Giuseppe Mazzini
Scritti: politica ed economia
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VOLUME SECONDO PENSIERO ED AZIONE.

SCRITTI SUL MEDESIMO PERIODO

AI MIEI FRATELLI REPUBBLICANI DOPO LA PRIGIONIA DI GAETA

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AI MIEI FRATELLI REPUBBLICANI

DOPO LA PRIGIONIA DI GAETA311

 

Io devo, dopo oltre a due mesi di silenzio forzato, una parola sul passato e sulle condizioni presenti al Partito: e questa parola deve esser libera d'ogni riguardo fuorchè all'amor del vero.

Il Partito ha, negli ultimi tempi, tradito il debito proprio, e con esso i fati del Paese.

Il dolore, ch'io sento profondo nello scrivere queste affermazioni, deve essermi scusa all'acerba franchezza.

Primo debito d'un Partito che professa una fede, dal cui trionfo dipendono l'onore e la grandezza della Nazione, è quello di non illudere stesso e altrui intorno alle proprie forze e alle proprie intenzioni. Il Partito ha violato quest'obbligo: ed è quindi scaduto, può risorgere se non facendone ammenda e accogliendo, senza ribellione d'amor proprio da qualunque sia proferita, la verità.

Dopo Mentana, dopo il rinnovamento della Convenzione, dopo fatti governativi, turpi oltre ogni dire, di persecuzione e corruttela; dopo avere da un lato calcolato il danno, che scendeva inesorabile dal sistema regnante all'educazione morale e alle condizioni materiali del Paese, ed esplorato dall'altro com'io potea le forze ordinate del Partito e le tendenze generali delle popolazioni d'Italia, dissi agl'influenti che rappresentavano nelle diverse zone i repubblicani, ch'io credeva fosse giunto il momento di sostituire al periodo dell'apostolato un periodo d'azione, e che, secondo un mio convincimento radicato in me tuttavia, una forte e vittoriosa iniziativa sopra uno o due punti strategicamente e moralmente importanti basterebbe a sfasciare una Instituzione, che non aveva omai intelletto, ardire di fede in , prestigio d'illusioni, fiducia de' suoi, compattezza d'esercito. E dissi ad un tempo che l'azione, santa pel fine e provocata dalle circostanze, diventerebbe nondimeno immorale, creando pericoli e sacrificî senza speranza, se chi doveva iniziarla non si sentisse forte di determinazione e moralmente convinto di poter vincere.

Io chiedeva risposta sincera e che non soggiacesse menomamente a influenza mia o d'altro individuo qualunque.

Mi fu detto: siamo concordi con voi: possiamo e vogliamo. E mi recai in Italia per ajutare i preparativi supremi e assumermi la parte di pericolo che mi spettava.

Allora cominciò un periodo d'esitazioni, di tentennamenti, di diffidenze reciproche, di paure e d'errori, ch'io non vorrei per tutte le felicità terrestri ritraversare, e dal quale raccolsi che il Partito non era maturo per forti fatti, educato finora alla coscienza della propria missione e della propria potenza.

Io non ridirò una storia che i più tra quelli pei quali scrivo conoscono, ma ne accennerò i sommi capi. - Uomini tra i più prodi in battaglie già iniziate affacciarono, troppo tardi e quando la parola d'azione era già corsa nelle file, la necessità d'aspettare una opportunità che creasse agitazione di piazza nel popolo; ed io pure preferiva quel metodo, ma chiedeva al Partito di creare esso medesimo, con radunanze per le tasse, per Roma o per altro, quell'agitazione: ed essi volevano aspettarla impreveduta e di altrove. Le opportunità inaspettate sorsero, sorsero due o tre volte; ma le città che dovevano afferrarle rapide come il ciuffo della Fortuna, e lo avevano promesso, mandavano allora a ottenere promesse di seguire, già più volte date, dall'altre, e le opportunità passavano. Altri, scambiando il problema d'insurrezione, che deve fondarsi su tendenze accertate nelle moltitudini, in un problema di guerra, chiedevano materiale, ordini, capi, disegni strategici senza fine. - Tutte le città si dichiaravano pronte, anelanti a seguire, nessuna a iniziare: intere zone, che in altri tempi sollevavano la bandiera, non sospettavano neanche che si potesse dire ad esse: due milioni d'uomini bastano sempre, se vogliono, ad esser seguiti: e la possibilità del moto si riduceva quindi a due o tre luoghi determinati. E da quei luoghi, gli uni parlavano ad ogni tratto di fare in qualunque modo, gli altri ricusavano tutti i modi proposti senza determinarne migliori. Poi, conseguenza inevitabile, si separavano, s'aspreggiavano, con diffidenza esagerata, gli uni cogli altri, invece d'intendersi e discutere con amore. Ebbi promesse di fatti complessivi importanti che sommarono in nulla o si ridussero a ebullizioni di bande o sommosse disapprovate da me, che pur tradivano l'elemento vulcanico latente, ma che invece somministravano argomento d'inerzia a chi non sapeva osare. E gli uomini noti e consenzienti con noi, in Parlamento e fuori, la cui azione insieme alla nostra avrebbe assicurato il successo, rimanevano inerti per poi dirci: vedete che non potete riescire. Finchè, disperato non del fare o non fare, ma del disfarsi del partito nei continui annunzî di fatti che non si ottenevano, m'avviai dove pure s'era solennemente promessa azione immediata, e fui preso.

E mentre ero in Gaeta si svolse più sempre la guerra che, sottraendoci il solo temuto nemico, ci lasciava padroni dei nostri fati: venne la settimana di tentennamenti, di ordini e contr'ordini governativi nella mossa su Roma: venne la caduta di Luigi Napoleone e la proclamazione della Repubblica; e nulla si fece, e la promessa data pubblicamente dai patrioti genovesi alla Francia, che l'Italia, s'essa sorgesse a Repubblica, la seguirebbe, si ridusse allo schierarsi di un pugno di volontarî sotto la bandiera francese, come se la inspirazione repubblicana dovesse, fatalmente, essere muta in Italia, o l'ajuto d'una Nazione fatta anch'essa Repubblica non dovesse riescire ben altrimenti efficace.

È forza il dirlo: il popolo è in Italia maturo: gl'influenti chiamati naturalmente a guidarlo, nol sono; mancarono e mancano, prodi come pur sono in campo, del coraggio morale, che solo crea le Nazioni: della fede che vien dall'amore; del culto al principio; dell'intuizione che rivela la forza latente e presta a suscitarsi nel popolo. Non è in essi finora virtù iniziatrice.

Intanto la situazione è mutata.

La caduta dell'Impero e la presunzione mal fondata, pur troppo che noi ne profitteremmo, ha spinto la monarchia verso Roma. Guasta, sviata, profanata com'è, Roma, fatta città italiana, è oggi, in virtù del passato e dell'avvenire, centro, perno, anima della Nazione. Nessuna grande questione può oggimai sciogliersi senza prima accertare quale sarà la condotta di Roma. E inoltre, l'iniziativa, abdicata dai nostri, spetta oggi al Governo: a' suoi errori, alle sue transazioni col Papato, al suo resistere agli istinti della Nazione. È d'uopo attenderne le decisioni manifestate, e prendere norma dalla sua condotta. Chiaritosi incapace di crearsi la propria opportunità per agire, il Partito l'aspetterà inevitabilmente da essa.

L'attività del Partito deve ora concentrarsi in gran parte su Roma, a infondere in essa il Pensiero italiano ch'essa deve rappresentare nel mondo; a richiamarla alle grandi sue tradizioni; a darle coscienza di ciò che la Nazione aspetta da essa; a rendere impossibile ogni vita del Papato fra le sue mura.

Un'agitazione pubblica dovrebbe iniziarsi con adunanze tenute in ogni città per sancire che da Roma deve escire, consecrazione della nuova vita della Metropoli, per opera d'un'Assemblea Costituente convocata dal suffragio universale, Il Patto Nazionale Italiano.

Ogni agitazione, che sorgesse tendente all'abolizione del Giuramento o d'altra qualunque esclusiva guarentigia monarchica, dovrebbe essere secondata.

E mentre l'ajuto dato a tutte le agitazioni miranti a chiarire la radicale opposizione esistente fra la monarchia e il progresso libero della Nazione creerebbe presto o tardi l'opportunità all'Azione popolare, unica via per la quale può risolversi il problema vitale, il lavoro ordinato dei nostri dovrebbe rafforzarsi e preparare più sempre l'elemento destinato ad afferrare quella opportunità inevitabile.

L'Alleanza Repubblicana deve tendere a moltiplicare i suoi nuclei - ad ajutare la stampa repubblicana e diffonderla nell'Esercito - ad affratellarsi più sempre colle Associazioni Operaje - ad evangelizzare, contro le calunnie e le stolte paure, ciò che la Repubblica è e ciò che non è - a educare i suoi a rinnegare il pregiudizio monarchico, che limita la possibilità di una iniziativa a tre o quattro città principali, e peggio, all'azione d'uno o d'altro individuo qualunque ei siasi - ad avvezzarli a sentire che se la disciplina è virtù essenziale d'ogni ordinamento finchè l'opportunità312 non è sorta, l'osare è virtù suprema di popolo quando è sorta, e mezzo sicuro di trascinare i capi che tentennano soltanto perchè diffidano - e a dirigere, senza inutili e funeste congiure, un assiduo apostolato di principî fra le file dell'Esercito Nazionale, dove abbonda più che generalmente non è creduto l'elemento italiano, ove aumentano ad ogni ora le cagioni del malcontento, ed è vivamente sentito il disonore che paci vergognose e guerre tradite hanno versato sulla bandiera.

È questo il dovere dell'oggi: al resto provvederanno Dio, i fati assegnati all'Italia e gli errori inevitabili della monarchia.

Noi fummo inferiori ai nostri propositi e alle circostanze: ma questo sentimento deve spronarci al meglio e a correggere i vizî che sono in noi, non a prostrarci nel dubbio e in una inerzia colpevole. Vive in voi pur sempre la forza, che non abbiam saputo dirigere al fine.

Ma in questo nuovo periodo di lavoro, voi, è necessario ch'io lo dica, non potete, fratelli miei, avermi oggimai compagno d'ogni ora, corrispondente assiduo con ogni nucleo, consigliero in ogni piccola difficoltà. Vostro e della Sacra Causa alla quale giurammo è questo logoro avanzo di vita ch'io ho.

Voi mi conoscete abbastanza per sapere che l'opportunità, dove sorga me vivo, non mi troverà lontano, e che voi non farete opera decisiva e degna di voi, senza ch'io mi trovi con voi l'ora prima o l'ora nella quale agirete. Ma sono inoltrato negli anni, infiacchito nella salute e incerto, pur troppo, pei fatti e le delusioni dell'ultimo periodo, dell'avvenire immediato. Sento il dovere di tentare di giovare all'educazione di quei che di certo opereranno nel futuro, degli operaî segnatamente, ch'io amo, e che hanno in gran parte dei fati italiani, scrivendo per essi tutti pubblicamente e con qualche lavoro politico-storico, impossibile finchè ogni minuto del mio tempo è assorbito da una corrispondenza con quanti professano la mia fede concernente i menomi particolari d'un ordinamento segreto, inutile se non conduce all'azione, facile ormai se spirito d'azione è in voi.

Norme, metodo, fine, tutto in questo ordinamento fu da lungo determinato.

Voi non avete oggimai bisogno giornaliero di consigli, nei quali io non potrei ripetervi se non cose dette e ridette. avete bisogno da me o da altri di sprone: se lo aveste, sareste indegni della Causa che propugnate; sprone d'ogni ora deve esservi lo spettacolo della vostra Patria com'è oggi, e la coscienza di ciò che un Governo nazionale davvero potrebbe farla.

Non v'aspettate dunque da me contatto regolare e moltiplicato: e nessuno s'offenda del mio silenzio. Sento per me impossibile la continuazione d'un lavoro, che non sarebbe se non ripetizione, probabilmente sterile, del passato.

Lavorate soli e tempratevi a forti fatti come siete oggi temprati a nobili desiderî. Io saprò dei progressi che voi compirete, e voi udrete di tempo in tempo la mia voce a dire a tutti quel tanto di vero essenziale che mi parrà d'intravedere.

Poi, se vorrete e vivrò, m'avrete compagno nell'azione. Prepararla è còmpito vostro: còmpito mio è prepararmi a morire degnamente con voi e per voi, quando sentirete di potermi dire, senza illudervi e illudermi: l'ora è suonata. - Addio.

 

5 novembre 1870.

 

Vostro

Giuseppe Mazzini.


 

 

 





311 Inedita.



312 Nell'originale "oppportunità". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



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