Giuseppe Mazzini
Scritti: politica ed economia
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VOLUME SECONDO PENSIERO ED AZIONE.

SCRITTI SUL MEDESIMO PERIODO

AI ROMANI

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AI ROMANI307

 

Romani,

 

Non so a che, nelle nuove circostanze, voi vi apprestiate; ma so a che dovreste apprestarvi; e m'assumo di dirvelo: prima, per coscienza d'Italiano e di cittadino di Roma, dacchè a voi piacque, in tempi gloriosi alla vostra città, farmi tale: poi, perchè gli uomini di parte monarchica imposturarono come mia una stolta lettera nella quale v'è predicata pazienza e sono tacciati d'imprudenti i vostri bei fatti del 1849. Taluni fra voi possono aver creduto nella verità di quell'impostura, e m'importa sappiate che io, triumviro un giorno in Roma, incanutito oggi nella chioma ma non nell'anima, serbo incontaminata la Fede che noi annunziavamo allora uniti e volenti all'Italia dal Campidoglio.

Ignoro quale situazione impreveduta possano creare per voi le tattiche oblique del Governo del Regno e le trame degli agenti francesi con esso e col Papa; e spero che voi vi governerete in ogni modo da forti, a seconda dei casi. Ma io vi parlo come se la Convenzione Franco-Italiana dovesse essere unica norma alle vostre condizioni. E di fronte a quella Convenzione, che comanda al Governo Italiano di non promovere azione contro la potestà temporale del Papa, di non tollerare ch'altri la promova dalle terre Italiane, e di serbare capitale d'Italia Firenze, voi avete due solenni doveri da compiere: il primo verso Roma e voi tutti, che portate sulla fronte quel santo nome: il secondo verso l'Italia e l'Europa.

Voi dovete agire: levarvi contro la ciurmaglia accozzata dal rifiuto dei paesi stranieri e sperderla. Una accusa serpeggia - perchè celarvelo? - a vostro danno in Europa, e ha trovato sovente espressione nelle gazzette inglesi e francesi. La singolare pazienza colla quale voi avete, per diciassette lunghi anni, tollerato, senza una virile protesta, gli invasori stranieri nelle vostre mura, fu guardata come sommessione di Popolo che s'arretra davanti ai pericoli, e avvalorò la menzogna che Roma fosse, nel 1849, difesa da uomini appartenenti ad altre terre d'Italia. Io vi vidi in quel tempo, e però la dichiarai sempre, e la dichiaro menzogna. Le influenze che v'inspirarono quell'attitudine mi son note tutte, e non dimentico la singolare e difficile posizione in cui vi mantenne, chiamando ad alleata la Francia, la Monarchia Italiana. Ma se oggi, liberi da quell'equivoco, voi persisteste in soggiacere a quelle influenze addormentatrici - se non v'affrettaste a provare che, non la forza nemica, ma l'essere quella forza della Nazione che l'Italia chiamava alleata, e che combatteva in Solferino e Magenta, fu ostacolo al vostro sorgere - voi confermate la pazza accusa. Or voi non dovete - non dirò mostrarvi codardi - ma poter essere sospettati di codardìa.

Ma sorgendo, quale deve essere il vostro grido? Quale programma dovete scegliere?

La risposta fu già data, diciassette anni addietro, da voi: non dovete scegliere; avete scelto.

Il 9 febbrajo 1849, liberi e legalmente rappresentati, dichiaraste unanimi, che il grido dal quale venne la grandezza dei vostri padri era il vostro; che il programma di Roma all'Italia futura si compendiava nella parola Repubblica. E quel programma, accettato con entusiasmo in quante terre dipendevano allora da Roma, fu segnato ogni giorno, in due mesi di lotta, col sangue dei vostri migliori, in Roma, in Bologna, in Ancona.

Il 2 luglio, un ostacolo - la forza brutale - si frappose tra voi e l'espressione della vostra volontà, del vostro Diritto. Quell'ostacolo sparisce in oggi. La vostra volontà ricomincia a manifestarsi qual era. L'eterno Diritto rivive. Voi siete, sorgendo, ciò che il 9 febbrajo eravate: repubblicani e padroni di voi medesimi.

Il 3 luglio, un giorno dopo l'ingresso delle truppe francesi, il Popolo di Roma levò una volta ancora la mano per affermare, di fronte al nemico, la propria fede: la Costituzione Repubblicana fu solennemente letta alla moltitudine dal Campidoglio. La bandiera straniera s'abbassò, come velo, tra quella mano, che mostrava il Patto, e l'Italia. Quel velo oggi si squarcia. La mano del Popolo di Roma riappare levata in alto.

È questo il solo programma che logica, onore, coscienza del passato e dovere verso l'avvenire v'additino. Riaffermate, prima d'ogni altra cosa, voi stessi, la vostra vita, la potenza che è in voi: farete poi ciò che Dio e la coscienza del Dovere Nazionale vi inspireranno. Siate; poi disporrete di voi.

E allora - quando il vostro voto non sarà il muto, immediato, cieco suffragio che inaugurò la tirannide di Bonaparte e consegnò Nizza alla Francia - quando potrà escire solenne, pensato, forte d'inspirazione collettiva, illuminato dal consiglio dei buoni e dalla libera discussione sulle vostre condizioni e su quelle d'Italia - deciderete se Roma debba darsi, come città secondaria, diseredata di vita propria, a una monarchia condannata, provata impotente a ogni forte fatto, che riceveva jeri, come elemosina dallo straniero, Venezia, e che scriverebbe sul Campidoglio Custoza e Lissa: - o se la Tradizione, gloriosa sopra ogni altra, del suo passato, e la missione ch'è in essa e dalla quale escì due volte l'unificazione materiale e morale del mondo, la chiamino a parte più degna e feconda pei giorni futuri della Nazione.

Intanto affermatevi; affermate Roma. - Chi vi consiglio diverso - chi vi sprona ad aggiogarvi senza maturo, collettivo e libero esame nel fatto esistente - disonora Roma senza giovare all'Italia.

Non m'accusate di contradizione coi consigli che io diedi ad altri in passato.

Quand'io, nel 1859 e nel 1860, consigliai il Mezzogiorno d'Italia ad annettersi, l'Unità materiale, avversata in tutti i disegni del Bonaparte, non esisteva: l'Italia intera consentiva - non monta se a torto o a ragione - nel concedere alla Monarchia il benefizio d'un esperimento a pro della possibilità d'un accordo fra essa e il Paese: le città alle quali io, riverente alla Sovranità popolare, parlava portavano il grande nome di Roma.

E nondimeno io suggeriva, anteriori a ogni plebiscito, le Assemblee, tanto che le annessioni si compissero a patti, e con certezza di libertà vera e d'onore alla Nazione futura. Non m'ascoltarono - ed oggi si pentono d'essersi dati alla cieca.

Ma io parlo ora a voi, uomini di Roma, in condizioni radicalmente mutate.

L'Unità materiale d'Italia è ormai irrevocabilmente fondata; le vostre decisioni o i vostri indugi possono farle correr pericolo. Quel ch'oggi importa non è che voi siate d'Italia il tale o tal altro giorno; importa che lo siate in modo degno di voi, e che promova i fati d'Italia e l'Unità morale, mancante tuttora e inaccessibile alla Monarchia.

L'esperimento è compiuto. Una lunga serie di fatti incontrovertibili ha provato, a quanti hanno senno e core, che la Monarchia non può essere se non servile al di fuori, strumento di resistenza al di dentro. L'Instituzione è moralmente condannata. Il Paese può trascinarsi per un tempo ancora tra le esitazioni dell'opportunismo; non è più monarchico.

E io parlo a voi, Romani di Roma, eccezione fra quante città s'inalzano sulle nostre terre. Roma non è città; Roma è una Idea. Roma è il sepolcro di due grandi religioni, che furono vita al mondo nel passato, e il Santuario d'una terza che albeggia e darà vita al mondo nell'avvenire. Roma è la missione d'Italia fra le Nazioni: la Parola, il Verbo del nostro Popolo: il Vangelo Eterno d'unificazione alle genti. Posso io dirle di annettersi, appendice subalterna a Firenze? Posso io suggerirle, senza delitto di profanazione, di consacrare del suo prestigio una Instituzione incadaverita; di coprire coll'immensa ombra della sua gloria le colpe, gli errori, la servilità allo straniero d'una Monarchia, che non ebbe una protesta per voi nel 1849, che non trovò una parola da proferirsi a pro vostro nei vostri diciassette anni di servitù; che disse per bocca de' suoi ministri: non andrò in Roma se non col beneplacito della Francia e del Papa?

No: Roma non deve annettersi a Firenze; dobbiamo noi tutti annetterci a Roma. Ma per questo abbiamo bisogno che Roma risorga quale era quando salvò l'onore d'Italia, perduto in Milano e Novara dalla Monarchia: abbiamo bisogno ch'essa si levi dal suo sepolcro, in nome, non del passato, ma della nuova vita dell'avvenire; abbiamo bisogno ch'essa splenda, per breve tempo isolata, siccome faro di Verità e di Progresso, alle incerte, desiose popolazioni d'Italia.

L'Unità materiale d'Italia è pressochè fondata: oggi, è necessario un simbolo che rappresenti l'Unità morale; e quell'Unità non può venirci che dalla fede repubblicana. Ciò che abbiamo è forma senz'anima: noi l'aspettiamo da Roma; ma Roma non può spirarla nell'inerte forma, se non a patto di serbarsi pura dalle sozzure presenti. Accettandole, Roma cade; e con essa cadono, per non so quanto, i grandi fatti d'Italia in Europa.

Addio - ora e sempre vostro

 

5 dicembre 1866.

 

Giuseppe Mazzini


 

 

 





307 Dall'Unità Italiana del 16 dicembre 1866.



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