IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
a proposito di una frase di Francesco Crispi305
In una lettera del deputato Crispi, inserita nel Diritto del 6 giugno, trovo le parole: «Mazzini, il quale ha solo l'arte di restare repubblicano offrendo i suoi servigi ai principi.»
Quelle parole sono indegne, ma non mi sorprendono. La caduta dell'anime segue, come quella dei gravi, le leggi del moto accelerato. Smarrita la fede che le guidava, precipitano, in balìa di subiti impulsi e dell'ira, d'abisso in abisso.
Nè mi curerei di rispondere a un oltraggio smentito da tutta una leale impavida vita. Se non che il dubbio sul quale speculano quelle parole, affacciato già da altri, può serpeggiar facilmente tra giovani buoni ma proni a uno scetticismo che le fraintese dottrine di Machiavelli hanno impiantato nell'anime. Scrivo dunque per essi quel tanto ch'è necessario a provar loro come qualcuno almeno possa, in un contatto regio, serbare inviolata, non dirò la fede, ma la dignità della fede repubblicana.
Nel novembre del 1863 - mentr'io lavorava come meglio poteva per l'unica impresa possibile allora, e di necessità suprema oggi come allora - l'impresa Veneta - mi venne da persona che praticava col re un messaggio la cui sostanza era questa: «il re non intendere questo cospirare continuo e impiantare un dualismo tra il Governo e il Partito d'Azione in cose nelle quali si era, in sostanza, d'accordo: volere egli Venezia quanto me: aver egli fede nell'onesta lealtà del mio procedere: perchè non si verrebbe a un patto per l'intento comune?»
Io sono repubblicano; ma ho sempre creduto e credo che sarebbe colpa e follìa introdurre la questione repubblicana nell'impresa Veneta. La questione Veneta è Nazionale, non politica: questione di terra nostra da conquistarsi sullo straniero, sotto qualunque bandiera rappresenti l'Italia nel momento in cui l'impresa si tenterà. La guerra all'Austria ha bisogno di tutti gli elementi di forza esistenti nella Nazione: dell'esercito, come dell'insurrezione e dei volontarî. Ajutare rapidamente, potentemente, universalmente, senza suscitare questioni generatrici di discordia, una iniziativa Veneta, perchè il Veneto emancipato s'unisca all'Italia: è questo tutto il programma. Solamente, è necessario vincere, e vincere in modo che dia all'Italia coscienza di sè. Quindi, indispensabili alcune condizioni all'impresa; non ajuti stranieri che c'imporrebbero soggezione e patti funesti: iniziativa di Popolo, per determinare il disegno pratico della guerra, e non lasciare alla pedanteria dei generali governativi facoltà di concentrarla, come nel 1848, per entro al Quadrilatero, dove saremmo forse battuti: l'elemento importantissimo dei volontarî schierato intorno a Garibaldi. Queste mie convinzioni erano tali da potersi esporre a popoli e principi; e le esposi.
Il 14 novembre io aveva ricevuto il messaggio: risposi il 15.
Risposi non potere nè volere stringere patto alcuno. Ricordai: «che più d'un anno addietro» - dopo Aspromonte - «io aveva dichiarato pubblicamente ch'io ripigliava tutta la mia indipendenza e non avrei più patti se non colle inspirazioni della mia coscienza e delle circostanze» e dissi: «credere debito mio verso me stesso e il Partito serbare inviolata quella mia indipendenza.» Dissi: «ch'io non potevo avere fiducia nella fermezza delle deliberazioni di chi seguiva le inspirazioni dell'Imperatore Francese e presentiva che, dove le intenzioni di Luigi Napoleone diventassero favorevoli all'Austria, un telegramma di Parigi agghiaccierebbe in un subito le tendenze bellicose governative. Una politica Nazionale non poteva soggiacere a variazioni sì fatte e a me conveniva quindi rimaner libero da ogni vincolo o patto.
«E d'altra parte, a che i patti? Era noto che io sentiva necessaria l'Unità di tutte le forze nazionali all'impresa: noto ch'io non pensava a inalzare la bandiera repubblicana sul Veneto: noto che noi tacendo, per coscienza e dignità, di V. E., e limitandoci al grido di Guerra all'Austria, Ajuto ai nostri Fratelli, avremmo lasciato il programma ai Veneti, i quali, volendo l'esercito, avrebbero senz'altro invocato la monarchia. Voleva il re, come noi, l'emancipazione del Veneto? Lasciasse fare e s'apprestasse a cogliere rapidamente l'opportunità che noi cercheremmo di suscitare. Il metodo naturalmente indicato dalle circostanze era: iniziativa insurrezionale nel Veneto: risposta da nuclei di volontarî italiani e manifestazioni del Paese; intervento governativo. Mandasse il re pe' suoi agenti una parola al Veneto che consonasse colle nostre: rallentasse verso noi l'azione governativa: non cordoni ostili, non sequestri d'armi; mentre dal nostro lato s'opererebbe con ogni prudenza possibile: provvedesse all'esercito e segnatamente agli apprestamenti navali: bandisse dall'animo ogni idea d'ajuto francese a noi o d'ajuto italiano alla Francia, se mai la Francia movesse guerra sul Reno: lasciasse Garibaldi capo libero indipendente dei volontarî, e intendesse che mal si compie una impresa nazionale con un ministero screditato nel paese e avverso deliberatamente a noi.»
Nè scenderò in particolari del contatto che seguì: ripugna all'indole mia di rivelare fuori del necessario, sensi e disegni altrui, poco importa di chi. Affermo soltanto - e se v'è chi possa smentirmi, lo faccia - che nessuna mia lettera ebbe una sola sillaba che sviasse dal contenuto di quella del 15 novembre. Non proferii parola intorno ai nostri elementi, ai lavori iniziati, alle nostre intenzioni. Spinsi l'indipendenza sino a rispondere con un rifiuto esplicito all'incerta ipotetica offerta d'ajuti pecuniarî all'intento; dissi che ajuti sì fatti costituirebbero tra chi li darebbe e me un vincolo ch'io non voleva accettare; e suggerii si volgessero a pro dei poveri Polacchi e Ungheresi.
Il 25 gennajo 1864, nojato dei continui tentennamenti e volendo pur essere leale, io dicevo: «che il linguaggio della Stampa Governativa, le circolari ministeriali pronunciavano un voltafaccia codardo, fatale più assai alla monarchia che non alle nostre idee: che avremmo tentato e ritentato; ma che, se fossimo impediti davvero, tutta la mia attività si sarebbe inevitabilmente rivolta alla questione interna e all'apostolato repubblicano.» E ripetevo che: «dare ai Veneti una parola d'ordine a pro dell'azione - lasciare che nuclei di volontarî movessero a soccorrerla quando s'iniziasse - non opporsi a manifestazioni popolari invocatrici d'ajuto ai Veneti - dichiarare, come fece Carlo Alberto nel 1848 ai Governi Europei, il governo Italiano essere costretto a movere - era il da farsi.»
Quando nell'aprile ebbi notizia del sequestro dei fucili in Brescia e Milano, dichiarai «non voler essere mistificato da principi o da chicchessia: si restituissero immediatamente l'armi, o si sostituisse un numero eguale e, mallevadorìa del futuro, si togliesse all'ufficio Spaventa: dove no, terrei per chiarite le intenzioni avverse, e porrei fine ad ogni contatto.»
Il 24 maggio finalmente io scrivevo: «È chiaro che non possiamo intenderci... S'è cominciato per dichiarare che non poteva sollevarsi iniziativa dal di fuori: risposi, dichiarando che si trattava di iniziativa interna. Si disse allora che sarebbe stato necessario un moto anteriore in Galizia: risposi - che, comunque m'increscesse mutare a un tratto disegno e linguaggio coi nostri Alleati, mi vi adoprerei. Oggi si vuole anche l'Ungheria. Domani si vorrà la Boemia, l'Impero Austriaco assolutamente sfasciato prima d'assalirlo. Intanto, l'anno venturo avremo la Polonia morta, la Galizia impossibilitata ad agire, la questione Danese finita, l'Ungheria in braccio al partito conciliatore306. Questa non è politica italiana: è politica di paura, politica indegna d'un popolo di 22 milioni e d'un esercito di 300 000 uomini. È impossibile trattare di cose vitali, senza un limite di tempo determinato. Non deve farsi, mi si dice, se non a tempo opportuno. È appunto perch'io credo il momento opportuno, che io cerco si colga. Bisognava dirmi per quali ragioni non è opportuno; bisognava dirmi: s'intende agire nel tal tempo e non prima. Il dirmi oggi che non possono darsi armi all'interno per timore che agiscano, è un ricacciarmi nell'indefinito. Il dirmi che anche con una insurrezione interna s'impediranno gli ajuti; è un dirmi: il Governo è deciso a far le parti dell'Austria.
«..... Rinunzio quindi a un contatto inutile... Rimango libero, sciolto da ogni vincolo, fuorchè quello che ho colla mia coscienza, terreno sul quale cittadini e re sono eguali.»
Se linguaggio sì fatto valga offrire servigi ad un re, vedano gl'Italiani. Nauseato oggimai delle pazze accuse che l'immoralità dei nemici e degli ex amici m'avventa, io dichiaro esser questa l'ultima volta ch'io scendo, di fronte alla causa d'un Popolo, a parlare di me e a giustificare o spiegare la mia condotta.
12 giugno.