, meritano pena e che altri sottentri. L'Unità d'Italia è cosa di Dio; parte del disegno provvidenziale che vuole il Progresso dell'umanità, per mezzo di ciò che noi chiamiamo Nazionalità, ed è la divisione del lavoro tra i Popoli: è scritta nella nostra configurazione geografica, nelle tendenze manifestate dalla Storia nostra, nella lingua che noi tutti scriviamo, nell'indole e nelle attitudini di quanti abitano la nostra terra: fu il Verbo dei più potenti fra i nostri intelletti, l'aspirazione visibile, da Roma in poi, del nostro Popolo nelle sue grandi e spontanee manifestazioni; la fede di centinaja, di migliaja di martiri, taluni monarchici, repubblicani i più. Ciascuno di noi la presentiva, per iniziativa regia o insurrezione di Popolo, presto o tardi inevitabile; ciascuno di noi sa che, per qualunque via, a seconda degli intelletti diversi, avremo Venezia e Roma. Chiunque, come Voi, presume d'aggiogare il fatto divino a uno o ad altro individuo, la Vita della Nazione alla povera esistenza d'un re, un principio eterno a una forma fenomenale e mutabile, bestemmia e disonora la Patria; rinnega Dio per farsi idolatra. Debito nostro e vostro è di conquistar l'Unità, con, senza o contro la Monarchia. Al di fuori di questa formola, adottata da noi anni sono, io non posso vedere che inetti o cortigiani insanabili.

Or Voi non siete l'uno l'altro: non siete che opportunista. Io so che solo, tra le quattro pareti della vostra camera, e guardandovi attorno a vedere che non vi siano onorevoli, Voi balbettate tre volte ogni sera, quasi giaculatoria d'espiazione, la nostra formola. Ma oggi, le circostanze non corrono favorevoli al recitarla in pubblico. La Monarchia è tuttora forte; potrebbe, come dissi, volendo; noi forse, volendo, non potremmo. Voi quindi, pubblicamente, siete monarchico. Pur nondimeno, ha la vostra coscienza prefisso un limite alla Monarchia, oltre il quale direte: non vuole? Potranno mai gli uomini, che un tempo vi stimarono fratello, incontrarvi, riaffratellato dai fatti, sulla loro via? Quante cessioni di terre italiane allo straniero esigerete per romper guerra? Quanto aumentare di servilità alle inspirazioni di Parigi? Quanti eserciti da farsi e disfarsi? Una legge che dichiari non solamente stranieri, ma sospetti, in Italia, i Romani e i Veneti? Otto, dieci violazioni dello Statuto? Tre, quattro Aspromonti? Quante città devono veder sangue di cittadini illegalmente versato dai gendarmi regî? Fin dove si estenderà la robusta vostra pazienza? Vogliate dircelo. Perchè se mai il: se no, no di Manin e dei Plebisciti dovesse ripetersi, eco sterile e perduta nell'aria, per un tempo indeterminato e senza sapersi a che mira - se il: perdio... badate... protesto... di Voi e dei miei ex amici, dovesse conchiudersi sempre e checchè si faccia col grido di: Viva, quand'anche, la Monarchia - io vi ricorderei un tipo lasciato ai posteri da Carlo Porta. Parmi che, comunque privilegiati, gli elettori del Regno mai possono aver decretato che i loro eletti debbano recitare nell'aula parlamentare la parte di Giovannin Bongée.

Tento sorridere, ma nol posso. L'anima mi s'abbevera di tristezza, pensando al povero Popolo d'Italia, buono ma ineducato - d'onde mai avrebbe esso potuto desumere educazione? - e, come tutti i Popoli ineducati, facile ai traviamenti, ai subiti sconforti, al dubbio su tutti e su tutto. Come insegniamo noi a questo Popolo - del quale usiamo, a modo d'arme democratica, il nome, lasciandolo senza voto, senz'armi, senza ajuti economici - la sua vita futura, la vita italiana, la vita della fede, dell'amore, dell'entusiasmo, del culto morale ai principî, al Giusto, al Vero, alla Libertà? Ove sono i suoi capi, gli uomini ch'esso s'era avvezzo a considerare, non solamente come apostoli d'insurrezione, ma come sacerdoti di rigenerazione morale, d'un santo concetto di sacrificio e costanza? Per venti, per trent'anni predicarono ad esso con noi che la salute d'Italia non scenderebbe da principi da papi, ma dalle forze associate del Paese, dalla coscienza del Diritto, dalla religione del Dovere, dalla persistenza nell'Azione; oggi predicano inerzia, sommessione, fiducia illimitata nel principe, l'ateismo del lasciar fare a chi spetta.

Predicarono non dovere un Popolo, che vuol farsi Nazione, sperare dallo straniero; non dovere un popolo, che vuol farsi libero, affratellarsi colla tirannide: oggi additano, perno di emancipazione nazionale e di libertà, l'alleanza col monarca straniero che affogò nel sangue la libertà della propria. Giurarono solenni e gl'insegnarono a giurare all'instituzione repubblicana; oggi giurano acclamando all'instituzione monarchica; promisero che l'Unità darebbe al popolo miglioramenti economici, alleviamento alle piaghe che rodono i più; oggi sanciscono col voto e colla presenza un sistema che, aprendo le vie d'una male acquistata ricchezza ai pochissimi, aggrava di contribuzioni i consumatori più poveri, colloca in mano a speculatori stranieri le sorgenti del nostro sviluppo, inaugura la corruzione, coglie, a superare le angustie presenti, il frutto troncando l'albero; pugnarono, militi e veneratori di Garibaldi, per Venezia e Roma, dichiarando che senz'esse l'Italia non è; oggi oziano soddisfatti, beati di croci e pensioni, colonnelli e generali nell'esercito regio, senza una parola, senza un palpito visibile per Roma e Venezia, imprendendo a proteggere le frontiere dei dominî papali, proteggendo quelle dell'Austria, imprigionando i giovani che, per recare ajuto ai loro fratelli, tentano di violarle, non avendo più fede che l'obbedire e il tacere: parlarono, scrissero d'un Patto nazionale, discusso, votato liberamente da tutti, interprete del nuovo fatto italiano, suggello alla volontà della Patria; oggi invocano sacro, inviolabile, per l'Italia venuta dopo, un embrione di Statuto regio, dettato subitamente da un calcolo d'egoismo e da paura, sedici anni addietro, ad un re, per 4 milioni e mezzo d'Italiani del settentrione.

Oh! qual criterio morale, qual senso di verità, quale idea di dovere può formarsi, con siffatti esempî sugli occhî, questo Popolo infante? Chi potrà impedire ch'esso non cada nell'indifferenza, nella pratica dello scetticismo, in uno sconforto supremo d'uomini e cose? Chi salverà l'anima dell'Italia nascente dai vizî di diffidenza, d'egoismo e di ipocrisia che disonorano le Nazioni morenti?

Ingannammo noi tutti questo Popolo d'Italia, che avevamo giurato di redimere e far libero e grande: io, promettendo con voi, voi acquetandovi a veder violate le promesse. Ma io prometteva, illuso sulla generazione d'uomini cresciuta meco nel lavoro concorde delle sante congiure; e quando mi vidi illuso, lo dissi: piegai la fronte non potendo altro, davanti all'onda irruente, ma dichiarando ch'io m'inchinava afflitto al voto dei più, non a Governo o a monarca veruno: tentai giovare al Paese, senza riguardo a bandiera, ma sempre tenendo aperta la via per la nostra: non acclamai, non giurai ad altra: non proferii altro evviva, fuorchè quello dell'Italia Una, con, senza o contro; ed oggi, esauriti visibilmente i due primi stadî, posso senza contradizione risollevare l'antica bandiera e chiamare i giovani al terzo. Voi, ex amici miei, persistete, strozzati dalle conseguenze di una diserzione e contro l'evidenza, nel far durare, parlando o tacendo, l'inganno.

Questa religione dell'anima dell'Italia, questo problema morale, che è supremo per me, questo vincolo di Dovere, che ci chiama tutti ad essere Educatori dei primi passi della Nazione e sacerdoti dell'Avvenire, furono e sono, pur troppo, dimenticati da voi. Davanti a una santa missione, santa per la Patria nostra, santa per l'Europa che, diseredata oggimai d'ogni fede pur non potendo vivere senza, ha diritto d'aspettarla da un Popolo dal quale ebbe due volte un vincolo d'Unità; io vi vedo, attonito, circondarvi di formole artificiali, scimiottare il vuoto frasario parlamentare d'uomini che hanno, da lungo, patria, unità, potenza non minacciate; spendere, inascoltati e inesauditi sempre, l'energia e l'ingegno in particolari, in minuzie, giovevoli soltanto dove le basi d'ogni vivere sociale, Indipendenza e Libertà, sono conquistate da secoli; armeggiare di tattiche intorno a fini secondarî, come se non aveste lo straniero in casa, un padrone in Parigi, la Menzogna incarnata nella nostra Metropoli. Lo sdegno e la vergogna, che dovrebbero far correre il vostro sangue a concitamento di febbre, non v'hanno fatto dimenticare una volta sola nei vostri discorsi il titolo d'onorevoli, dato periodicamente ai colleghi quand'anche non li crediate tali: non v'hanno strappato mai uno di quei gridi d'angoscia e di minaccia, che violano il cerimoniale parlamentario, ma sommovono e talora salvano una Nazione. Vergniaud, Isnard e Danton sarebbero per voi violatori del Regolamento. L'anima vostra, raffreddata subitamente dal contatto colla Monarchia, ha smesso i bollori plebei d'anni sono, ha chiuso con sette chiavi le sacre audacie delle antiche congiure, per assumere il gelato contegno dei parlamentari inglesi. Ma i parlamentari inglesi non sono oggi chiamati che a desumere lentamente, pacatamente, le conseguenze e le applicazioni pratiche di principî radicati da molte generazioni nel paese; e apparirebbero, credo, assai diversi, se avessero gli Austriaci in Edimburgo, i Francesi in Liverpool, il Papa in Dublino. La questione che v'è posta innanzi, è questione di vita o morte: è l'enigma della Sfinge: bisogna trovarne la soluzione o perire; perire, non voi, badate, chè non sarebbe gran fatto, ma l'Italia. Se voi l'amaste davvero, non recitereste, siccome fate, copisti inopportuni, la commedia dei quindici anni. Ricordereste che quella commedia, recitata allora da liberali tattici che, credenti in ben altro, conchiudevano i loro discorsi, come voi i vostri, col grido di viva la Carta, inoculò nell'anima della Francia quel gesuitismo politico, quella ipocrisia negatrice dei principî e del Vero che ha messo in trono la tirannide del Bonaparte.

Il Vero! L'Italia nascente non chiede se non quello, non può vivere senza quello. L'Italia nascente cerca in oggi il proprio fine, la norma della propria vita nell'avvenire, un criterio morale, un metodo di scelta fra il bene e il male, tra la verità e l'errore, senza il quale non può esistere per essa responsabilità, quindi non Libertà. Secoli di schiavitù, secoli di egoismo, unica base all'esistenza dello schiavo, secoli di corruzione, lentamente e dottamente instillata da un cattolicismo senza coscienza di missione, hanno guasto, pervertito, cancellato quasi l'istinto delle grandi e sante cose, che Dio pose in essa. E voi intendete a educarla, insegnandole che un principio, il principio della sua vita, dipende da un interesse, l'interesse dinastico. L'Italia nascente ha bisogno di fortificarsi acquistando conoscenza dei proprî doveri, della propria forza, della virtù del sacrificio, della certezza di trionfo che è nella logica: e voi le date una teorica d'interessi, d'opportunità, di finzioni; un machiavellismo male inteso e rifatto da allievi ai quali Machiavelli, redivivo, direbbe: io aveva dinanzi la sepoltura, voi, stolti, la culla d'un Popolo. L'Italia nascente ha bisogno d'uomini che incarnino in quel Vero nel quale essa deve immedesimarsi; che lo predichino ad alta voce, lo rappresentino negli atti, lo confessino, checchè avvenga, fino alla tomba: e voi le date l'esempio d'uomini che dicono e disdicono, giurano e sgiurano, troncano a spicchî la verità, protestano contro i suoi violatori, e transigono a un'ora con essi. Così preparate al giogo del primo padrone straniero o domestico, che vorrà inforcarla di tirannide una Italia fiacca, irresoluta, sfiduciata di stessa e d'altrui, senza stimolo di onore e di gloria, senza religione di verità e senza coraggio di tradurla in opera.

Io non so se la Repubblica ci unirebbe - e dipenderebbe in parte dai primi uomini chiamati a dirigerla - so che la monarchia, tale quale oggi l'abbiamo, ci corrompe; e so che la corruzione è principio di dissolvimento supremo. - So - e Voi che viaggiaste recentemente nel Mezzogiorno lo sapete - che da tre anni al giorno in cui scrivo, pel mal governo sociale, politico, economico, amministrativo, la causa dell'Unità è andata perdendo terreno, e che le popolazioni minacciano d'attribuirle i danni che derivano da chi non ne cura e v'antepone l'interesse dinastico. E so che solo mezzo a salvarne l'idea e a compirla praticamente, è separarla da chi, non intendendola o non volendola, ne usurpa il nome; - additare, a raggiungerla, una nuova via - insegnare al Paese che unico mezzo è oggimai la rivoluzione, continuata dal Popolo - e gridare ai giovani, com'io grido: conquistate all'Italia Venezia affratellandovi ai Popoli che devono essi pure farsi Nazioni, sorgendo per essi e per voi, assalendo l'Austria nell'interno del Veneto e da ogni terra italiana; preparatevi a conquistare all'Italia Roma; ma in nome del Diritto Nazionale, colla fronte levata, per decretarvi, a beneficio di tutti i Popoli, la libertà di coscienza; conquistate a voi tutti col voto e per vantaggio di quanti son nati fra le Alpi e il Mare, il Patto Italiano, formola detta vita collettiva presente, e sorgente della vita collettiva dell'avvenire. Fatelo a ogni patto, con ogni mezzo, e rovesciando ogni ostacolo che s'attraversi. E se tra gli ostacoli incontrate la Monarchia, in nome di Dio e dell'Italia, non v'arretrate davanti al fantasma, e sorgete a Repubblica.

A Voi tocca di rivelarci, e senza indugio soverchio, una Monarchia che faccia suoi i voti, i bisogni, l'onore del Paese - che invece di rimandare a casa i soldati, li cacci sul Veneto - che non aspetti la conversione del Papa per darci Roma - che fidi nel Popolo, e lo chiami a parlare e ad agire - che non desuma le sue inspirazioni da Parigi - che rispetti la libertà delle Associazioni, delle adunanze, della Stampa, degli individui - che scelga i suoi ministri fra i migliori della parte più progressiva - che chiami i delegati di tutto il Paese a promulgare un Patto Nazionale. E la seguiremo noi tutti, lasciando al tempo di maturare all'Italia ordini egualmente buoni e più filosofici. Ma se nol potete, parlate più prudente o tacete. Altri potrà ammirare sublime la vostra costanza intorno a una illusione fondata sopra un equivoco. Io richiamerò alla vostra mente la vecchia sentenza, che dal sublime al ridicolo non corre se non un passo.

E parmi che Voi e i miei ex amici v'affrettiate a varcarlo.

 

Dicembre 1864.

 

Giuseppe Mazzini.


 

 

 





304 Dal Dovere, 28 gennajo 1865.



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