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LA GUERRA FRANCO-GERMANICA313
I.
La guerra Franco-Germanica è una espiazione per la Francia e un grave insegnamento per noi: è la prova, nella sfera dei fatti, d'una verità che proferimmo noi primi e che, se riconosciuta e accettata, modificherebbe il punto di mossa degli intelletti dati agli studî storici, emanciperebbe gli animi da un errore che fu negli ultimi cento anni fatale, e susciterebbe a nuova direzione di attività la coscienza dei popoli.
Nel tumultuoso affannarsi delle menti intorno alle vicende d'una guerra non impreveduta, ma pregna d'impreveduti rapidi eventi, la necessità di desumere imparzialmente dalla grave sciagura europea le lezioni che covano in ogni grande sciagura e ne formano il solo compenso, fu dimenticata. L'osservazione giornaliera fu inevitabilmente superficiale e assunse colore di parte. Gli uni si fecero esclusivamente francesi, gli altri esclusivamente germanici: taluni parteggianti per la Germania fino a Sedan, cominciarono d'allora in poi a parteggiare per la Francia, dimenticando che la guerra, provocata da Luigi Napoleone, doveva, iniziata una volta, assumere carattere di guerra tra due Nazioni e che ogni guerra ha per intento, non il vincere, ma l'ottenere condizioni di pace che sopprimano la necessità di combattere e vincere una seconda volta. Udimmo, da un lato, citazioni di ricordi storici a provare le ripetute offese alla Germania e le usurpazioni territoriali consumate o tentate in passato dalla Francia, come se tutte quasi le Nazioni non fossero state nel loro sviluppo egualmente colpevoli e la famiglia teutonica non possedesse anch'oggi tutta una considerevole zona usurpata su popolazioni slave, italiane, magiare; - dall'altro, parole stoltamente concitate sulle bombe gittate in Parigi, come se i soldati di Francia non avessero ventidue anni addietro bombardato Roma e non fossero presti, ove la fortuna arridesse, a bombardare Berlino; parole anche più stolte di Barbari e di nuovi Unni avventate ai Tedeschi per pochi fatti isolati inevitabili in una guerra combattuta fra quasi due milioni d'uomini in armi e quando le norme generali date dal comando germanico furono innegabilmente norme di battaglia leale, generosa talora. Ogni guerra è duello più o meno feroce. L'Europa deve rimproverare sè medesima se invece d'affrettarsi, coll'abolizione delle dinastie, la confederazione repubblicana dei popoli e una Instituzione internazionale di Arbitri in tutte contese, a sopprimerne le cagioni, è condannata a guaire inerte e impotente sui mali che ne derivano e proferire insani aforismi sui beneficî d'una pace perpetua impossibile finchè i popoli noti sono ordinati in assetto fondato sul Giusto o sulle naturali tendenze. Ma fino a quel giorno, ciascuno dei combattenti ha dovere, in nome della propria Nazione, di vincere; e se, per riverenza a una cattedrale o a una galleria, l'esercito germanico avesse rispettato Strasburgo e Parigi o ripassato, pago d'aver vinto a Sedan, la frontiera, cinquecentomila tra vedove e madri in pianto avrebbero avuto il diritto di dirgli: «Noi v'abbiamo dato la vita dei mariti e dei figli, non perchè l'orgoglio germanico fosse accarezzato dalla vittoria, ma perchè si conquistassero pegni di non dovere ripetere sacrifizî siffatti nell'avvenire.»
Altri, non sapendo darsi ragione dei subiti e continui rovesci toccati all'armi, riputate invincibili, della Francia, travolsero il proprio intelletto e l'altrui nel falso sistema storico che, nel secolo XVIII, attribuiva, duce Voltaire, i grandi eventi alle piccole cause: idearono tradimenti deliberati dove il tradimento non aveva scopo possibile e avrebbe infamato senza pro il traditore: mutarono in colpe premeditate, in disegni architettati da lungo, tra i nemici d'ogni libertà, errori ch'escirono da una fiacchezza frutto delle condizioni generali di Francia: spiegarono i più decisivi risultati della guerra con una inferiorità, non esistente, nell'armi, con un menomo errore di tattica di un generale, con un indugio di pochi giorni in una mossa strategica: incolparono i capi della difesa di Parigi perchè non ruppero con un vigoroso assalto la cinta d'assedio, quando oggi sappiamo che ogni vigore di battaglia era impossibile cogli elementi dei quali la difesa poteva disporre e di fronte all'assioma strategico che non si vince un potente esercito ordinato ad assedio se non armonizzando le mosse interne con quello di forze esterne sempre lontane, sempre respinte e disfatte nei loro tentativi per avvicinarsi: pensarono che se agli uomini preposti alla Difesa Nazionale si fossero sostituiti due o tre agitatori violenti, la Francia avrebbe rinnovato i miracoli del 1792 e respinto da sè, come il vulcano fa della lava, l'invasore straniero: dimenticarono che, maturo per forti fatti un paese, i capi non mancano mai - che sola la insurrezione nazionale poteva salvare la Francia - che in una guerra di nazione come quella della Spagna nel 1808, della Grecia nel 1821, della Francia nel 1792, il tradimento compito in un punto non soffoca il moto sugli altri - e che la rivoluzione dell'ultimo secolo ebbe traditori, defezioni, ribellioni interne, dissolvimento d'esercito, clero e patriziato nemici, città di frontiera conquistate dallo straniero, e non cadde per forza altrui: morì suicida, quand'era al sommo della vittoria.
Alle due cagioni di errori accennate s'aggiunse, a mezzo alla guerra, una terza e la più potente coi nostri: il fascino esercitato dalla parola Repubblica. Da quando quella parola fu proferita come formula di Governo in Parigi, i giudizî mutarono: la guerra diventò, per le anime più santamente bollenti di culto all'idea, guerra non di nazioni contendenti per sicurezza o incremento territoriale, ma di principî, di libertà repubblicana contro la monarchia invaditrice. E d'allora in poi si falsarono più sempre i giudizî sui fatti: ogni mossa germanica innanzi parve delitto: ogni necessità inseparabile dalla contesa, ferocia gratuita; ogni esigenza d'un popolo irritato o sospettoso del futuro, vendetta regia. Il vecchio prestigio rivisse tacitamente nei cuori: l'antica speranza che dalla terra accettata da tutti per lunghi anni come iniziatrice di progresso all'Europa partisse finalmente il segnale di rimettersi in via rialbeggiò nella mente dei migliori tra i nostri giovani. La formazione del campo Italiano, che fu poi l'esercito dei Vosgi, ebbe luogo.
Gloria a quei giovani, a quei che diedero la vita e a quei che l'offrirono! Speranza della nostra terra e della nostra fede, essi meritano da noi tutti amore e riconoscenza. La più splendida pagina della guerra, solenne di fratellanza e di solidarietà dei popoli nel futuro, fu scritta da essi e segnata, come s'addice a uomini che sentono l'unità umana nell'accordo tra il pensiero e l'azione, col sangue. E quella pagina, lezione profonda alla Francia, dirà per quanto duri la storia: «voi, quando eravate ancora alteri d'una bandiera repubblicana, lasciaste ch'altri vi trascinasse a sgozzare la nostra Repubblica in Roma; i repubblicani d'Italia accorrono a morir per la vostra.» È vendetta nobile e repubblicana davvero; e Dio vi benedica, o giovani, per averla compita. Non è colpa vostra se non poteste, facendo altro, porger più valido ajuto alla fede nostra e alla Francia.
Ma la condotta di quei prodi non deve traviare il nostro giudizio dei fatti. La guerra Franco-Germanica non è guerra di principî. Posteriore ad essa, la Repubblica non sorse in Francia voto spontaneo e deliberato di popolo che si leva in nome dell'eterno Dovere ad affermare la propria libertà ed il proprio diritto di non aver padrone da Dio e dalla sua Legge Morale infuori: fu conseguenza di fatto, escita dalla situazione, dalla codarda abdicazione di Luigi Napoleone e dall'assenza d'ogni altro Governo: collocò, sorgendo, le sue speranze, non nelle forze vive e nell'energia del paese, ma negli ajuti impossibili delle potenze neutre; e a blandirle, ad addormentarne i timori, celò quanto più potè il principio sotto l'intento della Difesa; scelse a primo rappresentante inviato a ogni corte, poco monta se dispotica o no, l'uomo della monarchia orleanista come Instituzione, del napoleonismo come sistema; evitò di raccogliere un'Assemblea che, convocata nei primi giorni del mutamento, avrebbe di certo inaugurato una politica repubblicana e si astenne dal dire in un Manifesto ai popoli dell'Europa: la Repubblica, annullando il plebiscito che gettò la Francia ai piedi d'un usurpatore, annulla tutti i plebisciti intermedi, ripudia gli atti internazionali del periodo bonapartista, riannette la propria tradizione politica col 1792 e col 1848, rinnega solennemente ogni idea di conquista ed è presta, occorrendo e chiedendo reciprocità d'obblighi, a combattere per l'unità territoriale Germanica contro ogni straniero che tentasse impedirla. Bismarck, uomo, come Cavour, di tendenze e non di principî, veneratore come lui della Forza e dei fatti, più avveduto di lui e consapevole della potenza che vive nella patria Germanica più assai che Cavour non era di quella che freme latente in Italia, non guerreggia contro la Repubblica nella quale ei crede d'intravedere una sorgente di debolezza pel popolo rivale, ma contro la Francia e per creare con nuovi acquisti una sorgente di perenne influenza alla Prussia. La Germania combatte, su via non buona, per la nazionalità minacciata in essa dal cesarismo ch'essa crede, esageratamente, incarnato tuttora nel popolo Francese. E noi abbiamo debito e diritto di dirle che, come noi Italiani c'illudemmo, essa s'illude, e che la Prussia monarchica potrà darle la forma non l'anima dell'Unità, il simbolo materiale, non la vita della Nazione: possiamo dirle che il mancare di generosità nel vincere dimezza il merito e i frutti della vittoria - che l'impadronirsi, senza libero voto dei cittadini, d'una zona di territorio, perchè la Francia vincitrice avrebbe forse fatto lo stesso, è tristo insegnamento di libertà al popolo che compie quel fatto e somma a ripetere l'immorale consiglio dato a noi talora dagli uomini del terrore: «siate intolleranti e feroci perchè i nemici d'ogni libero progresso son tali» - che l'annettere oggi, per via di conquista, quella zona alla Germania è un decretare inevitabile fra pochi anni una seconda guerra tra le due Nazioni e creare anzi tratto, come fece l'Austria usurpando il Lombardo-Veneto, una base e un potente ajuto al nemico che tra due popoli forti di 37 o 40 milioni d'uomini i metodi di guerra attuale non concedono altra barriera che i petti dei combattenti, la scienza dei capi, i mezzi finanziari e l'ardire - che i Pirenei e le Alpi si valicano dagli eserciti e le linee di monti, tremende all'invasore nell'interno delle terre invase, non furono mai nè saranno, se collocare sulla frontiera, ostacolo all'invasore; ma non possiamo, senza ingiustizia e follia, parlar di crociata repubblicana contro una brutale tirannide e avventare il nome di barbaro a chi, padrone d'imporre o di minacciare, lascia compiersi libere314 le elezioni e raccogliersi un'Assemblea che potrebbe, volendo, in nome della Republica315, respingere le proposte e romper guerra domani. La Repubblica è per noi cosa santa; ma il nome solo non basta; e il feticismo non è Religione. Dal Governo, con qualunque nome si chiami, il cui Delegato dichiara, quasi parodia del giammai di Rouher: abitanti di Nizza, voi appartenete da oggi in poi alla Francia, ed esilia, come nemico dell'integrità territoriale Francese, un cittadino che scrive con tendenze italiane un articolo di giornale, non escirà l'iniziativa della Repubblica universale. Se pensassimo altrimenti, non detteremmo articoli per La Roma del Popolo: saremmo noi pure in Francia.
Ad annuvolare intanto più sempre le menti, taluni gemono terrori sull'avvenire e intravedono nella sconfitta della Francia l'agonia della razza Latina, nella vittoria Prussiana il cominciamento d'una nuova èra di militarismo, nel destarsi dal pensiero all'azione della razza Germanica una prepotente invasione di Teutoni; e dietro ad essi la Russia, lo Tsar: terrori vani e argomento di pregiudizî e di considerazioni superficiali politiche. Quei profeti di sventura all'Europa dimenticano che l'espiazione ritempra; che la Francia, rinsavita dall'errore che una missione compita dia privilegio d'iniziativa perenne nello svolgersi dei fati d'un mondo, risorgerà più pura e più forte alla ricerca d'una nuova missione in un senso d'eguaglianza colle Nazioni sorelle; che una razza non more perchè la fiaccola irradiatrice delle vie del futuro trapassa d'epoca in epoca da uno ad altro dei popoli che la compongono: dimenticano che la civiltà Latina parve sparita, spenta per sempre nel V secolo e rivisse, col Papato, coi Comuni, coll'Arte, coll'Industria, colle Colonie, più potente di prima; che il principato, il materialismo e l'intervento cercato o servilmente accettato dallo straniero, sotterrarono, nel XVII, l'anima delle città italiane e che quelle anime spinte sotterra si confusero lentamente in una ed emergono oggi dal loro sepolcro di trecento anni chiamandosi Italia; che Roma è il sacrario della razza Latina, che da Roma escì due volte la parola unificatrice del mondo e che se prima Roma non è sommersa nel Tevere, la missione Latina vivrà eternamente trasformata e trasformatrice; dimenticano che un esercito di cittadini non fonda militarismo durevole; che tutti i cittadini entrano, in Germania, per tre anni nell'esercito attivo; che le questioni di politica interna rivivranno tra essi, dopo la pace, tanto più fervide quanto più quei cittadini soldati hanno conquistato col sacrifizio e colla vittoria coscienza di diritto e potenza; che il tedesco è popolo di pensatori e che il pensiero guida oggi inevitabilmente, dopo brevi traviamenti, a repubblica: dimenticano che lo Tsar è un fantasma forte soltanto, come lo fu Luigi Napoleone, delle altrui paure e dell'assenza d'una saggia e morale dottrina politica nei Gabinetti Monarchici; che il primo popolo capace d'averla, limiterà l'azione possibile della Russia all'Asia dove può esercitarsi benefica; che la metà delle popolazioni Slave-Polacche, Ceke, Serbo-Illiriche, aborre dallo Tsarismo; che il giorno in cui noi, invece di paventarle, stringeremo alleanza con esse e aiuteremo il loro formarsi in Nazioni, le conquisteremo alla Libertà: che in quella zona di popolazioni Slave, stesa fra la Germania e la Russia e ostile per antiche e recenti usurpazioni alla prima, vive la nostra difesa contro la sognata invasione teutonica. L'asse del mondo Slavo è sulla Vistola e sul Danubio, non sulla Newa.
No; noi non temiamo per l'Europa o per noi le conseguenze della guerra e della vittoria Germanica; temiamo, per lunga esperienza, lo sconforto irragionevole che segue, ov'anche è meritata, una delusione. I popoli, gl'Italiani segnatamente, si sono illusi, per abitudini non vinte ancora, sulle condizioni e sulla forza attuale della Francia e illusi sul valore e sulle conseguenze della parola repubblica proferita in Parigi; la disfatta della Francia pare ad essi disfatta repubblicana a pro del principio monarchico, disfatta della Potenza dalla quale a torto speravano il cominciamento di un'èra. Scriviamo per combattere questo sconforto. Se gli uomini di parte repubblicana avessero antiveduto come noi - e per cagioni che nulla hanno di comune colla questione che ci sta a cuore - la disfatta francese; se non avessero, fraintendendo i termini della contesa, imprudentemente detto: là si combatte per la repubblica, là si vince per la monarchia, noi, tra due Nazioni che amiamo e stimiamo, preferiremmo anche oggi il silenzio. Ma importa dire ai nostri e agli avversi, che quanto è accaduto doveva accadere, che nulla è mutato nelle nostro speranze, come nei nostri doveri, che le condizioni essenziali dell'Europa rimangono le stesse di prima, che la monarchia non esce più forte dalla guerra attuale, che dove la repubblica non è che di nome, nessun argomento può desumersi a suo danno dalla sconfitta.
II.
Dal cumulo delle affermazioni e delle opinioni proferite più o meno avventatamente sulla guerra Franco-Germanica emergono alcuni fatti innegabili, che giova registrare come base a un giusto giudizio e norma a desumere rettamente le conseguenze della vittoria germanica.
La guerra fu ideata, voluta, provocata senza cagione da Luigi Napoleone. Determinata poco dopo la pace di Villafranca, decretata dopo Sadowa, prenunziata dalla domanda d'una rettificazione di frontiere che la seguì ed ebbe rifiuto, data da quel tempo pubblicamente come parola d'ordine alle caserme, preceduta da ogni sorta di disegni e di preparativi militari, diventò finalmente necessità per l'Impero. A cattivarsi gli animi dei Francesi in qualunque impresa e per ogni sacrificio, Luigi Napoleone piegò, senza intenzione reale di libertà, dalle vie del terrore alle concessioni apparenti. E le concessioni, come ad ogni Governo che piega dal proprio principio, gli nocquero. La Francia, che aveva per lunghi anni tremato d'una potenza fondata su dispotismo illimitato e davanti alla quale l'Europa monarchica s'era tutta quanta servilmente curvata, sospettò vacillante nel padrone la coscienza della propria forza e ne trasse animo ad agitarsi. L'agitazione dei partiti, rifatta minacciosa davvero e ogni giorno crescente, collocò l'Impero davanti al bivio o di ceder più sempre e spegnersi nella libertà rinascente o di rifarsi un prestigio in Francia e in Europa adulando, colla conquista di terre vagheggiate d'antico, l'ambizione della prima, cancellando con vittorie splendide, nelle tendenze volgenti all'ostile della seconda, i ricordi della disfatta subìta, per energia pertinace d'uomini repubblicani, nel Messico e vincolando a sè nuovamente colla gloria e le promozioni l'Esercito vacillante. Un milione d'uomini, tra morti, feriti e infermi, il commercio, l'industria, l'agricoltura d'Europa gravemente offesi por un decennio, un capitale incalcolabile per sempre perduto o sviato dalle sorgenti di produzione, un patto d'odio e vendetta tra due Nazioni chiamate a un patto di fratellanza e di progresso comune, tutto è opera di un calcolo di egoismo nudrito nella mente d'un solo individuo forte d'un potere usurpato col delitto e codardamente accettato. Non sappiamo - se i popoli vogliono raccogliere l'insegnamento - di condanna più irrevocabilmente severa contro il principio avverso a quello che noi propugniamo.
Sconfitto dall'esercito Germanico il Francese che volle e non seppe assalire, resosi prigione l'Imperatore e sorto in Parigi, nell'assenza d'ogni potere, un Governo provvisorio che si disse timidamente repubblicano, ma non fu in sostanza che Governo della Difesa, avremmo noi tutti voluto che fosse cessata la guerra. La Germania nol volle e, dobbiamo confessarlo, difficilmente il poteva. Retrocedere, dopo Sedan, mantenendo, come taluni suggerirono, l'occupazione della zona reclamata, era, di fronte agli eserciti che rimanevano, ai dipartimenti meridionali che s'ostinavano a battaglia e a Parigi libera e padrona di dirigere la resistenza, un perpetuare la guerra assumendone tutti gli svantaggi: rivalicare la frontiera senz'altro col solo orgoglio della vittoria, era, come abbiamo detto, un suscitare i giusti risentimenti dell'intera Nazione e rinunziare all'intento d'ogni guerra ch'è d'aver pegni per impedirne il rinnovamento. Il Governo della Difesa non voleva e non doveva concedere il pegno materiale richiesto e non poteva, provvisorio com'era e revocabile ad ogni istante, dar sicurezza morale. L'esercito Germanico s'avviò a Parigi. I fatti che seguirono diedero un altro grave insegnamento all'Europa, ed è che un popolo è, in parte almeno e quando tollera lungamente, responsabile dell'ingiusta immorale politica del suo Governo - che deve, per legge di cose, soggiacere alle conseguenze - che non basta a evitarle la caduta di quel Governo, quando è determinata, non da fede e sacrificio spontaneo del popolo, ma da un errore o da un atto codardo di quel Governo medesimo.
E questi insegnamenti furono confermati dai casi della guerra, dalla serie non interrotta di rovesci ai quali soggiacquero l'armi francesi; rovesci cominciati fin dai primi giorni e inaspettati anche a quelli che, come noi, antivedevano rovinoso per la Francia l'esito finale della contesa.
Quei rovesci furono dovuti a molte cagioni di natura apparentemente diversa, ma tutte più o meno direttamente connesse colla prima suprema cagione, il potere fidato a un sol uomo, e coll'altra dell'orgoglio francese che presumeva di vincer tutti e sempre o a ogni modo. La prima cagione era avversa naturalmente al progresso; la seconda fece gli animi noncuranti d'esso; norma regolatrice in ogni guerra dev'essere quella di stimare il nemico, e i Francesi lo disprezzavano e credevano inutile ogni riforma.
Una grande riforma s'era intanto compiuta nell'esercito nemico alla Francia. Per impulso dato segnatamente dal principe Federico Carlo e seguito efficacemente da altri, la pedanteria militare prussiana aveva fin dal 1861 ceduto il terreno a una scuola più libera, più emancipata dal metodo servile che prescriveva il da farsi per ogni menoma contingenza possibile, e lo riduceva, come il Talmud gli Israeliti, a ufficio di macchina, costringendolo in ogni circostanza e per ogni atto a forme e regole prestabilite. Le istruzioni tattiche Prussiane di quell'anno iniziavano un nuovo periodo: affidavano gran parte dell'esecuzione di principî irrevocabilmente accettati dalla scienza guerresca al giudizio e all'inspirazione degli ufficiali: riconoscevano l'individualità e fondavano quindi più grave e più vigile la responsabilità. È questo il segreto di tutti gli ordini umani; e convalidato, quanto alla guerra, dal frequente successo dei volontarî, prevarrà più sempre in futuro nella difesa delle Nazioni. Soltanto, quel metodo esige più forti cure nella scelta degli individui destinati a funzioni speciali, nella costituzione dell'esercito, nel sistema delle promozioni, nell'istruzione sul maneggio delle armi dato a chi deve combattere, nella formazione anzitutto degli stati maggiori che dovrebbero accogliere gli ufficiali esperimentati migliori dei corpi e non appagarsi d'un esame di scuola politecnica o d'altra inefficace ad accettare le attitudini pratiche e di applicazione. Base dell'esercito Germanico è, come dicemmo nel numero antecedente, l'obbligo in ogni cittadino di ricevere una sufficiente istruzione militare e d'esser presto ad accorrere. E per intelletto dell'arte, studî d'ogni luogo sul quale accade o è probabile che accada un conflitto, provate abitudini pratiche, conoscenza di lingue e d'altro, lo stato maggiore è oggi in Prussia il migliore forse che esista in Europa.
In Francia, l'Impero, per le condizioni inerenti al sistema e appunto per l'obbligo che ad esso correva di far dell'esercito un'arme, non della Nazione ma d'un partito pericolante, ha diminuito nel soldato, naturalmente prode, la coscienza e l'entusiasmo del cittadino e allentato, dove quella coscienza è rimasta, il vincolo di fiducia tra soldati e capi senza il quale le vittorie non sono possibili. Il sistema del cambio, violazione dell'eguaglianza e della missione dei cittadini incoraggiata dai bisogni crescenti delle finanze imperiali, s'era negli ultimi anni aggravato di corruzione fatale alla forza delle file: la somma versata come sostituzione al servizio era presa; il cambio non curato, e le cifre pagate dal Ministero di Guerra rappresentavano un vuoto considerevole nella cifra reale dei soldati. I capi erano scelti a seconda, non del merito o della moralità, ma della loro devozione vera o presunta al bonapartismo: i generali, segnatamente cercati fra gli uomini delle guerre d'Algeria, guerre buone per avvezzare a tendenze ferocemente dispotiche e ad allontanare l'animo dall'effetto di patria, ma di natura diversa da quella delle grandi guerre regolari europee. Accarezzati da chi dovea serbarsi ad ogni patto in essi un ajuto contro il possibile insorgere del paese, quegli uomini intendevano la carezza, sentivano il bisogno che il capo supremo aveva d'essi e acquistavano impunemente abitudini e vizî di pretoriani: nuotavano nel lusso e lo tolleravano negli ufficiali: la depredazione s'era fatta, come nell'esercito Russo, tradizione in ogni ramo d'amministrazione militare e, come per l'armi Russe in Crimea, doveva produrre delusioni e disastri.
Il soldato, acuto osservatore e facile al biasimo in Francia più che altrove, indovinava e scemava di fiducia nei superiori e quindi di spirito di disciplina. Fondato sulla corruzione, l'Impero periva per essa. Le relazioni che giungevano a Luigi Napoleone sugli apprestamenti di guerra e sulle condizioni dei corpi erano menzognere: il vero avrebbe svelato i guasti operati dalla cupidigia. Quelle che gli dipingevano la Germania meridionale pronta a sollevarsi contro la Prussia erano egualmente false: il danaro profuso a cospirare per Francia tra i cattolici di quelle terre e che di fronte al senso della patria germanica sarebbe pur sempre riuscito inefficace, aveva impinguato le borse dei segreti incaricati di quel lavoro. E - copiatore infedele dello zio - Luigi Napoleone non verificava, credeva: ingannatore, ingannato. Quando, dopo il suo giungere al campo, gli rifulse il vero, era tardi. Davanti a un esercito nemico mirabile per esattezza armonica di tutti i rami d'amministrazione militare, per capacità in ogni frazione di farsi, occorrendo, unità e operare da sè e nel quale il soldato era fidente nei capi e che certo nulla gli mancherebbe, ei si trovò, dopo d'avere dichiarato guerra e scelto il momento per assalire, condannato alla difensiva, incapace di marciar su Magonza, incapace d'operare da Strasburgo contro la Germania meridionale, incapace di violare, avventurandosi per vincere allo sdegno dei neutri, la frontiera Belgica e girare il nemico, incapace perfino di distruggere i vicini centri nei quali si congiungono le vie ferrate germaniche. Inerte, immobile, aspettò gli assalti e soggiacque. Il solo valore tradizionale nei soldati francesi non bastò, nelle sfavorevoli condizioni preparate dalla corruzione e dalla inettezza dei capi, a resistere. L'intelligenza - ed è il terzo insegnamento che vorremmo vedere raccolto dai nostri - vinse il cieco valore. L'unità, la fiducia reciproca, l'armonia tra le diverse sezioni amministrative, l'esattezza nell'esecuzione dei disegni, la giusta parte d'indipendenza lasciata agli individui, la coscienza di combattere, non per un uomo o per un onore militare scompagnato dall'idea d'una sacra missione, ma per la propria Nazione, dimostrarono anche una volta come un esercito che accoglie in sè ogni ordine di cittadini sia superiore ad ogni altro. Il trionfo Germanico è il trionfo dell'ordinamento militare che ricordammo nell'altro numero e dell'insegnamento obbligatorio nella Nazione.
Ma la Repubblica? Il Governo della Difesa?
Sì: emancipata dall'Impero e anche dopo Sedan, la Francia poteva salvarsi, risorgere: una Nazione lo può sempre se vuole, e un mezzo milione di stranieri non basta per conquistare a patti disonorevoli un popolo forte di 38 milioni di cittadini. Bisognava distaccarsi interamente, apertamente, dalle tradizioni imperiali e dagli uomini della monarchia - dichiarare ai popoli, nei termini che accennammo nell'altro numero, la nuova politica e ottemperarvi gli atti - convocare immediatamente, non fosse che di notabili, un'Assemblea che confermasse - e sotto i primi impulsi l'avrebbe fatto - il Governo della Difesa, poi rimanesse o meglio si disperdesse, in piccoli nuclei di Commissarî ai Dipartimenti per suscitarvi e dirigervi l'entusiasmo - rinunziare a vincere con mosse ed eserciti regolari e organizzare guerra di popolo - abbandonare, occorrendo, Parigi, condannata ad arrendersi presto o tardi e, se s'antivedeva che il suo arrendersi sarebbe dissolvimento alla resistenza della Nazione, chiamare la Francia non alla leva in massa, ma all'insurrezione in massa - ordinare i giovani, non a versarli ineducati all'armi nelle sezioni dell'esercito regolare dove non potevano recare se non germi d'ineguaglianza e d'indisciplina, ma a collocarsi, liberi nelle loro inspirazioni e conoscitori dei luoghi e confortati dal pensiero di difendere i proprî lari, a guerreggiare nella loro zona, tanto che il nemico trovasse in ogni via una barricata, in ogni inoltrarsi un pericolo, in ogni boscaglia un agguato - mandare ai nuclei di partigiani uomini già esperti nelle cose di guerra come insegnamento elementare vivente - distribuire largamente armi, munizioni, danaro all'insurrezione - costringere con guerra siffatta il nemico a smembrarsi, a occupare una moltitudine di punti, ad assottigliare la propria linea - e stabilire intanto, in Bretagna, in Provenza o altrove, un punto di concentramento a tutti gli elementi regolari per riordinarvi e rifornirvi, eliminando gli antichi capi e scegliendo i nuovi tra gli ufficiali, un esercito pel momento in cui il nemico stanco, sconfortato, rotto in frazioni, avviluppato nelle spire dell'insurrezione, avrebbe prestato il fianco a una operazione decisiva d'offesa.
Questo ed altro poteva, doveva farsi. Il Governo della Difesa non lo tentò: seguì un metodo diametralmente contrario. Un uomo solo, Gambetta, parve volerlo tentare: ma fervido, energico nel linguaggio, fallì all'impresa nei fatti e s'ostinò anch'egli nell'errore di volere salvare la Francia colle mosse e cogli eserciti regolari.
Fu colpa di quegli uomini o della Francia?
Quanti, con grave torto e pericolo, accarezzano tuttavia negli animi dei nostri giovani l'illusione che dalla Francia debba escire l'iniziativa delle grandi cose, dei grandi moti che avviano innanzi l'Umanità, persistono e persisteranno nell'attribuire la colpa a que' pochi individui. Noi l'attribuiamo pensatamente alla Francia.
E non deriviamo, tardi profeti, la nostra opinione dai fatti recenti, bensì li spieghiamo con quella. Chi scrive affermò nel 1835 in una Rivista Francese, quando tutti vaticinavano in Europa iniziatrice dell'èra repubblicana la Francia e le idee repubblicane erano in Parigi rappresentate dai migliori per intelletto e per cuore316, che l'Europa e la Francia s'illudevano - che mancava in Europa l'iniziativa, - che ogni popolo poteva, credendo, sapendo, volendo, colmar quel voto, ma che bisognava cominciasse dal convincersi che la virtù iniziatrice non esiste più, monopolio perenne, in Francia o altrove - che la Francia l'aveva, fin dal 1815, perduta - che la grande gigantesca Rivoluzione del 1789 non era stata iniziativa, ma sommario e conclusione d'un'epoca - che splendidi fatti e presentimenti del futuro potevano rivelarsi in Francia, ma che per molti anni le solenni collettive mosse della Nazione non segnerebbero nuovi gradi di progresso all'Europa e si consumerebbero fatalmente per entro alla chiusa curva di un circolo. Oltre a un terzo di secolo è trascorso d'allora in poi e i fatti hanno confermato l'idea.
Nessuno può - noi men ch'altri possiamo - dimenticare i grandi servigi resi dalla Francia all'Europa, i grandi esempî di fortezza e di volontà che abbondano nelle pagine della sua vita storica, lo splendido tentativo, trionfante in parte, d'applicazione pratica del lavoro intellettuale di due epoche, Politeismo e Cristianesimo, e la conquista operata per noi tutti a prezzo di sangue dei diritti dell'individualità: nessuno può sospettare che la Francia non risorga a nuova e potente vita, anello indispensabile nella catena dei progressi da compiersi. Ma nessuno, popolo o individuo, può sottrarsi, comunque sia grande, alla Legge Morale che ha decretato s'espii presto o tardi ogni lunga deviazione dalla missione assegnata, ogni violazione del dovere.
Affascinata dall'orgoglio d'una lunga seria di trionfi coll'armi, guasta dalle proprie tendenze dominatrici e dal plauso servile dei popoli che la circondano, la Francia traviò dalla propria missione e dall'intento nazionale che avea, sul finire dell'ultimo secolo, definito: evangelizzazione di Libertà, d'Eguaglianza e di Fratellanza fra i popoli: sostituì la propria dominazione a quella dei tiranni che rovesciava; commise i suoi fati all'eletto delle battaglie; conculcò per accrescere potenza a sè stessa i diritti delle nazioni sorelle; sostituì alla bandiera della rivoluzione una bandiera d'Esercito, all'adorazione delle idee il culto degli interessi materiali, alla Fede in Dio la Fede nella Forza: più dopo e inevitabilmente alla politica dei principî, alla franca, aperta, leale dichiarazione delle proprie credenze, la politica dell'opportunità, delle transazioni, il gesuitismo d'opposizione che campeggiò nel regno dei due rami borbonici; rimpicciolì le sante idee di rinnovamento sociale in una guerra d'egoismo di classi e nelle angustie d'un problema esclusivamente economico; ringrettì nel 1848 il vasto pensiero repubblicano in una tattica anormale di riconoscimento dei principî e d'accettazione dei fatti che li negavano; suscitò, promettendo ajuto, i popoli a moti e li abbandonò; incredula, protesse il Papato; predicatrice di libertà, votò poi secondo Impero; dichiarò d'esser unica tra le Nazioni a combattere per una idea e volle, prezzo al combattere, danaro e terre non sue; ingelosì, Essa rappresentante esagerata dell'Unità, del moto di unificazione germanica; si disse avversa alla guerra e applaudì quando fu dichiarata; invase il Messico, dimenticò la Polonia, trucidò, movendo repubblica contro repubblica, Roma; e s'arrogò nondimeno, violando l'eterna massima: Dio solo è padrone; i popoli devono tutti essere, nell'eguaglianza e nell'amore, interpreti della sua Legge, diritto di perenne primato fra le Nazioni. La Francia oggi espia queste colpe coll'impotenza, colla mancanza degli spiriti del 1792, colle esitazioni dei suoi capi, colla codarda condotta della sua Assemblea, coll'inerzia da noi preveduta delle sue moltitudini.
E l'espiazione è severa, severa oltre il giusto; e per questo, largamente compita.
Guidata da una cupida Monarchia, la Germania ha traviato alla sua volta dai confini del retto che la riverenza al pensiero ingenita in essa le insegnava di non varcare, e sostituito al diritto di proteggersi un concetto di vendetta che semina i germi di nuove guerre. Dio e i popoli lo allontanino. Possa la Francia risorgere all'influenza che le spetta e vendicarsi delle ingiuste esigenze come i nostri vendicarono con essa l'eccidio di Roma, ajutando a promovere il trionfo d'una Unità Nazionale Germanica fondata sulla Libertà. Possa l'Italia, oggi colpevole di parecchie delle colpe che travolsero in fondo la Francia, affrettarsi a cancellarle, intendere la grande missione ch'essa potrebbe, volendo, compiere a pro di tutti in Europa, raccogliere la fiaccola di libertà popolare caduta dalle mani altrui e iniziare l'impresa dalla quale soltanto può, col giusto riparto delle terre europee fra le Nazioni e l'unità d'una fede morale comune a tutte, inaugurare un'èra di pace e di armonia nel lavoro.