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1870.
L'INIZIATIVA310
I.
Il 16 maggio 1791, in Francia, nella discussione sulla facoltà di rieleggere i deputati, Duport, uno dei migliori dell'Assemblea, dichiarava, insistendo, che la Rivoluzione era compita. Quell'idea, adottata per norma di legislazione dall'Assemblea, fu sorgente a quanto accadde più dopo. Resistenza a quei che s'adopravano a continuare l'opera iniziata, irritazione di questi, diffidenza reciproca, guerra di parti e terrore, tutto giaceva latente in quella errata imprudente parola e si svolse, per legge di logica, inevitabilmente. Una idea era a capo d'eventi, che s'attribuirono e s'attribuiscono ancora dagli ingegni educati nella scuola storica di Voltaire a piccole cagioni, a piccoli errori commessi, a piccole gare tra individuo e individuo.
Lo stesso errore si commette oggi e da più anni in Italia: genera le conseguenze di resistenza, di diffidenza e di irritazione visibili ad ogni uomo, e che s'attribuiscono dagli ingegni superficiali a mene d'individui irrequieti, a piccoli errori d'uno o d'altro ministro: genererà ben altro, se dura.
L'Italia officiale - Governo, Parlamento e Stampa governativa o parlamentare - dichiara che la Rivoluzione Italiana è compita: noi, viventi al di fuori di quella sfera, affermiamo il contrario. In questo dissenso sta il secreto della crisi perenne, che affatica e minaccia di perder l'Italia.
II.
Quale è il carattere predominante nel moto d'Italia? Quale il fine immediato al quale tende quel moto?
Il carattere predominante nel nostro moto è anzi tutto di nazionalità. L'Italia vuole Libertà, Eguaglianza, prosperità materiale; e sa che saranno per essa conseguenze della Rivoluzione compita; ma non è sorta per quello. L'Italia è sorta per essere Nazione. Grande un tempo e iniziatrice nel mondo per opera di Roma, grande e iniziatrice più dopo per opera dell'ordinamento dato al Cristianesimo dal Papato, grande e iniziatrice una terza volta per virtù di popolo e delle sue città repubblicane, l'Italia, caduta da oltre tre secoli in impotenza e nullità civile e politica davanti a sè stessa e all'Europa, serva spregiata di dominazioni o influenze Austriache, Francesi e Spagnuole, ma memore e presaga, raccolse dalle aspirazioni de' suoi Grandi di mente, dal martirio de' suoi Grandi d'azione, dal lento continuo moto d'assimilazione de' suoi popoli e dalla necessità d'essere forte, la sacra parola Unità, e si riscosse con un pensiero di vita collettiva nell'anima, col grido di Nazione sul labbro. Un nome, una bandiera, una esistenza riconosciuta e onorata dai popoli, una parte e non ultima nel lavoro europeo, una missione da compiere degna delle compite: fu questo il voto Italiano. Per questo l'Italia acclamò, illudendosi, a Pio IX: per questo essa gettò, ingannata, tutte le sue forze a' piedi della Monarchia. Speranze, errori, esperimenti, inquietudini, tentativi, aspirazioni, minaccie, tutto è, non giustificato, ma spiegato dal predominio di quel pensiero.
È la Rivoluzione Nazionale compita?
Una Rivoluzione Nazionale non è compita se non quando, libero da ogni straniero, il Paese ha indipendenza accertata da una linea di frontiere, che comprendono e proteggono tutti gli elementi che tendono a ordinarsi in unità di nazione: - se non quando sono egualmente accertate e fatte norma di legge le tradizioni, la fede comune e le tendenze, in virtù delle quali tutto il popolo compreso per entro a quelle frontiere sente dovere, diritto e volontà di costituirsi in associazione speciale e distinta dall'altre. Senza libere e secure frontiere, senza Patto Nazionale, non esiste Nazione.
Noi non abbiamo nè le une, nè l'altro.
La Francia imperiale, già dominatrice dell'Alpi frapposte, occupa e vieta all'Italia il suo centro Nazionale, Roma. L'Austria ha il Trentino e l'Istria. Da Nizza fino al Carnero, «che Italia chiude e i suoi termini bagna,» la frontiera italiana è schiusa a Governi stranieri.
E quanto all'interno, l'Italia presenta il fatto anormale, mostruoso, unico nella Storia, d'un popolo che sorge muto, che vuole esser Nazione e non dichiara l'insieme dei principî in virtù dei quali è chiamato ad assumerne il nome; che intende a vivere di vita una e comune, e non esprime, solennemente e universalmente interrogato, la legge della propria vita; che mira a costituirsi, senza Autorità costituente. La Monarchia alla quale dobbiamo la condizione delle nostre frontiere, ha detto all'Italia: La tua vita è la vita, come fu definita, prima che tu fossi, da un principe di una tua estrema provincia. Mercè lo Statuto sardo del 1848, l'Italia è un'appendice del Piemonte: ventidue milioni d'Italiani son dichiarati clienti di quattro.
La Rivoluzione Nazionale non è compita: e gli uomini della Monarchia che l'hanno, fermandola a mezzo, dichiarata tale, hanno sull'anima i mali presenti e preparano, ostinandosi, ben altrimenti gravi i futuri.
Una rivoluzione fermata a mezzo è una somma di forze che, usate come mezzo di propulsione, schiuderebbero, contro qualunque ostacolo, innanzi la via, ma, concentrate e rivolte in sè stesse, determinano esplosione e rovina: è una piena d'acque che, libero il corso, purificano e fecondano; arrestate da ostacoli artificiali, ristagnano, avvelenano, isteriliscono. Velato l'intento del moto nazionale, arrestate subitamente le forze che tendevano a raggiungerlo, dileguata anche quella menzogna di iniziativa che la Monarchia s'era assunta, e vietata al Paese quella che s'assumerebbe, noi abbiamo oggi in Italia un Governo senza concetto, senza missione, senza scopo, fuorchè quello di prolungare la propria esistenza e resistere agli elementi che lo minacciano: - un popolo deluso, diffidente, senza via, senza fine determinato, agitato dagli impulsi d'una vita crescente e condannato all'inerzia: - forze impedite nella loro direzione naturale, che si sfogano in moti irregolari, sconnessi, sterili: - nuclei politici senza programma possibile, costretti quindi a concentrarsi intorno a bandiere d'individui e diventare fazioni: - elementi di ricchezza e di vita economica virtualmente potenti, ma inceppati nella loro azione dalla certezza d'una crisi inevitabile, dal senso che tutto è provvisorio all'intorno. In condizione siffatta, gli uomini possono mutare, le cose non possono.
L'immobilità non è vita: i popoli non furono creati per essa. Bisogna che la Rivoluzione retroceda o si compia. Retrocedere è ipotesi inammissibile: pochi in Italia lo desiderano e non oseranno tentarlo. È forza dunque inoltrare. Ed è forza per questo suscitare una iniziativa ch'oggi non è.
Come? Dove? Quale è l'elemento dal quale può sperarla il Paese?
III.
Può il Paese sperare iniziativa dalla Monarchia?
A questione siffatta, la Monarchia stessa risponde. La sosta fatale della quale ho parlato finora è opera sua: sua, coi fatti, la dichiarazione che la Rivoluzione è compita e che non si tratta oggimai se non di miglioramenti e riforme. La Monarchia si giovò d'un interesse straniero, che le dava alleato un esercito, per tradurre in realtà l'antico disegno d'aggregare al Piemonte la Lombardia e far del piccolo regno un Regno del Nord; s'impossessò poi, sottraendolo alla Rivoluzione, di quanto l'iniziativa popolare conquistò o accennava a conquistare nel Centro e nel Sud: si rifece immobile appena quella iniziativa cessò; e, giovatasi della funesta interruzione per ordinarsi e afforzarsi, impedì colle bajonette ogni recente tentativo di risuscitarla. E non poteva, in virtù della propria natura, fare altrimenti.
Può la Monarchia, che diede Nizza alla Francia imperiale, ritorgliela? Può, dopo d'avere abbandonato il Trentino già invaso dalle sue truppe e dai volontarî e segnata la pace che lo esclude dai termini dell'Italia, assalir sola l'Austria e farne conquista? Può essa, isolandosi da tutte le monarchie sorelle che additano trattati e comandano pace, rivendicar coll'armi Trieste e l'Istria? Può sopratutto - dacchè non è da sperarsi che il Papa rassegni volontario la potestà temporale - rovesciare il Papato a dar Roma all'Italia? È tuttavia fra noi chi affermi cose siffatte e presuma d'essere creduto sincero?
Può l'iniziativa, che deve compire il moto nazionale d'Italia, escire dal Parlamento?
S'io non pensassi, scrivendo, che al Paese, non dovrei, credo, spender parola a rispondere. Le liste dei votanti nelle elezioni, la suprema indifferenza colla quale il Paese guarda ai procedimenti parlamentari, la disubbidienza sistematica, dove riesce possibile, alle leggi sancite da esso, attestata dalle cifre degli arretrati nel pagamento delle tasse, rispondono abbastanza per me. Il Paese non aspetta salute dal Parlamento, non ha riverenza per esso, non crede rappresentati in esso i suoi voti, le sue speranze, l'avvenire della Nazione.
Ma sono nel Parlamento, e durano ostinati a rotolarvi il sasso di Sisifo, uomini di mente e di cuore, che hanno giovato quand'erano affratellati col popolo alla Patria, che potrebbero, riaffratellandosi con esso, giovarle ancora e che, sotto il fascino di non so quale illusione, consumano tempo, nome, influenza, potenza d'ingegno, capacità di forti generosi propositi e, quel che è peggio, parte di quella virtù morale, che scende da una pura diritta ardita coscienza, in una inefficace e talora ridicola guerricciola di pigmei, seminata di equivoci, di transazioni, simulazioni e dissimulazioni, indegne d'essi e della Causa alla quale un tempo giurarono. E ad essi ricordo che i Parlamenti furono, sono e saranno sempre impotenti a varcare spontanei il cerchio di Popilio che l'Instituzione, in nome della quale esistono e agiscono, descrive intorno ad essi - che se talvolta lo varcarono, non fu mai per inspirazione propria, ma per opera d'insurrezioni consumate al di fuori e alle quali obbedirono - che tanto può in essi l'influenza della prima origine, da aver fatto sì che anche in quei pochi casi guastassero, se non rinnovati, il concetto che accettavan dal popolo.
Il Parlamento d'Italia è Parlamento monarchico. I suoi membri giurano alla monarchia e accettano lo Statuto, che falsa il carattere nazionale del moto italiano. Ove anche il giuramento non avesse - e men dorrebbe - valore morale per essi, non possono dirlo, nè possono in Parlamento operare a violarlo. Il Parlamento non può avere in sè potenza maggiore d'iniziativa che non ne ha la monarchia, dalla quale discende e dipende. La monarchia non può compire la nostra Rivoluzione nazionale: non lo può quindi, per conseguenza logica, il Parlamento.
E il Parlamento lo sa: però ne tace e vorrebbe che il Paese la credesse compita.
Il Parlamento che siede, incurioso, svogliato o servile, in Firenze, non è Parlamento nazionale; e lo diresti un'assemblea di provincia. La Nazione gli è ignota: ignoto quanto tocca l'unità, l'indipendenza, l'onore, l'avvenire, la politica nazionale. L'Italia può essere condannata ad abdicare, nella sua vita internazionale, l'inspirazione naturale che la sprona verso gli Slavi e verso l'Oriente, e trascinata invece in alleanze col dispotismo che la decretano impotente e le chiudono l'avvenire: il suo Governo può trascurare, come non fossero, le sorgenti principali della vita nazionale interna, ordinamento del Paese a milizia, associazione operaja, incremento dell'agricoltura, miglioramento delle condizioni produttive in Sardegna e in Sicilia; il Parlamento è muto, senza pensiero che ad esso spetti occuparsi di cose siffatte.
Collo straniero in casa, colla sfida, la più insolente ch'io mi sappia dal guai ai vinti di Brenno in poi, cacciata due volte da due ministri di Francia a chi dichiarava pochi anni addietro Roma capitale d'Italia, il Parlamento, che si dice italiano, tace sistematicamente di Roma: non uno dei suoi membri s'attenta di proferire quel sacro nome: non uno fra quei che avventurarono la vita al grido di Roma o Morte osa - tanto è il senso d'abdicazione che spira in quell'aula data all'equivoco - gettarlo, sanguinoso rimprovero, in viso agli uomini del Governo e dir loro: Se voi potete o volete vivere disonorati, noi non possiamo nè vogliamo; e dacchè in questo recinto non può trovarsi vie di salute, scendiamo a cercarla nel popolo.
Le Assemblee - bisogna ripeterlo, non all'armento che vota a seconda del cenno governativo, ma ai pochi uomini ai quali io miro - operano a desumere e applicare conseguenze del principio in virtù del quale esistono, ma nè un passo più oltre, nè mai possono fondare, per virtù propria, un principio nuovo. Dove, creata già la Nazione e secura l'Indipendenza, non si tratti se non d'un semplice sviluppo di libertà conquistata, e di riforme amministrative o economiche, le Assemblee esistenti in nome di quella libertà giovano, e possono, come in Inghilterra, compire lentamente una importante missione. Ma dove, come tra noi, si tratti di costituir la Nazione e - dacchè il principio esistente non esce dalla tradizione del Paese, è diseredato d'iniziativa e non porge via per raggiungere il fine - di proclamarne un altro, le Assemblee raccolte in nome del primo e condannato, non giovano. Unica Assemblea che valga è quella del popolo in armi.
Nessuno di noi s'arroga diritto d'imporre ad altrui la propria opinione; ma ciascuno ha diritto di chiedere agli uomini che pretendono rappresentare il Paese e possono giovargli o nuocergli a seconda delle opere loro: che cosa volete? Il fine dichiarato additerà il metodo, norma del giudizio da pronunziarsi sugli uomini. Senza dichiarazione siffatta, amici e nemici errano nel bujo e combattono senza conoscersi. L'anarchia morale, foriera dell'altra, invade il Paese.
Credete l'Instituzione attuale capace, non dirò ora di dare libertà vera, indipendenza dall'estero, educazione ed esempio di moralità, prosperità e grandezza al Paese, ma di compiere senza lungo indugio la Rivoluzione Nazionale, di darci Roma, il Trentino, Trieste, e un Patto ch'esca dal voto e dalle aspirazioni di tutto il popolo?
Se potete, colla mano sul core, affermare che lo credete, rimanete ove siete, ma agite, conquistate, trascinate, guidate: incarnate in voi il pensiero del Paese e decretate a un tempo la mossa dell'esercito, la chiamata dei volontarî e la convocazione d'una Assemblea Costituente in Roma. O diteci almeno quando lo farete. Il paese non può, per quanta fiducia voi meritiate, commettere le sue sorti all'eloquenza indefinita del vostro silenzio: il Paese non può accettare il pericolo di perire nel disonore, nella corruzione, nella rovina economica, perchè voi possiate incidere una inscrizione splendida d'Unità meditata e di Patto postumo sulla sua tomba.
Ma se non credete l'Instituzione capace di tanto, allora, al nome di Dio, ponete giù la medaglia e la profanazione dell'anima: lasciate quei banchi contaminati d'equivoci e d'ipocrisia, e scendete a rinverginarvi nel popolo, dicendogli: là non si compiono i tuoi fati: là Nazione vive in te, che aneli al Vero e hai potenza: levati e capi e soldati, siam tuoi. Distruggerete una illusione, che la vostra presenza in quell'aula alimenta tuttavia in alcuni, e uno scetticismo sugli uomini, che cresce fatale nei più.
Darete al Paese un insegnamento morale, da voi finora a torto dimenticato. Educherete i giovani, col senso dell'umana dignità, al culto della coscienza; e sottraendovi alla parte di minatori segreti per quella, più degna di voi, di leali guerrieri all'aperto, contribuirete a liberare l'Italia dal pericolo d'un gesuitismo politico che, cospirando in Francia col grido di viva il re alla caduta della monarchia, sommò a tornare in nulla due Rivoluzioni e agevolare la via al secondo Impero.
IV.
Intanto, sciolta com'è per noi la questione, l'Italia, pel compimento della propria Rivoluzione, che sola può rendere possibile una condizione normale di cose, non può aspettarsi iniziativa dalla monarchia e nol può dal Parlamento monarchico. Nol può che dal popolo. Bisogna ch'essa tragga dalle proprie viscere la forza che manca altrove.
Come può giungervi? E quali norme devono in questo supremo sforzo guidarla?
Dissi che l'iniziativa del moto, dal quale deve compiersi la Rivoluzione Nazionale, spetta al Paese.
Il Paese è universalmente malcontento: lo è nella gioventù educata, nelle classi operaje delle città, nella popolazione agricola, nella parte migliore della magistratura, nei piccoli proprietarî, negli uomini di commercio, nel popolo dell'esercito, nel clero cattolico. I giovani, da pochi infuori indifferenti per abitudini indegnamente dissipate, o guasti da non so quale pedantesco dottrinarismo di seconda mano, sentono nell'anima un alito dell'orgoglio italiano e intendono che la loro patria non sorge come dovrebbe. Gli operaî delle città - due o tre eccettuate, nelle quali l'arti governative e gli ajuti d'alcuni ricchi hanno sviato per poco le associazioni dal segno - amano il Paese d'affetto tanto puro e devoto, da confortare di speranza l'anima più solcata di delusioni e dolori che sia. Il macinato ha suscitato il malcontento degli agricoltori; le tasse, gravissime, crescenti, molteplici e un pessimo irritante metodo di percezione, lo alimentano nei piccoli proprietarî. La democrazia dell'esercito, lasciando anche da banda il pessimo trattamento e i soprusi dei capi, sente profonda - ed è sua lode - la vergogna che da Novara a Villafranca, da Villafranca a Custoza pesa sulla bandiera. Gli onesti fra i magistrati si ribellano agli arbitrî governativi e alla corruzione sfrontatamente invaditrice dell'alta sfera. Gli uomini di commercio aborrono dall'incertezza del dì dopo, che falsa i loro calcoli e inceppa le loro operazioni: essi intendono che, fino al giorno in cui il fine nazionale raggiunto darà sicurezza di condizioni normali, la crisi sarà perenne. E il clero, in parte retrogrado, è a ogni modo, nei migliori, avverso a un sistema rappresentato da una gente che non ha religione e l'affetta. Un senso crescente di sfiducia serpeggia tra gli impiegati e spira visibile nei consigli di chi regge. Il tentativo di un'ora in Piacenza ha suscitato a misure rivelatrici di profonda paura il Governo e a moti imprudenti, isolati, non preparati - getti vulcanici che indicano la condizione latente del terreno - cinque o sei località dello Stato. Non v'è uomo in Italia che, temendo o invocando, non presenta vicino, inevitabile, un mutamento di cose. E l'indifferenza stessa, colpa apparente nei cittadini, all'esercizio dei loro diritti e alle frequenti violazioni di quel tanto di libertà che le leggi concedono, accenna al muto convincimento che ben altro si appresta.
Son questi i sintomi che in ogni paese nel quale ebbe luogo una grande rivoluzione, la prenunziarono.
Perchè nondimeno il Paese dura inerte e incapace tuttora d'iniziativa?
Il Paese non ha coscienza delle proprie forze.
Il Paese vorrebbe cancellato il presente, ma sospetta, per preconcetti errori, dell'avvenire.
Quest'ultimo ostacolo esige un'opera di apostolato: il primo non si vince che coll'azione.
Pesano tuttavia sull'anima del Paese i ricordi e le abitudini d'oltre a tre secoli di servitù pazientemente durata. Splendidi lampi d'audacia e d'onnipotenza popolare hanno negli ultimi venticinque anni solcato la tenebra addensata da quella servitù su noi tutti: ma furono lampi, non fiamma perenne di faro, che sia guida ai fati della Nazione. Suscitati dal prestigio d'un capo militare che comandi ad essi di vincere, i nostri giovani compiono miracoli di valore e vincono: lasciati a sè stessi, tentennano incerti e ridiventano timidi calcolatori d'ogni ostacolo positivo o possibile: giganti d'azione seguendo, mancano tuttavia dell'istinto che addita il momento e del coraggio che inizia. Capo ai Romani era Roma: Roma che doveva essere capo del mondo. I duci dell'armi si succedevano, apparivano e passavano, quasi viventi non di vita propria, ma della vita di Roma: ignoti ai soldati, i dittatori erano rappresentanza a tempo della Città che aveva detto ad essi: guidate e vincete; ma la loro potenza, la potenza invincibile dei militi che li seguivano, derivava da una fede in una potenza collettiva superiore a essi tutti, ma della quale ognun d'essi si sentiva parte. La magnifica parola religiosa dell'evangelista Giovanni: perchè tutti siamo uno in noi, come tu, Padre, sei in me e io sono in te s'era fatta realtà nella Patria Romana. Ogni uomo credeva nei fati di Roma: sentiva dentro sè una scintilla della grande anima di Roma; Roma s'era incarnata in ciascuno dei suoi figli, e ciascuno si sentiva forte della sua forza e mallevadore del suo avvenire. Per questo Roma diede spettacolo unico ai secoli d'una città conquistatrice del mondo. E questa fede, questa facoltà d'immedesimarsi nella Patria, come in un pensiero vivente destinato a svolgersi nell'indefinito dei tempi, questa potenza d'amore che abbracci in uno, passato, presente e futuro d'Italia, questa coscienza d'esser ministri a una Tradizione di grandezza iniziata da Dio e che deve, attraverso ogni ostacolo, continuare nella vittoria - questa fede, un raggio della quale fu dato, sullo spirare dell'ultimo secolo, alla Francia repubblicana e bastò a farla più forte di tutta l'Europa congiurata a' suoi danni, manca tuttavia agli Italiani. La coscienza della forza collettiva ch'è in essi e la fiducia ch'esercita sulle moltitudini una idea grande e vera, rappresentata in azione da un'ardita iniziativa - spente in Italia, fin dal XVII secolo, dal materialismo che fa centro dell'io - non sono finora rinate. Uomini che, guidati da un capo in cui s'era incarnato un momento di quella coscienza e di quella fiducia, videro dissolversi, senza combattere, tutto un esercito davanti ad essi, s'arretrano incerti, fra calcoli che dicono pratici, e nei quali non entra il pensiero, davanti a poche centinaja di birri o a poche migliaja di soldati, nell'anima dei quali freme appunto quel pensiero ch'essi, perchè sfugge ai sensi, trascurano. Altri - arrossisco scrivendolo - guardano anch'oggi, lieti d'una speranza che disonora, alle agitazioni e all'iniziativa possibile della Francia come ad áncora di salute. Guardava la Francia del 1792 - quando, come voi, non aveva che venticinque milioni di popolo ed era minacciata da nemici interni ed esterni - all'Italia?
Non guardava; e fu grande e vinse per questo. Guardava in sè, nella bandiera della Nazione; pensava al dovere di reggerla incontaminata e di salvare, non foss'altro, l'onore. E il nostro onore, o Italiani, è macchiato: macchiato di fresca macchia ad ogni ora. Finchè Roma è in mano d'altrui, e soltanto perchè un imperatore straniero ha detto: voi non l'avrete, ciascuno di noi dovrebbe non osare di guardare in volto un cittadino di terra libera: quel cittadino non può stimarci. Se gli uomini che hanno in Italia il potere non hanno più anima per sentire questa tristissima verità, e possono discuter tranquilli una economia d'alcune migliaja di lire o la scelta d'un bibliotecario, tal sia di loro; ma la sentano i giovani e conquistino, a purificarlo, quel potere, che dovrebb'essere una santa missione, ed è oggi inutile impotente menzogna.
L'Italia è forte: essa può provvedere libera e secura alla propria vita nazionale, senza calcolo d'interventi stranieri o di leghe monarchiche avverse. Essa non dovrebbe, nel compimento del Dovere, arretrarsi davanti ad alcuna minaccia: nessuno, a ogni modo, checchè essa muti ne' suoi ordini interni, le farà guerra. L'Impero di Francia è condannato e lo sa: gli è necessario concentrare le forze a prolungare di qualche anno o di qualche mese una incerta combattuta esistenza: l'iniziativa Italiana determinerebbe in Francia la crisi suprema. L'Impero d'Austria si dibatte fra le esigenze minacciose delle diverse nazionalità che lo compongono, e alle quali le concessioni forzate all'Ungheria hanno dato, aggiunta al diritto, opportunità. L'Italia, è d'uopo ripeterlo, ha due onnipotenti elementi di forza in pugno che l'assicurano, non solamente d'una assoluta indipendenza ne' suoi moti, ma del primato morale in Europa: l'Alleanza Slava e la questione d'Oriente. Un Governo Nazionale Italiano stringerebbe in un mese la prima, ajutando, attraverso l'Adriatico, gli Slavi meridionali a costituirsi, liberi d'ogni giogo, da Cattaro e Zara ad Agram: e susciterebbe la seconda, offrendosi amico, purchè si unissero in un disegno di Confederazione, ai tre elementi, Ellenico, Slavo, Romano, che dominano l'Impero Turco in Europa. Con armi siffatte, l'Italia può, nei limiti del Diritto e del Giusto, osar ciò che vuole.
E osare, in un paese dove le condizioni morali sono le accennate poc'anzi, è virtù di supremo calcolo. Balilla, quando avventava il sasso al soldato tedesco, Camillo Desmoulins, quando, in mezzo ad una moltitudine inerme, gridava: alla Bastiglia! - i 250 insorti olandesi, quando, muto, schiacciato il Paese, fuggiaschi essi medesimi e sbattuti indietro dalla tempesta, s'impadronivano della piccola fortezza di Brilla - erano, secondo ogni calcolo normale di guerra, stolti; e nondimeno iniziarono l'emancipazione delle loro terre. Il fanciullo genovese, gli altri citati e quanti iniziatori di grandi vittorie potrei citare, non avevano numerato le armi, studiato le posizioni, calcolato le forze nemiche; avevano tastato inconscî il polso al Paese, avevano sentito nell'anima giunto il momento, e osarono.
Oggi tra noi, popolo guasto pur troppo di materialismo, di scienza machiavellica e di culto tributato alle apparenze della forza, è necessario che il fatto iniziatore sorga di mezzo alle moltitudini d'una importante città, e suoni vittoria. Ma ho fermo nell'animo che quando quel primo fatto avrà luogo, sarà segnale a un ridestarsi italiano che pochi, amici o nemici, sospettano.
E a crear questo fatto basterebbe - anche di questo sono convinto - che quanti si professano in una città seguaci della bandiera s'unissero nella idea di crearlo; basterebbe che, deponendo ogni piccola gara, ogni dissenso sul guidare o seguire, ogni cieca adorazione o diffidenza di nomi, ogni pensiero di predicazione anticattolica, d'apostolato scritto, fra classi che non possono leggere, di riforme sociali impossibili coll'Instituzione che regge, d'ogni cosa che smembra le forze e svia gli intelletti dall'unico segno, concentrassero per brevi giorni tutte le potenze dell'anima intorno al disegno di riconquistar coll'Azione iniziativa all'Italia; non avessero innanzi agli occhî altra imagine che quella della Patria giacente nel disonore; non sentissero che la vergogna del mai profferito dal Brenno moderno; non avessero che un solo concetto, la necessità dell'osare; non avessero che una parola sul labbro: A Roma per la via che sola vi mena.
A combattere intanto le stolte diffidenze, nudrite tuttavia da molti sull'avvenire, giovi una dichiarazione, nella quale io credo potermi, senza presumere, fare interprete del Partito. La stampa repubblicana fu finora troppo esclusivamente negativa, troppo paga a registrare le colpe della Monarchia, troppo corriva ad accogliere come prova di forza e d'estensione del Partito ogni manifestazione ch'abbia luogo in Francia, in Ginevra o altrove, senza avvertire alle idee che vi si esprimono. E quelle idee, profferite per avventatezza da uomini che non sanno e credono audacia l'atteggiarsi a distruttori d'ogni cosa, e da gente venduta celatamente ai Governi e addottrinata a spaventare con esagerazioni la borghesia, sono con arte d'indegna calunnia raccolte e additate ai poveri di spirito dalla stampa governativa come idee del campo repubblicano e indizio dell'avvenire, se trionfasse.
Per questo, e anzitutto per amore del Vero, è debito d'allontanare ogni pericolo d'inconsulta imitazione fra noi; è tempo che la stampa repubblicana assuma, più che oggi non ha, carattere severità, di sacerdozio morale; è tempo ch'essa abbia, non solamente il coraggio d'affrontare le ire e le persecuzioni monarchiche, ma quello assai più difficile d'affrontare gli sdegni dei traviati fra i nostri, e la temuta taccia di moderata dagli avventati che odiano e non sanno amare.
Guerra al capitale, abolizione della proprietà, ostilità alla borghesia, violazione d'obblighi assunti anteriormente dalla Nazione, crociata contro i preti cattolici, terrore e vendetta, son grida insane, immorali, di pochi selvaggi della politica, aborrite da quanti repubblicani hanno senno e core: nessuno ha mai osato, nè oserà mai tentare di tradurle in fatti; e chi lo tentasse, troverebbe in noi nemici più acerrimi che non nei monarchici.
I repubblicani sanno che il capitale rappresenta frutti accumulati di lavoro; che la proprietà è il segno della missione trasformatrice data all'uomo nel mondo materiale; che la borghesia scende dagli artigiani dei nostri comuni repubblicani, emancipò l'Italia dai signori feudali e arricchì il Paese e sè col lavoro; che, o non esiste Nazione, o le generazioni sono solidali per gli obblighi legalmente assunti sotto un diverso governo; che la coscienza è inviolabile e le credenze religiose, se false o consunte, non possono combattersi se non con tollerante e pacifico apostolato; che terrorismo, persecuzione e vendetta sono armi di codardi o colpevoli, fatali a chi le adopra e da lasciarsi ai governi fondati sull'arbitrio e sull'ingiustizia e cadenti.
Il concetto della Repubblica tende a combattere, a scemare progressivamente i privilegi politici o civili dati a una classe, il monopolio, l'immobilizzazione dei capitali, il concentramento soverchio della proprietà, l'ingiusto e fatale alla produzione accumularsi di tasse sulle classi date all'industria, l'immoralità di speculazione, piaga crescente e alimentata da una trista, corrotta politica governativa, l'egoismo inevitabile d'una legislazione affidata alla nascita o al censo e sottratta all'intervento delle classi che ad essa soggiacciono: - tende a far sì che le classi s'affratellino in eguaglianza di doveri e diritti, di protezione, di progresso, d'insegnamento: - che, per mezzo dell'Associazione e d'ajuti dati dalle instituzioni, i capitali, che fanno possibile il lavoro, si trovino nelle mani di chi deve compirlo: - che il lavoro generi la Proprietà e la diffonda quindi al maggior numero possibile di cittadini: - che l'economia e l'aumento della produzione presiedano d'ora in poi al maneggio delle Finanze: - tende a sopprimere l'immobilità in ogni Potere, a distribuire gli uffici a seconda della capacità e della virtù, a dare coll'elezione coscienza a ogni cittadino della missione ch'egli è chiamato a compire sulla terra ov'è nato, a far mallevadori tutti delle opere loro, a conquistare - coll'onestà delle convenzioni sulle terre, coll'interesse creato ai coltivatori nel suolo che fecondano, colla moderazione delle tasse, con un sistema d'esazione sottratto agli arbitrî, coll'educazione data a tutte le classi, colla moralità dell'amministrazione, col compimento della Rivoluzione Nazionale - quel senso di securità pubblica, senza il quale ogni progresso è inceppato o precario.
Prima dell'azione o pendente l'azione, per un anno o per una settimana, come i fati vorranno, urge che questo, ch'io rapidamente accenno, sia soggetto d'ogni giorno alla nostra Stampa. I calunniatori devono pagarsi da noi col disprezzo. Ma il popolo, al quale molti ricordi della Repubblica francese suonano terrore e violenza, ha diritto a sapere da noi quali intenzioni ci guidino, e bisogna insistervi.
VI.
Ricapitolando il già detto:
La Rivoluzione Italiana non è compita: la monarchia l'ha fermata a mezzo!
Bisogna compirla o perire: perire di lenta morte nella rovina economica, o di violenta nell'anarchia: sperare che si stabiliscano, prima d'averla compita, condizioni di normale securità pel Paese, è follìa e i sintomi crescenti ogni giorno provano nella realtà ciò che la logica insegna al pensiero.
Roma; frontiere naturali; Patto Nazionale dettato da un'Assemblea Costituente: sono le prime condizioni del compimento:
Per uscire dall'inerzia e avviarsi al fine, è necessaria una iniziativa.
L'iniziativa non può escire dalla monarchia: non può escire dal Parlamento monarchico: non può dunque escir che dal popolo.
Il Paese è maturo per accogliere e secondare il sorgere di questa iniziativa popolare: il desiderio di un mutamento è universalmente diffuso in esso.
I due soli ostacoli che s'attraversino a quel desiderio, sono - incertezza diffidente sull'avvenire, alimentata da una stampa calunniatrice - mancanza di coscienza della propria forza.
Bisogna vincere il primo ostacolo coll'apostolato, dichiarando ripetutamente ciò che la Repubblica è e ciò ch'essa non è: separandosi lealmente e coraggiosamente dagli amici che traviano, e respingendo gli stolti concetti che sostituirebbero una tirannide all'altra.
Il secondo ostacolo non può superarsi che coll'argomento col quale il vecchio filosofo provava allo scettico l'esistenza del moto, coll'azione; bisogna che una città provi, sorgendo e vincendo, al Paese che volendo si può.
L'iniziativa Italiana diventerebbe rapidamente, se diretta da uomini che sapessero e osassero, iniziativa Europea.
E scrivendo questa linea m'è impossibile non aggiungerne alcune di sorpresa e lamento.
L'orgoglio, quando si sperde intorno a misere ambizioncelle dell'io e s'affatica a crear superiorità artificiali di ricchezza, di potenza o di quella fama d'un giorno che Dante paragonava a un color d'erba che va e viene, è colpa e meschina. Ma l'orgoglio raccolto intorno all'anima dal ricordo dell'ultima parola dei martiri per una idea, dalla voce profetica di tutta una tradizione religiosamente interrogata, da una riverenza che adora ogni indizio di disegno provvidenziale, da un immenso amore per la terra che vi fu culla, e ha le tombe dei vostri più cari, da un senso di vita collettiva che abbraccia quanti vi furono, sono e saranno più strettamente fratelli, dalla tacita eloquenza d'una natura che si stende, privilegiata oltre ogni altra, intorno a noi quasi mormorandoci: siate grandi quant'io son bella, - e versato sulla Patria, sulla Nazione nascente, sulla Bandiera, alla quale il mondo guarda per vedere s'è bandiera di Popolo annunziatore o di gente inutile, senza nome e senza missione - è cosa santa e pegno di grandezza futura al Paese nel quale si mantiene perenne, coscienza e fiamma alla vita. Sentono quest'orgoglio i nostri giovani, o l'hanno sommerso nel disprezzo dell'ideale, al quale oggi li alletta un materialismo che fu sempre conseguenza o preludio di servitù? A me quest'orgoglio del nome italiano insuperbì nell'anima fin da quando, nel silenzio comune e fra le mura d'una prigione, mi prostrai davanti al pensiero d'una Italia repubblicana iniziatrice in Europa e giurai fede alla sua bandiera. Come i figli della Polonia portavano con sè nella proscrizione, quasi reliquia, una zolla della loro terra, portammo, io e i miei amici, quel sacro pensiero con noi nell'esilio e lo serbammo incontaminato per voi, o giovani, sperando che lo raccogliereste in tempi migliori, quando vi sarebbe dato di tradurlo in fatto. E oggi vi è dato. Oggi l'Europa è in tali condizioni, che a voi basta il sorgere a compire, in nome d'un principio e affratellandovi arditamente coi Popoli che v'aspettano, la vostra Rivoluzione Nazionale, perchè la vostra Patria diventi iniziatrice d'un'Epoca e guidatrice delle Nazioni sulla via del Progresso. Una dichiarazione di Principî, dettata da Roma libera ai Popoli e appoggiata da due o tre atti ai quali più volte accennai, darebbe all'Italia un Primato morale, che da oltre a mezzo secolo è vacante in Europa.
Se agli uomini che, invecchiati anzi tempo, si chiamano pratici perchè hanno imparato a tacere, e patrioti perchè agli inevitabili errori del povero Lanza antepongono le colpe subdole di Rattazzi, la iniziativa italiana in Europa sembri folle utopia, poco monta. Ma i giovani? I giovani delle Università e della classe educata alle lettere e alle arti? I giovani che hanno in custodia nell'esercito la bandiera della Nazione, e sanno di potere con un fatto collocarla all'antiguardo d'Europa? I trentamila volontarî che dal Trentino all'estrema Sicilia fecero battesimo del loro sangue all'Unità del Paese? I popolani che, vergini d'anima e devoti per istinto non contaminato da calcoli all'avvenire d'Italia, adorano la religione e la poesia dei grandi ricordi? Son essi muti al pensiero della loro Patria fatta, da un atto energico di volontà, prima tra le prime e centro di moto pel bene alle Patrie sorelle? Sanno che dalla coscienza d'un alto dovere, d'una solenne missione da compiersi move tutta una Educazione e che il carattere d'una iniziativa determina tutta una lunga vita di Popolo? Rammentano che, soltanto per quella coscienza, la vita di Roma fu vita del mondo e che ciascuna delle nostre città repubblicane scrisse, nel medio evo, una pagina di gloria e d'incivilimento nella storia europea? Sentono in core l'immensa potenza che dovrebbe emergere dalle cento città d'Italia unite ad un fine, e che il sorgere della Nazione a guisa d'ancella sommessa, timida, incerta, tanto che il mondo non si avveda neppur di quel sorgere, è - per essa - scadere? Se gli Italiani possono guardare alle condizioni nelle quali versa oggi l'Europa e non vedervi i segni di un'Epoca, che aspetta e accoglierebbe con entusiasmo l'iniziatore, sono ciechi. E se lo vedono, ma dicono a sè stessi: altri può esserlo, noi non possiamo - sono imbelli e indegni davvero del nome che portano.
No: gli Italiani non saranno nè ciechi nè imbelli. Ma ricordino che dieci anni d'interruzione nel moto sono lungo periodo; che l'inerzia genera l'inerzia; che la corruzione non combattuta ingigantisce rapidamente e minaccia le sorgenti della vitalità; che le delusioni durate per breve tempo irritano gli animi, durate a lungo li affogano nell'immoralità dello scetticismo; che gli uomini, anche maledicendo, s'avvezzano a tollerare; che il disonore prolungato è la morte delle Nazioni; che le popolazioni ineducate son facili ad accusare dei loro mali, non l'interruzione della Rivoluzione, ma la Rivoluzione stessa; che il federalismo, muto dieci anni addietro, accenna oggi a rivivere; che gli indugi non fruttano ormai se non alle fazioni retrograde; e quanto più si prolunga la resistenza a una crisi inevitabile, tanto più la crisi riesce violenta e pregna di quei mali, ai quali sul cominciare di questo scritto accennai.
Comunque, quando l'iniziativa popolare s'assumerà il compimento del moto Nazionale Italiano, importerà che si raggiunga il fine colla maggiore rapidità e colla menoma violenza possibile. E le vie, se non erro, son queste:
Unità di bandiera. Isolare la questione di Roma; prefiggersi a programma una battaglia col Papa-re: ricominciare imprese, generose un tempo e feconde, impossibili attualmente e che non toccano se non un termine del problema, è oggimai colpa più che follìa. L'emancipazione di Roma - nè avrei mai creduto di doverlo ripetere - si compie in Genova, Milano, Bologna, Torino, Firenze, Palermo e Napoli, non altrove. L'Italia deve esser base secura d'operazione all'impresa. Una frazione d'arditi non riescirebbe che a chiamare, prima d'entrarvi, in Roma nuove forze francesi. A un fatto compito dalla Nazione in armi, nessuno oserà mover guerra.
Programma semplice, chiaro, puro da un lato di reticenze ed equivoci, puro, dall'altro, d'ogni voce che accenni a sistemi non definiti e molteplici, capaci quindi di false interpretazioni e di suscitare calunnie e terrori. Le due parole aggiunte da molti in Francia alla parola repubblica, inutili e senza valore pratico, hanno scisso il campo e indugiato il lavoro d'emancipazione più ch'altri non pensa. Chi mai può in oggi sognare d'una Repubblica fondata, come nell'antica Venezia, sopra un patriziato che più non esiste? Chi può intendere l'Instituzione repubblicana, se non come fatto anzi tutto sociale e mezzo al rapido miglioramento delle misere condizioni economiche dei più fra i produttori? Ma chi può, d'altra parte, esigere dichiarazioni solenni di socialismo, prima d'aver detto a quale fra i tanti sistemi cozzanti l'uno contro l'altro egli attribuisca quel nome? E a che varrebbe l'accettazione di quella voce straniera, quando chi l'accetta la intende probabilmente in modo diverso dal vostro? I soli pegni efficaci dell'avvenire sociale invocato stanno nell'attiva predicazione delle idee ragionevoli, desunte dal moto dell'Epoca e dai serî lavori di quanti hanno cercato e cercano di definirlo: stanno nell'ordinarsi del Popolo alla solenne espressione de' suoi più urgenti bisogni, nella scelta accurata degli uomini chiamati a dirigere, nelle questioni proposte dagli elettori ai membri dell'Assemblea, che dovrà dettare il Patto della Nazione.
Azione rapida e aperta di quanti credono necessario il compimento dell'impresa nazionale, di quanti s'avvedono che il moto è veramente di popolo destinato a vincere. Le incertezze, il tentennare, il fanciullesco amor proprio di quei che indugiano a dar l'opera loro perchè jeri non credevano venuto il momento, non impediscono lo svolgersi dei fati, ma prolungano la crisi, irritano gli animi di quei che iniziano e cacciano il germe di categorie funeste in futuro. La legge dei sospetti in Francia ebbe origine dall'esistenza degli uomini del dì dopo. Nei grandi rivolgimenti nazionali è concesso, se conseguenza di convincimento, l'essere ostili, non l'esser tiepidi. Dove si tratta di cose che involvono la salute del Paese, ogni uomo ha debito di combattere per impedire, o di secondare; e quando un fatto appare inevitabile, unica via perchè assuma condizioni normali e s'inanelli alla vita del Paese, è quella d'accentrarvisi intorno e giovarne il pronto sviluppo: gli uomini o le classi, che per mal fondati sospetti o indegno egoismo si ritraggono e lasciano un solo elemento a compirlo, preparano gravi mali al Paese e a sè stessi.
Scelta dei pochi - dacchè la Dittatura è, in una impresa di libertà, illogica e pericolosa - chiamati a dirigere il moto fino al momento in cui, raccolta la Costituente Nazionale, il Paese esca dalle condizioni provvisorie e ripigli vita normale: da quella scelta e dai primi atti di quel piccolo nucleo dipendono il carattere dell'iniziativa e metà del successo. Di fede provata, d'immacolata onestà, d'intelletto diritto e logico, di tranquilla pertinace energia, incapaci d'odio e di spiriti di vendetta, quelli uomini devono conoscere le condizioni di Europa e sentire la forza ch'è nell'Italia: devono esser capaci di movere arditamente al fine senza guardare al di là del Paese; capaci d'intendere che l'Europa governativa oserà s'essi titubano, rimarrà inerte se si mostrano forti e decisi, capaci di sommovere i Popoli, se i Governi s'atteggiassero a offesa o minaccia.
Riunione di Commissioni numerose nelle diverse zone d'Italia chiamate dai Municipî, dai Consigli locali e dai Delegati dell'Autorità governativa, a dirigere inchieste sulle condizioni morali, civili, economiche delle loro zone e preparare materiali ai lavori della futura Assemblea. Commissioni siffatte gioveranno a rassicurare gli animi sospettosi, a determinare il fine del moto Nazionale e a invigilare a un tempo la condotta del Governo d'Insurrezione.
Ma, e anzitutto, coscienza, negli iniziatori, dell'altezza e della santità dell'Impresa. L'Italia e l'Europa devono avvedersi dal loro linguaggio e dai loro primi atti che, sacerdoti del Dovere Nazionale, essi sono migliori di quei ch'oggi lo violano o lo fraintendono: che essi sono deliberati di vincere, ma non oltrepassando d'una linea la condotta indispensabile alla vittoria: ch'essi combattono per l'onore della Nazione e lo mantengono puro, incontaminato d'ogni macchia d'odio, di vendetta, d'intolleranza: che vogliono fondare un Governo morale e sono morali: che intendono a conquistare libertà di coscienza, di parola, d'associazione, non per sè, ma per tutti: che intendono a rivendicare le frontiere d'Italia, ma senza usurpar sulle altrui: a riconquistar colla forza Roma, negata dalla forza alla Patria, ma senza persecuzioni alle altrui credenze e lasciandone la vita e la morte all'apostolato pacifico del pensiero: che amano quanti nascono nella loro zona e si prefiggono di migliorare le condizioni dei più, non di peggiorare quelle dei pochi: che, come aborrono dal monopolio privilegiato d'una classe sulle altre, aborrono dall'antagonismo tra classe e classe: che la loro è bandiera d'associazione, non di risse civili: che sorgono a compire una Rivoluzione Nazionale interrotta, non a ricominciarla o perpetuarla.
A questi patti s'ha diritto di vincere: a questi patti ai vince.